domenica, 29 maggio 2005 [link]
a Roma, venerdì 3 giugno 2005, ore 17:30
nell’ambito dell’iniziativa Poesia in via Giulia
(sagrato della Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini)
una giornata dedicata alla poesia contemporanea
a cura della collana
“i megamicri” (Oedipus Edizioni)
diretta da Alfonso Amendola e Mariano Bàino.
Coordinamento:
Massimiliano Manganelli
Interventi critici di
Giancarlo Alfano, Francesco Muzzioli, Giampaolo Renello
Letture di
Guido Caserza, Michele Fianco, Florinda Fusco,
Marco Giovenale, Giovanna Marmo, Vincenzo Ostuni,
Angelo Petrella, Laura Pugno, Angelo Rossi, Antonello Tolve
mercoledì, 25 maggio 2005 [link]
Appunti verso risposte
all’Inchiesta internazionale sulla prosa poetica
promossa dalla rivista «YIP – Yale Italian Poetry»
(2003)
– ora anche in Italianistica OnLine –
Quando nel testo poetico entrano, a fare struttura, inaggirabili, flussi di cifre, cartine, calchi paleografici, oggetti, video, voci, e ancora differenti elementi “estranei”; e se questo accade nell’arco non di pochi anni, ma per decenni ricodificandosi – regola o eccezione – in autori distantissimi tra loro; allora metro e ritmo, come sintassi e spezzatura, possono e forse devono sentirsi chiamati a un lavoro di ridefinizione e discussione, e di confronto anche mediato – ma inevitabile – con le arti. Questo lavoro, per il secondo Novecento, non è forse neppure agli inizi.
Se la pagina 11 del Conte di Kevenhüller è la riproduzione anastatica di un avviso settecentesco; se le opere di Zanzotto sono costellate di disegni, frecce, abrasioni; se quasi l’intero lavoro di Emilio Villa è uno stemma di sconfinamenti e sovrascritture reciproche fra le arti; se – oggi – un “riporto” epigrafico conclude il poemetto Spostamento, di Giovanna Frene; (per tacere – ma perché tacere? – di decenni di poesia concreta, o delle esperienze di riviste come «Testuale» e «Anterem»); può essere ancora pensata – e come? – una diversa mappa della metrica del secolo ormai concluso? E poi: della sola metrica?
In verità molti parametri sono inadatti a toccare e descrivere cento anni di letteratura segnati già dal principio dai gesti di Tzara, o dalla voracità inclusiva e anarchica dei Cantos. Le opere-mondo sono così, funzionano così.
Ma la prosa in generale, banchetto interminabile, è per sua natura così, funziona così. (Il romanzo, solida istituzione borghese, ne è brevetto: fabbrica di fabbriche).
Se è vero che la prosa fascia e trattiene tutto, era logico fosse lei, nell’Ottocento a vapore, a prendersi la briga di divorare e far sua la poesia medesima, sovrapponendosi e facendo intreccio. (Per un resoconto – estenuato – cfr. A.Berardinelli, La poesia verso la prosa). Ma questo, ormai smascheriamoci, nemmen troppo fini ironisti, è solo l’involucro del problema. La buccia. La storia.
Quel sovrapporsi e intrecciarsi è il precipitato inventariabile di una nube assai più estesa, che non si può afferrare. Non tenerne conto significa elidere dal panorama il novanta per cento dell’arte contemporanea mondiale.
Il XX secolo sancisce molte dissipazioni: tra tante, quella dell’oggetto estetico.
“Estetico”: è termine che semmai, a tutto campo, attiene all’esperire in generale, alla traccia di un passaggio di senso, o alla verifica di un passaggio possibile di senso. E: se è sulla possibilità che l’obiettivo esercita la messa a fuoco, ecco che nessun oggetto appare privilegiato, o pre/visto. Il bello “in senso estetico moderno” si scioglie in entità mutevoli, su cui sembra che solo il tempo vanti talvolta un occasionale successo, ma per mera descrizione. Dopo qualche anno, l’auctor si profila: inquadrabile. Ha modificato il paesaggio, tutto prima e dopo di lui è differenza (da lui, grazie a lui).
Questo stato di cose è il logico sviluppo, su cui qui non si indugia, di un iter tematizzato – in forma esemplare – da Kant, ma avviato secoli prima.
Ora, dal primo orizzonte di un secolo addirittura Ventunesimo, è il momento di osservare poesia e prosa non come fossero due falene attratte una dai riflessi ed enigmi dell’altra. Si può forse azzardare e suggerire che il poème en prose in definitiva non è lo sperso sistema orbitale di due pianeti che, avendo smarrito il sole dei rispettivi generi (La Poesia vs La Prosa), ruotano lanciati nello spazio.
«Poesia in prosa» è semmai uno tra i sintomi di assai più vasto movimento; o: è un segno complesso, e un’endiadi.
È traccia o puntura formale di quel tessuto delle arti che all’estremo vede spiccare – sismografo o sisma lui stesso – Emilio Villa, o il fuoritesto Carmelo Bene; o – più “classificabili” – gli spazi metrici di Amelia Rosselli, le stringhe orizzontali – «incerti frammenti» – di Zanzotto, la pagina-proteo di Nanni Balestrini. Ma pensiamo anche a un testo-gesto poetico e politico come Le descrizioni in atto (1969), di Roberto Roversi.
Del secondo Novecento è propria una sensibilità cresciuta e crescente, verso quelle che non sono più avvertite come “ibridazioni” o “doppi codici”, bensì vere coesioni (cointeressenze?), parti gemellari, di testi-nelle-arti. O controtesti. Vanno allora citati i deliri razionali di Tommaso Ottonieri (magma plastico e veglia di prosa e poesia …e cd); il flusso ininterrotto di scritto ed esecuzione, performance, in autori-attori come Rosaria Lo Russo; l’oscillazione tra generi e lingue di Gabriele Frasca; il tessuto sonoro realizzato da Giuliano Mesa con il compositore Agostino Di Scipio, per Tiresia; l’opzione “lineare” (non versale) di Florinda Fusco.
Sono solo alcuni nomi. Di autori che sperimentano si direbbe definit(iv)amente in forma normale (nel senso di: logica, non conquistata, bensì “di partenza”) i passaggi tra generi e forme e codici – e così il continuo slittamento della prosa nella poesia, e viceversa. (Ma è bene insistere: questo moto recursivo è un tassello del dialogo più ampio con le arti, sempre testualizzato; nel contesto di una ridiscussione profonda di quello che fino a qualche decennio fa si definiva “senso estetico moderno”).
Staccare poesia da prosa, o legarle in coppia cioè dualismo appena ricomposto in semiritmi, così come sciogliere il lavoro degli autori citati da musica-teatro-videoarte… non è dato. È fattibile ma costituirebbe forse un’ennesima operazione integralmente “letteraria”: non illegittima, però incompleta e imprecisa anche entro i confini della propria legittimità.
testi citati (o sottintesi):
Giorgio Caproni, Il Conte di Kevenhüller, Garzanti, Milano 1986.
Giovanna Frene, Spostamento, Lietocollelibri, Como 2002.
Franco Moretti, Opere mondo – Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994.
Umberto Eco, Il segno della poesia e il segno della prosa, in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985.
Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
Emilio Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992.
Amelia Rosselli, Spazi metrici (1962), ora in Le poesie, a c. di E.Tandello, Garzanti, Milano 1997.
Roberto Roversi, Le descrizioni in atto (ciclost.1969, poi in varie ed., l’ultima per la Coop Modem, Bologna 1990).
Tommaso Ottonieri, Elegia Sanremese, Bompiani, Milano 1998.
Rosaria Lo Russo, Comedia, Bompiani, Milano 1998.
Gabriele Frasca, Rive, Einaudi, Torino 2001.
Florinda Fusco, linee, Zona, Lavagna 2001
Giuliano Mesa (con Agostino Di Scipio), Tiresia, prima esecuzione dell’opera a L’Aquila, 12 dic. 2001, Festival “Corpi del Suono”; regia del suono, Agostino Di Scipio; voce, Giuliano Mesa; elementi visivi, Matias Guerra.
[ Testo già comparso a stampa in «YIP – Yale Italian Poetry», volumes V-VI, 2001-2002 (distrib. dal novembre 2003), pp.415-416 ]
Giuliano Mesa: Il nuovo non può finire (due interviste a G.Mesa, a cura di Loredana Magazzeni): ora riproposte nel sito di Dissidenze
All’indirizzo http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/archivio_poesie.cfm è reperibile e ascoltabile una poesia da Il segno meno, andata in onda su RadioTre Rai il 23 maggio 2005 alle 17:00.
Escono ora due recensioni: una di Stefano Guglielmin a Il segno meno, in «Hebenon», anno X, terza serie, n.4, maggio 2005; e una di Luigi Severi ad Altre ombre, in «Poesia 2005», Annuario Castelvecchi, Roma 2005.
domenica, 22 maggio 2005 [link]
Senso e contesto
[ appunti per una conversazione fiorentina, 2004 ]
Adorno, da Teoria estetica: «Esigendo la soluzione, l’opera rimanda al contenuto di verità. […] una qualsiasi opera si volge per l’indigenza nascente del suo carattere di enigma, alla ragione interpretante. Dall’Amleto non si riuscirebbe a strizzare nessuna enunciazione; il suo contenuto di verità non è perciò minore»1.
Ovviamente qui Adorno si riferisce al fatto che «Le opere, e completamente quelle di suprema dignità, attendono la loro interpretazione» (come è detto più avanti nella stessa pagina); cioè attendono in definitiva un interprete, un lettore. Ma è forse particolarmente interessante flettere i brani citati nel senso della condivisione larga di contesto che l’opera fortissimamente chiede al “fruitore”: a tutti i fruitori.
Allo studioso, e alla filosofia, l’opera offre «enigma» da indagare – o ricodificare in domanda ulteriore. Ma in generale (e credo coerentemente col suo statuto di oggetto “estetico” in senso ampio ossia non in riferimento diretto immediato al suo essere opera d’arte) l’opera ponendosi come oggetto enigmatico disegna e apre o addirittura divarica l’orizzonte del possibile senso entro il quale un qualsiasi (non un particolare) osservatore si colloca come essere costituito di (portatore di/portato dal) senso.
Il dato vivo e vitale di un’opera sta allora nella sua mozione, immessa in e formata da una tessitura di echi formali (da decifrare, anche, secondo i loro propri codici), verso l’esistenza e anche la semplice possibilità di esistenza di un contesto condiviso, di una sorta di piattaforma o sfondo di senso che rende immaginabili e contrattabili gesti e vocaboli, interpretazioni in conflitto o in pace, e insomma tutta la macchina linguistica umana intesa come base significante, sociale, politica.
In questa accezione, la posizione di enigma è, come le due facce (= l’unica faccia) del nastro di Moebius, legata alla condivisione di contesto. Il contesto dei parlanti/ascoltatori. Degli occhi scriventi.
*
Il paesaggio: può essere visto, contemplato. La radice del senso estetico moderno sta in questo non intervento, e non finalismo. La visione delle luci nel camino, il vetro attraversato e distratto dal cruciverba di fili di pioggia e fili di osservazione; oppure chiaramente il nastro e lo spiegarsi delle colline disintegrato e riaperto, procedendo il treno, nel tempo: oggetti che non sono oggetti e non chiedono asserzione, o determinato dissenso, si appoggiano sullo sguardo come pretesti per il suo funzionamento, che così – ed esemplarmente – è verificato, è fatto vero (vivo), si ri-vede.
Simone Weil: «Questo … è la bellezza. Tutto quello che è bello è oggetto di desiderio, ma non si desidera che sia diverso, non si desidera mutarvi nulla, si desidera quel che è..»2.
Non si deve esser fraintesi parlando di bellezza. (Si sarà sempre fraintesi, per questo).
Non si tratta di una passività. Già i mezzi elettronici (che non sono solo macchine) si incaricano di incarnare in meccanismo e flussi la generale condizione del percepire. La tematizzano. E questo davvero strappa fuori l’agente dall’azione. L’esperienza facendosi riflesso – perché dimostrata riflesso in origine. (Dimostrata nei meccanismi).
Più a monte, quello che accade ad alcune generazioni che adesso scrivono è che in loro riemerge e davvero rischia di «traboccar dai fossi» [Montale, Nel sonno] e farsi ancora sangue oltre la morte, la netta sovrapercezione (come qualcosa che si senta sottolineata, ed entri due volte nei percorsi neurali che essa stessa stabilisce e, come detto sopra, verifica) del senso estetico moderno. Come un sentimento sversato, ora. Cangiante. Esperibile nei contesti che l’elettronica forma.
Tutte le volte l’ondata insiste e tenta un lembo che essa stessa ha contribuito a riscrivere: e non può dirlo – o non completamente – senza stare già variandone frastagli. (Merleau-Ponty continuamente lo ricorda).
In chi scrive con questa coscienza o “sentimento”, percepire è già troppo. Un laicissimo pre-sentire le cose (o l’antivedere – citando Massimo Sannelli) sposta e forse disarma ogni azione o passione, ed è insieme il principio della spezzatura, del taglio del verso.
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1 cit. anche in P.Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Laterza, Bari 2002, p.347).
2 La condition ouvrière (1951), tr.it. di F.Fortini, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p.285; cit. in Ingeborg Bachmann, Das Unglück und die Gottsliebe – Der Weg Simone Weils (1955), tr.it. in I.B., Il visibile e l’invisibile. Saggi radiofonici, a c. di B.Agnese, Adelphi, Milano 1998, p.102.