sabato, 28 gennaio 2006 [link]
Il numero 8 di “Poesia da fare”
Esce il n.8 [eBook PDF] (febbraio 2006) della rivista online “Poesia da fare”, a cura di Biagio Cepollaro.
Sommario
Biagio Cepollaro, Editoriale
Testi
Giorgio Mascitelli, Il problema della sete
Alessandro Raveggi, da Gravagli sopra crudelmente bello
- Letture
- Biagio Cepollaro, Su Schedario di Giuliano Mesa
- Immagine
- Biagio Cepollaro, Arena, 3
[ cfr. anche Italianistica OnLine ]
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Biagio Cepollaro, La Rete e
la Poesia
[ da www.cepollaro.splinder.com ]
Accettare il fatto che in Italia la poesia non abbia nessun mercato (in un Paese dove quasi la totalità del fatturato dell’editoria proviene dalla scolastica) può far tirare un respiro di sollievo.
La Rete sembra nata proprio per Lei.
Già il vecchissimo ciclostile aveva avuto un che di arioso ma ora, si potrebbe dire, ogni ombra è fugata.
Si va diffondendo una pratica che, con naturalezza telematica, fa rimbalzare un testo nuovo da un sito ad un altro, in amicizia.
Sociologicamente si sta sganciando l’informazione dal suo supporto ma anche la dimensione autoriale del poeta da quell’ambivalente commistione che l’individualismo romantico, legato all’oggetto-libro, aveva creato con l’individualismo proprietario della borghesia in fase eroica.
L’egoità del poeta non perde in narcisismo ma si può lasciare definitivamente alle spalle anche l’apparenza della residua – se possibile – illusione economica, illusione che solo onesta ingenuità, sprovvedutezza o ridicola malafede fin qui avevano alimentato. E ciò è bene.
[B.C.]
mercoledì, 25 gennaio 2006 [link]
Decisamente ricca la Revue de presse di gennaio 2006 su Cythère-Critique. (Per non parlare del Manifesto del comunismo dandy, del maestro Francesco Forlani…).
Gherardo Bortolotti mi segnala l’uscita del n.3 di Coconut (che prontamente inserisco tra i link dedicati alla scrittura di ricerca).
Tre interi libri di Marina Pizzi sono disponibili in rete: Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi e Sorprese del pane nero.
Alessandro Broggi segnala un link interessante a p0es1s – Digitale Poesie, Berlino 2004.
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per slowforward:
l’intenzione è quella di inserire più testi, moltiplicando i dettagli (e un rigore, una fedeltà a voci che valgono). nonostante e anzi dentro e contro le difficoltà e la piccola o meno piccola cenere che si accanisce in questi giorni.
lunedì, 23 gennaio 2006 [link]
1.
Lo status di paradosso della parola poetica può consistere nella sua capacità di esibire la propria necessità di esistenza (certe frasi nascono ‘compiute’) senza che di questa si conoscano in anticipo delle regole (di formazione), delle ragioni. Tende a risalire alla propria fonte, in una sorta di non miracolosa né ineffabile ma certo inafferrabile autofondazione. Non verificabile però sempre verificata, accertata.
È – anche – storia della materia conosciuta (materialismo): storia della percezione. In fondo ogni atto sensato di conoscenza, ogni produzione di senso particolare entro una conoscenza del mondo generale, lavora in questo modo. Quando il gesto conoscitivo diventa linguaggio a complessa formalizzazione, può avviarsi a costituire discorso poetico.
2.
Aldo Tagliaferri individua invece nella scrittura poetica un dualismo vero e proprio (p.es. materia/parola). Utili le sue note su Il labirinto di Cnosso:
«La Sfinge, l’altra figura di questa doppiezza e di questo trapasso, non ancora del tutto nata, emerge con il capo di fanciulla dalla matrice dell’essere, e conseguentemente ha volto umano e corpo teriomorfo. All’inverso, simmetricamente, il Minotauro ha corpo umano e testa di animale, perché viene forzato a rientrare nelle tenebre della caverna-utero e la sua nascita viene cancellata e ricacciata indietro verso l’indicibile. La cosa riesce solo per metà e solo il capo si reimmerge nella Grande Madre, parallelamente al fatto che il labirinto ne risulta in parte sotterraneo […] e in parte scoperchiato verso l’alto, vero intreccio di luce e oscurità, esattamente come l’enigma» [1].
Paul Zumthor ricorda che all’origine delle lingue romanze sta un indovinello, dunque una sorta di gioco con l’oscurità: «È strano che la più antica composizione che ci è rimasta in lingua romanza sia un enigma, tracciato a margine di un libro di preghiere copiato a Verona verso l’800, e il cui oggetto è la scrittura stessa di chi lo annotò: metafora fondamentale, ormai da molto tempo tradizionale»: segue la citazione – appunto – dell’indovinello veronese: «boves se pareba / et alba pratalia araba / et albo versorio tenebat / et negro semen seminabat» [2].
Come il minotauro (e come la struttura stessa dell’enigma, che ha ragion d’essere proprio nell’«intreccio di luce e oscurità», di detto e non detto) anche il soggetto da indovinare qui agisce tra bianco e nero, «albo» e «negro». Il minotauro, l’enigma, lo scrivere (nero su bianco), e lo scrivere un enigma, sono attività legate, si rispondono.
La scrittura scrive sé attraverso l’enigma: che è dunque il centro del suo poter essere (anche storicamente: alla radice delle lingue romanze, ci dice Zumthor). Sono visibili le mani di Escher: una disegna l’altra. Anzi: non le vediamo semplicemente, siamo noi stessi coinvolti nel (fondati e insieme fondatori del) loro gesto, del loro paradosso.
Non esiste un esterno del linguaggio, su cui operare, o da usare. Il linguaggio non è uno strumento ma già la casa (umana) di tutti gli strumenti; è corpo-segno.
3.
Adorno, da Teoria estetica: «Esigendo la soluzione, l’opera rimanda al contenuto di verità. […] una qualsiasi opera si volge per l’indigenza nascente del suo carattere di enigma, alla ragione interpretante. Dall’Amleto non si riuscirebbe a strizzare nessuna enunciazione; il suo contenuto di verità non è perciò minore» [3].
Ovviamente Adorno si riferisce al fatto che «Le opere, e completamente quelle di suprema dignità, attendono la loro interpretazione»; attendono cioè e in definitiva un interprete, un lettore. Ma è particolarmente interessante flettere i brani citati nel senso della condivisione larga di contesto che l’opera fortissimamente chiede al “fruitore”: a tutti i fruitori.
Al filosofo, allo studioso, l’opera porge «enigma» da indagare – o ricodificare in domanda ulteriore. Ma in generale (e credo coerentemente col suo statuto di oggetto “estetico” in senso ampio ossia non in riferimento diretto immediato al suo essere luogo d’arte) l’opera ponendosi come oggetto enigmatico disegna e apre o addirittura divarica l’orizzonte del possibile senso entro il quale un qualsiasi (non un particolare) osservatore si colloca come essere costituito di senso (portatore di/portato dal senso).
Il dato assolutamente vivo e vitale di un’opera d’arte sta allora nella sua mozione, incarnata in una tessitura di echi formali (da decifrare, anche, secondo i loro propri codici), verso l’esistenza e anche la semplice possibilità di esistenza di un contesto condiviso, di una sorta di piattaforma o sfondo di senso che rende immaginabili e contrattabili gesti e parole, interpretazioni in conflitto o in pace, e insomma tutta la macchina linguistica umana intesa come base significante, sociale, politica.
In questa accezione, la posizione di enigma è legata, come le due facce = l’unica faccia del nastro di Moebius, alla condivisione di contesto. Il contesto dei parlanti/ascoltatori. Degli occhi scriventi.
4.
Tanizaki: «V’è, nella stanza principale delle case giapponesi, una nicchia (il toko no ma) in cui, volta per volta, si usa esporre un quadro, o qualche fiore. Tali oggetti non mirano tanto a ravvivare l’ambiente, quanto ad aggiungere, al buio, una dimensione cava» [4].
L’intenzione di far echeggiare nel vuoto dell’ambiente un vuoto ulteriore è la stessa che sostiene il procedimento allegorico di quelle che si potrebbero chiamare allegorie cave. L’eco rimanda a un possibile contesto condiviso generale, ossia a un modo di incontro fra persone (e a un rigore nella parola, nel condividere senso) ampio: non necessariamente riferito a un significato, a una tassonomia rigida, a una tavola di chiarezze, decifrazione, elenco di corrispondenze.
L’esempio tratto dall’osservazione di Tanizaki è incisivo proprio perché – come è chiaramente annotato – non si ferma sul contenuto del gesto di esporre. Dice «un quadro» oppure «qualche fiore». Quasi dicesse (anche se non è così) «qualsiasi cosa».
Ossia: è l’addizione della «dimensione cava» al «buio», l’atto risolutivo. O al contrario, più che risolutivo, produttore di enigma. (Non fine a se stesso: ma curvato e diretto precisamente sulla più ampia generale condivisa facoltà di corrispondere, cifrare-decifrare, imbattersi nel senso-non-senso).
5.
Una postilla alla distinzione tra ineffabile e inafferrabile: non è una novità: niente è radicalmente estraneo a processi di semiosi. Ogni cosa, se è-per-noi, è in qualche modo significata. Chi percepisce ritraduce e semiotizza. Reagisce; sempre in qualche modo.
È effabile, il reale, per il fatto di essere. (Non per il fatto di essere reale). L’esperienza più rarefatta incompiuta e persa, può comunque essere semiotizzata come rarefatta e indicibile. In tanto, ossia in quanto detta indicibile, è detta.
Ben diverso – e più ampio indulgente duttile – è il campo, realissimo lui, dell’inafferrabile. È il vero campo di s/definizione della realtà percepita.
[ m.g. ]
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[1] In Aldo Tagliaferri, L’invenzione della tradizione. Saggi sulla letteratura e sul mito, Spirali, Milano 1985: p.68.
[2] Paul Zumthor, Langue, texte, énigme (1975), tr. it. Il Melangolo, Genova 1991, p.35.
[3] Cit. anche in Pietro Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Laterza, Bari 2002, p.347.
[4] Junichiro Tanizaki, Libro d’ombra (1935), cap.8. Traduz. it. 1982; Ed. Bompiani, Milano 2002: p.42.
domenica, 22 gennaio 2006 [link]