domenica, 27 febbraio 2005 [link]
più la persona è fatta oggetto di aggressione, più ha valore negare le bugie della rappresentazione. sbarrare cioè quel ricorrente teatro che millanta di saper compilare mappe in scala 1:1.
ogni linguaggio ‘realista’ è un regresso dei segni.
che sono segni umani proprio perché sempre si alterano
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il lavoro e la realtà bastano.
la distruzione del ‘solo’ tempo individuale è – per alcuni ‘oggetti’ – cancellazione riuscita, integralmente: niente margini di resistenza. (come? sarebbe da ridere). la mano non pensa mica, spazza le briciole di gomma via dal tavolo
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Il centro della possibilità
Arretrare ovvero risalire fino al limite significa arretrare ovvero risalire verso il verbo arretrare, risalire. Verso il gesto-parola del risalimento. (Logico: in Escher: le due mani si disegnano a vicenda).
Questo atto è paradossale, o è il paradosso. Dunque il centro non del parlare, ma del poter parlare.
Lo status di paradosso della parola sembra non integralmente condiviso da Tagliaferri, che inclina a una conservazione del dualismo (p.es. materia/parola) in quanto tale. Utilissime sono però le sue note su Il labirinto di Cnosso:
«La Sfinge, l’altra figura di questa doppiezza e di questo trapasso, non ancora del tutto nata, emerge con il capo di fanciulla dalla matrice dell’essere, e conseguentemente ha volto umano e corpo teriomorfo. All’inverso, simmetricamente, il Minotauro ha corpo umano e testa di animale, perché viene forzato a rientrare nelle tenebre della caverna-utero e la sua nascita viene cancellata e ricacciata indietro verso l’indicibile. La cosa riesce solo per metà e solo il capo si reimmerge nella Grande Madre, parallelamente al fatto che il labirinto ne risulta in parte sotterraneo, come si è detto, e in parte scoperchiato verso l’alto, vero intreccio di luce e oscurità, esattamente come l’enigma».
[ Aldo Tagliaferri, L’invenzione della tradizione. Saggi sulla letteratura e sul mito, Spirali, Milano 1985: p.68 ]
Zumthor:
«È strano che la più antica composizione che ci è rimasta in lingua romanza sia un enigma, tracciato a margine di un libro di preghiere copiato a Verona verso l’800, e il cui oggetto è la scrittura stessa di chi lo annotò: metafora fondamentale, ormai da molto tempo tradizionale […:] boves se pareba / et alba pratalia araba / et albo versorio tenebat / et negro semen seminabat»
[ Paul Zumthor, Lingua, testo, enigma, Il Melangolo, Genova 1991, p.35 ]
Come il minotauro (e come la struttura stessa dell’enigma, che ha ragion d’essere proprio nell’«intreccio di luce e oscurità», di detto e non detto) anche il soggetto da indovinare qui agisce tra bianco e nero, «albo» e «negro».
La scrittura scrive [sé] attraverso l’enigma: che è dunque il centro del suo poter essere (anche storicamente: è alla radice delle lingue romanze, ci dice Zumthor). (Daccapo le mani di Escher).
sabato, 26 febbraio 2005 [link]
Si prega di non inviare files né libri al mio indirizzo. Non è in nessun modo possibile fare alcun tipo di recensione, né leggere testi ora; ma nemmeno archiviarli.
La situazione (che in questo momento è a dir poco CRITICA) sicuramente non varierà per un lungo tratto di tempo. Testi inviati ora, in formato elettronico o cartaceo, non potranno essere conservati.
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quello che la realtà impone prescinde dalla sociologia. prima dello sguardo esiste l’oggetto. il suo taglio.
ci sono delle retoriche che hanno imparato da altre retoriche, e decidono di fare a meno delle condizioni oggettive di vita che presumono di descrivere
domenica, 20 febbraio 2005 [link]
Il dominio dell'”estetico”
Giuseppe Montesano ha scritto su «L’Unità» del 19 gennaio un interessante intervento sul libro di Tiqqun, Teoria del Bloom (Bollati Boringhieri, 2004), inserito poi da Helena Janeczek sul sito di Nazione Indiana. A mio parere il testo è da leggere in parallelo e in dialogo con Contro la comunicazione, di Mario Perniola (Einaudi, 2004).
Da queste basi, si può affrontare una ulteriore linea di lettura della (post)modernità: l'”estetico” non è da confondere con il “dominio dell’estetico”. Ciò che banalmente si definisce “l’estetico” domina precisamente perché non ha UN “dominio” inteso come campo (che si millanta sia solo “il bello”), ma riguarda semmai l’INTERO ambito del nostro esperire, come si è configurato nella variante occidentale dell’anthropos nata all’incirca nel XVII-XVIII secolo.
Quando un ambito della percezione (e della sensatezza attribuita alle percezioni) si rivela essere non “un” ambito bensì “tutti” gli ambiti, naturalmente domina.
Se intendiamo (iuxta Emilio Garroni, come insisto a ripetere) che l’estetica è una filosofia non speciale, intendiamo che essa riguarda ogni ambito dell’esperire: e della sensatezza dell’esperire.
In occidente l'”uomo” (in questi ultimi 3-4 secoli) è o è diventato – insomma – una raggiera di campi semantici tutti compresi dall'”estetico”. (Che li eccede).
Su questo non si sono ancora spese abbastanza parole.
[ Rif.: Emilio Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, 2004 ]
Una nuova recensione al Segno meno (Manni, 2003), scritta da Mimmo Cangiano, è ora nel sito di FuoriCasa. Poesia
venerdì, 18 febbraio 2005 [link]
Le mancanze
Alessandro Spina (Conversazione in piazza Sant’Anselmo, Morcelliana, Brescia 2002): «Uno dei modelli letterari più straordinari è stato fin dal secolo scorso il Bildungsroman – o romanzo di formazione. Sembra che adesso abbia lasciato il posto al romanzo di congedo, di cui La recherche du temps perdu è esempio eccelso. Romanzo dettato, scrive la Campo, “dalla passione di un estremo commiato”. / Proprio per questo viene naturale annoverare alcune opere di antropologia fra i grandi romanzi del nostro tempo. Il personaggio non accumula più: ma guarda un’ultima volta prima di abbandonare. […] Si salva nei libri, ciò che più non riesce a sopravvivere: “Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte”. È un passo che abbiamo già citato, ma sembra il motto, la divisa della Campo».
Sottraendo a questa pagina quanto di ‘mitizzante’ sottintende (in senso completamente astorico), non si può che concordare. La scrittura (termine preferito a «l’autore») non istituisce solo nomi né soltanto oggetti, tantomeno miti; semmai fa continuo riferimento a un più ampio e generale istituire (nomi e nessi e senso): è la storia del percepire, dell’esperire: ricondotto alle sue condizioni di possibilità.
Un ampio e indefinito senso di mancanza si genera dal continuo poter prescindere da oggetti (e tuttavia incarnare in oggetti tale mancanza).
lunedì, 14 febbraio 2005 [link]
Esce «L’Ulisse» n.3
È in rete il terzo numero de «L’Ulisse» (www.lietocolle.com/ulisse), rivista monografica di poesia e pratica culturale diretta da Alessandro Broggi, Carlo Dentali e Stefano Salvi. La nuova inchiesta è dedicata a “Arte e realtà”/”Scrittura e realtà”.
Testi critici di
Giancarlo Majorino, Andrea Cortellessa, Francesco Manacorda, Joshua Decter, Giorgio Verzotti, Niles Eldredge, Giampiero Neri, Amedeo Martegani, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Eraldo Affinati, Pietro Spirito, Andrea Inglese, Giampiero Marano, Marco Giovenale, Giuseppe Cornacchia, Angela Diana Di Francesca, Giulio Mozzi, Camillo Pennati
E pagine di
Edoardo Erba, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Charles Simic, Nelo Risi, Fabio Pusterla, Luigi Di Ruscio, Biagio Cepollaro, Claudio Damiani, Ennio Cavalli, Mario Desiati, Angelo Rendo, Pietro Berra, Corrado Paina, Sergio La Chiusa, Domenico Cipriano, Francesca Moccia
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è incomprensibile che ancora si debba (come si deve) parlare di ‘non rappresentazione’ in poesia. parlare cioè di non realismo. così come: parlare di scrittura di ricerca.
la gran parte della scrittura italiana contemporanea è contemporanea al 1940. (la politica non è da meno, va da sé).
se gli artisti visivi lavorassero come lavorano i poeti italiani, si esporrebbero solo iris à la De Pisis. e trash dismesso dalla Francia di circa centoventi anni fa.
sabato, 12 febbraio 2005 [link]
in concreto è via via meno possibile condividere la comunicazione e il linguaggio della comunità italofona. ci sono buone ragioni per negarsi alle forme sia retoriche sia antiretoriche che questo paese sta organizzando (in dominio violento sui parlanti, e da questi perfino accolto come necessario).
non solo per prassi, ma anche e proprio per poesia, la comunicazione può e in certi casi deve venir aggirata. la creazione di ostacoli semantici non ha niente di eticamente necessario, ma ha rapporto con una necessità etica (da costruire in altre sedi, e nei fatti), in maniera diversa e tutto sommato culturalmente sensata rispetto alla presunta limpidezza del discorso, o alla ‘condivisione’ di codici e materiali linguistici attestati.
mercoledì, 09 febbraio 2005 [link]
dividersi dalla ‘dimensione pubblica’ della scrittura può essere non una scelta ma un modo di incarnare o ricodificare le forme/strutture testuali. le forme della letteratura – le retoriche – sono (anche) divise dai loro ‘atti sociali’, o effetti.
domenica, 06 febbraio 2005 [link]
il cosiddetto dominio estetico non si fa circoscrivere da una poetica o definire/dire come un campo (delimitato: il bello vs il brutto). è semmai il movimento ampio dove in maniera contortamente esemplare si dà il senso-non-senso di ogni e qualsiasi percezione e azione.
già la ruota di Duchamp non è proprio immaginabile al di fuori di quella ‘nuvola di possibilità’ che orienta il tipo di anthropos sviluppatosi tra 1790 e 1915.
l’invenzione della fotografia, a meno di 50 anni dalla Terza Critica kantiana, tematizza in meccanismo quel che precisamente Kant scriveva.
la fotografia è la filosofia fatta dalle macchine, ma senza poter prescindere in nessun caso dall’esperienza linguistica anzi semiotica umana. (integralmente considerata: ecco perché non escludo nessuna poetica, nemmeno petrarchesca, né leu né clus, dal campo del possibile. il possibile è veramente un vapore di variabili non ancora condensate. solo sulla loro condensazione possiamo poi esprimerci, lavorando con le poetiche, discutendone, discutendole: anche conflittualmente. mai tuttavia prescrittivamente).
in sostanza: è essenziale considerare e tenere ben distinte poetichE ed esteticA. l’estetica è (Garroni docet) una “filosofia non speciale”. ossia non si occupa in maniera privilegiata del bello. (nonostante piaccia a molti millantare che sia così).
ogni poetica che tenta di sostituirsi all’estetica – e di rendersi addirittura ‘normativa’ – è fuori registro.
l’esperire (sensato-insensato; ed esemplarmente a sua volta esperito come tale) è molto più ampio e sfuggente delle griglie [di] poetiche che si incaricano di organizzarne aree.
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È qui trascritto il brano preparato all’inizio dell’aprile 2003 in risposta alla redazione de «Le Voci della Luna» (per il Premio Giorgi), che in attesa dell’uscita de Il segno meno chiedevano un brano sintetico (e logicamente impersonale) in grado di illustrare il lavoro e il senso del libro.
Una nota
Il segno meno include – quasi nella tradizione del prosimetro – anche brani non in versi. Affronta l’argomento dello sfaldarsi degli oggetti, delle tracce della memoria, il crescere dell’ombra, la perdita e cenere e sparizione dei legami, dei rapporti, dello stesso linguaggio che li istituisce. Torna più volte il tema della perdita di possesso e della fine dei luoghi cari.
Il libro è parte di un progetto testuale articolato, sul discorso della dissipazione. (La natura morta barocca?). E costituisce segmento in sé completo di una più ampia opera, tuttora in fieri, intitolata Delle restrizioni.
Una delle cifre essenziali di queste pagine è l’allegoria, intesa non come meccanismo di rinvio a significati rigidi, predeterminati, pre/visti; bensì come modalità generale del pensiero, a cui si fa riferimento quando viene avvertita familiare (anche se non suadente) la semplice possibilità del senso. “Al di là” e insieme “attraverso” ogni singolo circoscritto significato.
Questa ricerca poetica desidera in tutta umiltà dialogare con le (e quasi rispecchiarsi nelle) osservazioni che Emilio Garroni, nel suo Estetica. Uno sguardo-attraverso (Garzanti, Milano 1992), ha dedicato alla terza Critica kantiana, in direzione di un «risalimento» – sui casi esemplari di Bernhard e Beckett – delle interrogazioni sul senso-non-senso poste dal secolo che (non) si è chiuso.
sabato, 05 febbraio 2005 [link]
Da Ingeborg Bachmann, Das Unglück und die Gottsliebe – Der Weg Simone Weils (1955), tr.it. in I.B., Il visibile e l’invisibile. Saggi radiofonici, a c. di B.Agnese, Adelphi, Milano 1998, p.91: «[Simone Weil] non lottava per un’utopia, ma per il presente. Né credeva a un programma ideale in grado di risolvere la questione operaia, credeva piuttosto a una soluzione dei problemi passo dopo passo. Si poneva [sul] terreno della realtà, o meglio, come lei stessa avrebbe detto, della “sventura”». E ancora (p.117): «A noi però, se ad essa siamo sensibili, resta la bellezza insita in tutto quanto è stato pensato e vissuto in modo puro. Da questi illuminati [=S.Weil e pochi altri], scorgiamo di continuo ciò che l’oscurità occulta alla nostra vista, il volto indistruttibile dell’essere umano in un mondo che cospira alla sua distruzione».
martedì, 01 febbraio 2005 [link]
Appunti in margine alla poesia II di
Curvature (Camera Verde, Roma 2002)
L’inizio di frase «Nisi dominus custodierit civitatem» (con «dominus» minuscolo, laicizzando e “politicizzando” il discorso, con ironia) è parte del salmo 126:
Nisi Dominus aedificaverit domum,
In vanum laboraverunt qui aedificant eam.
Nisi Dominus custodierit civitatem
Frustra vigilat qui custodit eam.
Vari i significati del verso nella poesia. Annoto solo, qui, che non è senza valore che la citazione sia spezzata. C’è un «Se non» lasciato in sospeso. Come la città/civitas è incustodita, e il dominus latente (corrotto o dissipato), così la frase che ne dà conto. Nemmeno si accede all’espressione del timore dell’inutilità del vigilare, nemmeno al «frustra vigilat». La frase, prima dei puntini di sospensione che occupano e formano tutto un verso, si spezza su una civitas in accusativo. Ponte rotto. Che non si percorre nemmeno – appena si nomina.
*
Il piccolo “tableau della fiammiferaia”, che compare negli ultimi versi, fa riferimento (ciò che spiega l’epigrafe in parentesi quadre) a una nota fotografia di Atget: Suonatore d’organetto con giovane cantante, datata approssimativamente 1898-99. Gli occhi e il viso assolutamente ridenti della ragazzina in posa, che nella volontà dell’immagine – in virtù della bocca schiusa – dovrebbero alludere a un canto, sono il punto di concetrazione di quello che è la linea di senso complessiva della foto per me: miseria sversata in urlo, una macchina di dolore per la realtà, gli occhi.
Su questo si spende, con i suoi mezzi, un senso della poesia, attraverso il dialogo fra distruzione e dichiarazioni ironiche: la frase «concima la neve» (muore) si appaia alla dichiarazione in corsivo «ho! tutto è buono. rifiorirà». (Dove, per inciso, quell’«ho!» può logicamente essere sia interiezione che verbo: dunque alludere al fatto che solo l’avere comporta una riflessione “positiva”: solo chi ha può dire che tutto è buono e/o che tutto rifiorirà – nonostante il seppellimento).
Dico senza pudore che neve e sepoltura hanno due referenti obbligati in Eliot e nella inaggirabile «neve fradicia» di Dostoevskij.
*
La poesia si chiude con la citazione «et super nivem dealbabor», che viene dal fin troppo noto salmo 50:
Asperge me hyssopo, et mundabor;
Lavabis me, et super nivem dealbabor
La dichiarazione “E risplenderò più di (= al di sopra della / a spiccare sulla lucentezza della) neve” viene ad avere significato chiaramente ironico, legato al dolore materiale della donna.
Ma, anche in senso letterale, il verso ha un valore: non nasconde che il «dealbabor» (tempo futuro) possa alludere al durare della fiamma allegorica. Possa cioè riferirsi al persistere di una traccia o sfondo di significato possibile, per le parole che di dolore in qualche modo danno narrazione o cenni, comunque in scrittura.