domenica, 25 gennaio 2004 [link]
Specchio, spessore
Seguendo Franco Moretti nella sua lettura del genere-romanzo e di modernismo e postmodernismo in quanto ‘svolte’ nei confronti del tragico, diremmo che Egeo non ha compiuto un gesto eccezionalmente moderno. Ha certificato a sé la propria esistenza, dopo il dolore, smettendo di esistere. Egeo è precisamente quell’Ego al quale modernità e – a maggior ragione – postmodernità si rivolgono con cifre di (prosaica) diffidenza.
Probabilmente ritengono migliore il fulmineo «rimo, dunque vivo» di Tristan Corbière – a cui lo stesso poeta guarda poi con aria beffarda, visto che il verso intero suona «Io rimo, dunque vivo… (non temere: è a salve)».
Anna Maria Ortese: «Solo una superficie gelida ed elegante – assolutamente immobile – potrà riprendere il moto scompigliato di un albero scosso dal vento, o il levarsi fresco di belva di un’onda verde del mare. Il mare non riflette il mare, né l’albero l’albero. Solo in qualcosa di natura profondamente diversa e contraria, la natura e l’animo tragico delle cose si riflettono. Questo è ciò che si dice qualità estetica. È la qualità dello specchio, che si oppone – e perciò la cattura – alla cosa specchiata. E se volete riprendere un mare in tempesta, o gli orrori di una guerra, siate calmi – e mettete tra voi e queste cose la distanza scaturita dal vostro stesso doloroso silenzio» (Dove il tempo è un altro, 1980; ora in Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997, pp.66-67).
domenica, 18 gennaio 2004 [link]
Egeo
Egeo, figlio di Pandione e padre di Teseo, fu il nono re di Atene. Spodestato dai nipoti, fu rimesso sul trono dal proprio figlio.
Quando Teseo partì per uccidere il Minotauro, il vecchio padre gli raccomandò di issare, al ritorno, una vela bianca sulla nave, in segno di vittoria sul mostro. Ma l’eroe e l’equipaggio, in festa, ubriachi di felicità per l’uccisione del Minotauro, dimenticarono l’avvertimento.
Così, rientrando, ecco: la nave recava ancora la stessa vela nera con cui era partita, in segno di lutto.
Egeo, vedendo quell’unico segnale venire dall’orizzonte, da dove ancora non si avvertiva il baccano e l’entusiasmo della ciurma, e credendo che il suo unico figlio fosse morto, si gettò disperato in quel mare che da lui avrebbe poi appunto preso nome.
Un unico segnale e un unico figlio. E da queste unità: un lutto: superfluo. Un semplice fraintendimento di un codice (binario): l’uno che sembra/è zero. Da un signum letto correttamente ma emesso senza intenzione scatta – in una disposizione alla tragedia – l’irreparabile.
Per quanto si possa ammettere che forse ci comporteremmo tutti tragicamente, nei panni di Egeo (o in quelli di Wittgenstein che in trincea medita e semina per il Tractatus), è comunque necessario guardare con sospetto a questo istinto di tragedia. Viene dai segni.
domenica, 11 gennaio 2004 [link]
Da annotazioni degli anni ’90
«Sei in compagnia con amici e con una donna, è lo stesso, sono le parole fatte dagli uomini, il corpo dell’uomo che è stampato dappertutto, nel viso delle bestie, nella lingua del cane. Sei solo davanti al mare o alle montagne; ma non sei solo, fra te e la montagna tutta chiusa nel suo vestito di pietra ci sono le immagini e le ragioni degli uomini, il loro bisbigliare. Allora ti ricordi di quando non era così, di quando credevi di poter essere solo con le cose ed erano le cose a preoccuparti e interessarti.
Come è avvenuto? Ecco, quando senti che non c’è più nulla che non sia occupato dalle cose dell’uomo, nulla che non ti ripeta le storie monotone dell’uomo; quando ti accorgi che le cose stanno quatte e zitte finché non le nomini e discuti attraverso di esse con gli uomini; allora sei arrivato a metà della tua vita e non potrai più tornare indietro…»
(Franco Fortini, La cena delle ceneri (1948), ora in La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, Claudio Lombardi Editore, Milano 1988, pp.59-60).
Di fatto l’irreversibilità della sensazione di «essere solo con le cose», lirica o dolorosa che sia, funziona a un dato momento da spartiacque in ogni storia individuale. La taglia in due versanti «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. […] Esperienza, insino alla quale nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo […] Ma accaduta che sia, […] in fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale» (Leopardi, Pensieri, LXXXII).
Per Fortini, la Resistenza è stata (poi è nel racconto) un margine, un confine di questo genere. Ma la ricchezza del testo fortiniano non si arresta qui.
Nel racconto si parla proprio di un’ulteriore frattura – che è poi quella del presente della narrazione. Si parla cioè di una sorta di “ritorno ai segni”, dopo l’immersione nella solitudine con le cose, dopo il dolore.
Questo ritorno può essere – non del tutto arbitrariamente – assunto come sensata e vera seconda frattura nella vita individuale.
Dopo la cesura netta fra un ‘prima’ fanciullesco (quando del dolore si sente solo parlare) e un ‘dopo’ di impatto con la realtà, occorre fissare un momento di arricchimento, consistente in questo: l’assunzione in sé, e presa d’atto, che le ragioni dei segni non sono distinguibili dalle ragioni delle cose, il tessuto doppio (che doppio non è) non si lascia smagliare. I fili sono serrati insieme.
Con le parole di Fortini: «ma non sei solo, fra te e la montagna […] ci sono le immagini e le ragioni degli uomini, il loro bisbigliare».
È forse questa la ‘vera’ partizione. È da questa assunzione di responsabilità nei confronti del proprio sistema di segni, solo da questo riconoscere «le immagini e le ragioni […] le storie monotone dell’uomo», che inizia la seconda metà della vita. (Da cui «non potrai più tornare indietro»). (Semplicemente perché non esiste nessun posto dove tornare: e la precedente idea ‘binaria’ o dualista del parlare e del vivere era la visione incompleta o puerile del tessuto effettivo).
domenica, 04 gennaio 2004 [link]
Di alcune scritture recenti
[appunti da un saggio in costruzione, su poeti italiani nati negli anni ’60 e ’70]
Alcune scritture recenti trascinano da vita ed esperienze dirette (straight stories) elementi riportandoli in un orizzonte che, linguistico, non fa della lingua l’orizzonte. (Perché essa già lo è. E come tale è avvertita, da chi – nato dopo il 1960 diciamo – questa coscienza l’ha assorbita con il latte ottico e sonoro che lo nutriva e lo istruiva/istituiva, che lo formava). (In virtù del fatto di crescere in un tempo determinato da neoavanguardia e parallele scritture diversissime; e dalle scritture delle varie forme di elettronica che gli anni registravano).
In autori come Florinda Fusco, Elisa Biagini, Laura Pugno, Ermanno Guantini, Alessandro Di Prima, Massimo Sannelli, Sara Ventroni (tutti del 1970-74) il testo a mio parere nasce e sa decisamente nascere freddo, ‘cool’; ossia non necessariamente legato a valori materici traslati sul foglio ad annerire e formare blocco incandescente, ‘laborintico’, o à la Spatola. La pagina non slitta primariamente verso Il Linguaggio, verso retorica-rito. A serrare e chiudere il testo, in Fusco, Di Prima ecc., e già forse in Frene, Raos, Inglese, non è frontalmente la sovrabbondanza di res, cose, cataste/fatti linguistici, ma all’opposto una loro libera sottrazione. (O un accumulo tuttavia algido, seccamente dato). E l’emersione, al posto del magma, di un calco cavo, di un variato eccesso di non detto. Non però nella forma del consueto bianco-pagina neoermetico. Le lacune, gli spaziamenti (espacements, aree fredde), le ceneri e i tagli operati su una materia/maceria enorme sono dolorosi e danno diversa incandescenza. Differenti salti di rapporti, tagli semantici, spezzature.
giovedì, 01 gennaio 2004 [link]
Sul poemetto Spostamento – di Giovanna Frene
Spostamento, di Giovanna Frene, edito da Lietocollelibri (Como, 2002, pp.48), è testo costituito da una Definizione in tre versi («Chiamiamo morte quella condizione / per cui il ricordo di una persona / da viva ci appare improponibile»); da dieci poesie o lasse numerate e dotate di titoli; da una Clausula; e infine da un vero e proprio riporto epigrafico: «nemo obliviscitur felicitatis suae».
Il poemetto nasce come torsione testuale o nadir (complesso) di un evento luttuoso. Il suicidio di una persona cara disegna sulla pagina orma e deformazione di un discorso emotivo. Che non significa sentimentale. È anzi vero l’opposto.
E se un “io” affiora già dal Proludio, si tratta di ego che è dissipazione, e che così (si) dichiara: «per l’appeso scrivo qui la poesia doverosa / necessaria maledizione di un maledetto: / non dissimile al vento che portava / al nulla la stagione il detto della cenere». Dissipazione agìta anche sul corpo dei sostantivi dell’ultimo verso: quale valore hanno «stagione» e «detto»? Altre ceneri: grammaticali.
Forse la poesia in questo senso più emblematica è la quinta, intitolata Dell’irradiazione: l’incipit «luce della luce dei corpi senza luce» rimanda per solennità e altezza (non retorica) al Credo della liturgia cattolica. Ma è versato come una litania rivolta alla «insufficienza ovale» (ai «bordi della parola») sul «cranio opaco» e distanziato dello scomparso. In gioco è così una doppia sparizione: di parola e corpo: il verso conclusivo, «mortomorto senza assoluzione», significa lo stesso inseguirsi dei linguaggi.
Se quindi Spostamento si definisce in sottotitolo Poemetto per la memoria, è anche un flusso scritto-spostato lungo una linea di fuga dallo stesso concetto di testo. Chiara – per eccesso di ironia – la Clausula che inquadra il poemetto come «una cassa / […] / più immortale della carta».
In apparenza formalmente chiusissimo, Spostamento si rovescia all’esterno della sua devozione e dedizione allo stile. E dove ragiona di una scomparsa, lo fa in qualche modo specchiando la fuga irreversibile del testo-tessuto: in memoriam. È «il vuoto entrato nel baratro della rappresentazione» (poesia IX), «bordo dissolto del fuocovento come margine» (poesia VI).
Non diversamente è decifrabile (ancora nella poesia VI, v.5) quell’emistichio-calco che piega un immaginabile seme del piangere caproniano in «seme del margine»: picco metatestuale evidente.
In questa complessa operazione di spola tra testo e metatesto, tra planctus vestito di storia e textus incenerito, sicuramente ha magistrale e positiva influenza l’opera di Zanzotto, indagata con assiduità da Giovanna Frene. Ma potrebbe forse esser fatto anche il nome della Valduga autrice di Donna di dolori.
[Articolo comparso originariamente in «l’immaginazione», a.XX, n.196, mar.2003]