martedì, 29 giugno 2004 [link]
Tracce cave
Forse negli anni finali del Novecento – tra molte vicende – è successo anche qualcosa del genere: la carcassa carbonizzata o la scocca negativa del nome e dell’identità e consistenza del soggetto (e) del testo (di cui p.es. Carmelo Bene è stato formidabile eraser/promoter) ha lanciato e sprizzato, trascinando sé attorno alle mura della città, una scia di scintille che ha acceso non un ripristino ‘di primo grado’ cioè ingenuo di quell’io-frammento che (tardivo in Italia) con i vociani inaugurava giusto il secolo scorso; ma semmai la traccia cava di qualcosa che sta via via, da circa una decina d’anni, grazie a vari autori, riempiendosi di pagine di senso.
Questi autori scrivono e leggono – e si leggono (e si scrivono) tra loro, fabbricando insieme e separatamente senso-non-senso, a più livelli legati/distinti. Raccogliendo anzi avendo per crinale di riferimento gli oggetti enigmatici e le esitazioni che il secolo XX ha disegnato. Primo fra tutti l’enigma dell’oggetto estetico.
Attenzione: il Novecento non ha lasciato loro queste cose ‘in eredità’. Le ha semmai tessute in loro; come carne e sangue il feto prende dalla madre. Di fatto Rosselli e Villa e Zanzotto ma anche Campo e Sereni e Montale (rimanendo all’Italia), per i nati diciamo da inizio-metà anni Sessanta in poi, non sono “strumenti” ma linguaggio assorbito; parola materna. Che viene da testi avvertiti in gran parte come sciolti dai vincoli di lotte e correnti entro cui gli anni delle loro edizioni li collocavano. Così il loro è linguaggio “sovrascritto nel” corpo, e attraversato in parallelo da apporti dell’elettronica, della videoarte, della tv e pubblicità e spazzatura da – avanzata e attestata – trasformazione antropologica.
È impossibile scindere Nan Goldin da Boltanski. (Avrebbe poi gran senso dividere radicalmente Céline da Rilke?)
[ Dire che due o più autori tra loro virtualmente in ‘opposizione’ non sono scindibili non significa aver abbandonato la ‘conflittualità’ che è implicita nel darsi di poetiche connotate (o in via di connotazione). Ma il conflitto può variare forme. Questo per affermare un accordo parziale – entro limiti da definire altrove – con interventi come Il secolo del montaggio, di Edoardo Sanguineti: cfr. M.A.Bazzocchi, F.Curi (a c.di), La poesia italiana del Novecento. Modi e tecniche, Pendragon, Bologna 2003, pp. 251-257. Possiamo non ritenere storicizzate alcune esperienze (letterarie o meno); durante questo nostro “non ritenere”, tuttavia, quelle esperienze diventano comunque storia. Voltare le spalle ai fatti non li cancella ]
Esce oggi, 29 giugno, il n.1 di «Ulisse», la rivista online edita da Lietocolle. Interventi critici di Franco Buffoni, Maurizio Cucchi, Gianni Turchetta, Flavio Ermini, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Roberto Carifi, Vincenzo Bagnoli, Giampiero Marano, Mario Santagostini, Giovanna Frene, Ranieri Teti, Tiziano Fratus, Patty Aloisio, Angelo Rendo, Flavio Santi; e testi poetici di Fabrizio Bernini, Massimo Sannelli, Paolo Fichera, Patrizia Mari, Tiziana Cera Rosco, Italo Testa, Nicola Ponzio, Roberta Lentà, Marco Simonelli.
martedì, 22 giugno 2004 [link]
Da Fortini
Da Franco Fortini, Avanguardia e mediazione (1968, in Verifica dei poteri, Einaudi, Torino 1974, rist. 1989):
«due direzioni, quasi sempre presenti nello svolgimento delle letterature, [si sono] presentate anche nella letteratura di origine surrealista (e con questo termine implico […] gran parte delle motivazioni delle avanguardie). La prima, accentuando l’autosufficienza dell’operazione sul linguaggio, tende a concludere, e quindi a chiudersi su di sé, secondo un modo che presuppone già data, nella complessità storico-sociale circostante, l’integrabilità del proprio discorso, la collocazione del proprio microcosmo (fino all’immediato ieri l’abbiamo ritrovata, ad esempio, in certe poetiche del gruppo francese Tel Quel: la rivoluzione al livello del linguaggio è parallela a quella politica, ecc., ciascuno faccia il proprio mestiere, l’integrazione dei diversi momenti è demandata, infine, al potere). La seconda tende ad avvertire l’insufficienza ed i confini della propria “specialità”, rinvia ad altro da sé la propria interpretazione ed il proprio futuro, taglia trasversalmente i generi, ecc., esercitando una sorta di funzione vicaria nei confronti di quelle organiche d’una società in fieri, una società che si disegna in modo contraddittorio per entro il disfarsi della presente. […] Ebbene questo “aprirsi” di un’opera, non appena ad una pluralità di interpretazioni ma all’altro-da-sé, questa incompiutezza nonostante la conclusione formale – che è di tutti i capolavori – perché il discorso continui in filosofia, in scienza, in prassi, questa è la preziosa eredità, contraddittoria, che dal Romanticismo scende alle Avanguardie e a noi».
Si può muovere una critica alla descrizione della “prima direzione” fatta da Fortini. Ci sono senz’altro periodi storici in cui “autosufficienza” e “conclusione” del (o di un certo) linguaggio scritto valgono come segnali di inserimento aconflittuale di suoi scriventi in un contesto politico ‘già dato’, al quale si demanda un’integrazione (o implicita dissoluzione) del codice stesso negli itinerari e nelle prassi della vita ‘normale’ (o normalizzata: nel “sempreuguale”).
Ma il sospetto è che questo accada precisamente nei momenti di vertigine, di rivoluzione (sentita) imminente. Per esempio …nel 1968, anno di stesura – guarda caso – dell’articolo citato. È in quei momenti storici che un’area di scrittura clus può darsi (e forse giusto in quegli anni si è data) una percezione minore della necessità di “aprirsi all’altro-da-sé”, per – invece – lasciar fare al potere.
(E, questo, detto per inciso, vale sia che avesse ‘ragione’ Fortini, sia che avesse ‘ragione’ l’avanguardia da lui criticata: è la qualità in qualche modo ‘eterodiretta’ dell’azione degli scriventi a bloccarli).
Se la riflessione cade invece sul presente, su un pianeta letteralmente blindato da una superpotenza avviata all’incenerimento dell’ecosistema, e alla costruzione di un Impero che divora e si divora, dunque in uno dei momenti forse più lontani da qualsiasi rivoluzione che il mondo intero abbia conosciuto, ecco che è inaggirabile conferire un valore di resistenza al gesto di intrecciare, allacciare entrambe le linee di poetica descritte.
Da un lato, la coscienza di una impraticabile confusione di politica e scrittura poetica (se non in recuperi kitsch, a loro volta perfettamente assorbiti dall’omologazione); da un altro lato l’attraversamento dei generi, nella dialettica di compiuto/incompiuto che rilancia il discorso dell’opera verso l’ascolto e il riuso da parte di altre aree intellettuali, scientifiche o antropologiche o ancora di altro segno.
Questo è ovviamente un frammento di auspicio. La struttura della realtà degli scriventi è iridescenza: indocile, improgrammabile (per fortuna).
domenica, 13 giugno 2004 [link]
In versi
Se ancora adesso è pensabile esporre ed esperire il darsi-revocarsi del senso all’interno di una logica sottrattiva, come quella a cui fa o ha fatto per molto tempo riferimento un certo tipo di fotografia, è anche pensabile che ciò abbia qualche rapporto con ‘peculiarità di sottrazione’ che pertengono alla poesia, ai limiti e margini che le sono propri.
Se scattare una fotografia è ciò che è (o lo è stato fin qui) perché significa non scattarne infinite altre – e ‘far pesare’ in verticale sull’unica realizzata l’assenza violentissima di quelle fatte cenere – probabilmente anche in poesia il rifiutarsi di riempire ogni vano, e lo stagliare forme “sottrattive” ha una qualche ragione da far valere. O addirittura partecipa di una poetica. Ancora fruttuosa.
[ Dire «ancora fruttuosa» non significa tuttavia abbracciare in pieno quel che di Jakobson leggiamo in saggi come Il segno della poesia e il segno della prosa (in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985), di Umberto Eco (indispensabile per le riflessioni fin qui fatte e da fare). Le affermazioni secondo cui, p.es., in poesia il significato è un portato eccellente del suono e «le parole sono scelte dal ritmo» (diversamente da quanto accadrebbe nella prosa), sono da un lato messe in crisi da Eco stesso in conclusione di saggio, e d’altro lato semplicemente parziali. In verità, e ancora, una lettura addirittura trascendentale (non trascendente) del far poesia imporrebbe di dire che piani del suono e piani del senso (e loro complicazioni) non sono entità separate o “soltanto” intrecciate e virtualmente sempre isolabili come virus: sono invece corradicali, coinvolte in un paradosso. Sono implicate nel paradosso …di implicarsi vicendevolmente, e fondarsi l’una con l’altra in forme che, in poesia, si danno per invarianti, disposte a dar senso. Si tratta in definitiva di forme che di quel paradosso stagliano poi l’esser funzionale e funzionante proprio in virtù dei limiti (insieme fonici e semantici) che lo originano, entro i quali esso si è fatto esplicito, visibile, parlato ]
Se i versi sono una serie che nell’a-capo, per esempio, si autolimita; se il bianco della pagina è spazio per il riverbero di quanto non è interamente detto; se la disposizione delle parole sa rendersi necessaria quanto la disposizione dei vettori di senso nelle linee di una fotografia; se il rifiuto di ciò che continua (prorsus) fa del versus una ferita che chiede il contributo del lettore per essere non diciamo sanata ma perlomeno curata; se l’esattezza di alcune e solo alcune parole, e dei loro rapporti fonico-semantici, rende qualsiasi altra parola sfondo sottratto (che traspare …ma giusto come sfondo sottratto); se tutto questo è vero, allora ci sono affinità profonde tra un certo modo di intendere la fotografia e un certo modo di intendere la poesia.
sabato, 05 giugno 2004 [link]
Recensione a V.Magrelli
mercoledì, 02 giugno 2004 [link]
Breve nota sul lavoro di Massimo Sannelli
La scrittura di Massimo Sannelli, in questi anni e anche nei libri recentissimi (La giustizia e La posizione eretta), è in assoluto tra le più rigorose, fra quelle degli autori della sua generazione. (Ammesso che sia possibile parlare di generazioni in poesia).
In varie sedi lui stesso ha parlato della particolare connotazione clus di molta ricerca contemporanea, inclusa la propria.
È forse corretto parlare di una sorta di ascesi dell’impersonalità (non un petrarchismo, dunque), dove l’io narrante è – in sequenze testuali e ipercodifiche di eventi – fortemente ma non arbitrariamente velato da schermi.
Questo stile di distacco, in cui l’ego pur allontanato su sfondi opachi riaffiora parlante da/per frammenti, ha misura sorprendentemente classica, e costringe la materia (che è infine biografica) a nudità e secchezza.
Non potrebbe essere più netta la separazione da ogni realismo. Allo stesso tempo, non si attivano compensazioni, costruzioni di maschere, di personaggi. La lingua per prima – semmai – forma e sviluppa ‘apparizioni’, angeli sintattici, o fonico-ritmici, o grammaticali: parole-segno. La casa diventa «la bambina» o «la casa bambina». A volte Sannelli istituisce nomi complessi attraverso la chiusura di una intera frase (descrittiva ma non ‘aperta’) fra virgolette.
Ipotesi: la ricerca è di uno spessore semantico (compresenza e compressione di valori semantici) che la lingua italiana non sempre garantisce, e che compete semmai all’ebraico, all’arabo, in certi casi al francese (pensiamo alla densità di un vocabolo come «lumière»..).
[link]
Altri paragrafi e parentesi per la fotografia
[ L’arte ‘in senso estetico moderno’ ha esemplarità o modellizza/espone il darsi del senso come condizione di possibilità dei significati di qualsiasi esperienza, di qualsiasi atto o conoscenza… finché non accade, dal 1839 in poi, un fatto o processo nuovo, un evento ‘inconsciamente filosofico’, una sorta di rivoluzione kantiana operata dalla tecnica. Ovvero: tutto l’esperibile diventa arte nella fotografia. Nell’esperienza del riprodurre a sua volta riprodotto. Nell’esperienza del cinema, dopo. Succede che uno specchio ulteriore venga posto tra soggetto e azioni, le più banali, quelle davvero qualsiasi, di cui già una visione trascendentale dell’esperire aveva detto che racchiudevano in potenza senso e bellezza. Questo specchio ulteriore ritrasforma la destra in destra, la sinistra in sinistra, dunque riporta – o dà l’illusione di riportare – la realtà integralmente a se stessa, nello spazio e nel tempo; lasciando però la traccia o permanenza o impressione di capovolgimento. Come se d’improvviso il corpo riflesso a cui eravamo abituati fosse stato precipitato nel suo negativo, dunque riacquisito a una corrispondenza esatta, punto per punto. E un confronto o conflitto rimanesse appunto davvero aperto e irrisolto: confronto con le impressioni e abitudini percettive precedenti, speculari, entro cui la destra “sembrava” sinistra e viceversa. Ma attenzione: tutto questo effetto non è ciò che “i film” o “le foto” ottengono: si tratta piuttosto del risultato dello scatto in avanti, dell’impatto di autocoscienza, ricevuto dal nostro già configurato (in senso estetico moderno) modello di esperienza: impatto che la fotografia e il cinema hanno innescato col loro apparire esattamente come esperienza del riprodurre, e dell’essere riprodotto ]
[ È pur vero che i dagherrotipi restituivano precisamente una visione speculare, con la destra voltata in sinistra e viceversa. Ma già con Wolcott (1840) si ha l’esigenza della riproduzione non-speculare e una soluzione a quello che appunto era avvertito come «problema» dell’inversione. Così come già nel Settecento si sentì la necessità (e si trovò il modo) di ‘raddrizzare’ l’immagine proiettata nelle camere oscure ]
[ C’è una dissimmetria tra nascita del sentimento ‘del fotografico’ e nascita del sentimento ‘del digitale’. Nel primo caso, ossia con la nascita della fotografia, nasceva un sensazione di realtà fermamente afferrata o afferrabile: ed era illusoria. Nel secondo caso, ovvero con la nascita delle arti digitali, nasce una sensazione di realtà illimitatamente manipolata e manipolabile: ed è non illusoria ]