domenica, 25 luglio 2004 [link]
Militanza, limite
Dal 1989 cioè dall’inizio e poi crescita di collaborazioni a una serie di riviste ed attività, qualcosa è cambiato. Per un certo numero di anni sembrava (a chi scrive è sembrato) che fosse possibile non la forma-gruppo, ma insomma una co/operazione artistica, un lavoro circoscritto ma costante – e costantemente riconfigurato. Che formava progetti e incontri e letture, pubblicazioni, mostre. Nei fatti qualcosa di simile si è attuato; ha avuto luoghi e modi e forme. Non è stato altrettanto (o altrettanto facile) in anni più recenti, in questi ultimi. (A eccezione dell’esperienza di Akusma, che per sua natura ‘resiste perché si trasforma’ – continuamente). Allora:
Una nota personale. (Excusez). Una forma di ‘limitazione della militanza’ è probabilmente (sempre a chi qui scrive) necessaria; non si può evitare nemmeno volendo. [Qui sotto, anche, si ripubblica in carattere ridotto un post di alcuni mesi fa, che spiega altro ancora].
A fronte di un dispendio e incendio puntuale, le risposte che arrivano sono aride e rare. Dopo parecchi mesi di attività, giocoforza ne vengono conseguenze precise (senza amarezza).
Tolta «bina» e pochi altri progetti che a ottobre si avvieranno, ci sarà uno stop non piccolo: finiranno le attività di connessione, creazione di iniziative, coordinamento, promozione, lettura, presentazione di libri, organizzazione di mostre e quant’altro. Non solo è necessario il tempo, ma anche riempirlo (quando e se c’è) di cose sensate, belle, serie e serene. Per qualche ragione, soprattutto nei mesi recenti si sono manifestate e tuttora si manifestano pagine invasive, aggressive e brutte, il dolore di leggere cattivi libri, ingenui, kitsch, e così una quantità insopportabile (poi alla fine sempre sopportata, e bruciante) di fatica nel rispondere e dialogare mediando, con una cortesia che evidentemente deve appartenere a un’altra stagione storica.
Allora: è importante limitarsi, in questa disponibilità al mondo. Limitare il mondo, limare la quantità di mondo che pretende di entrare, di avere regno in un regno che non è suo.
Sociologismo volgare
Molte ragioni di assenza dai luoghi dove si fa poesia (letta) risiedono in un’ipotesi da verificare (e, da chi scrive, già ora verificata): non ha più spazio di esistenza quello che anche poco tempo fa era definibile poeta operaio. (Si scusi la patina ‘vetero’).
Molti obietteranno che fitta/forte fatica comporta la vita di tutti, aujourd’hui. Contro-obiezione: la fatica fisica, unita a quella intellettuale, al contatto con il pubblico, all’assorbimento di tensioni altrui (ogni lavoratore dipendente sa di che si parla), per un tempo di oltre 8 ore al giorno (molto oltre le 8 ore), bloccano ogni attività. Bloccano le ‘partecipazioni’. Del resto, chi non ha altro che il lavoro per tenersi in piedi – non contando su nessuna altra ricchezza – deve dare precedenza alla partita doppia delle energie e del denaro. (Woolf versus Bataille). La classe sociale di appartenenza, lo si voglia o no, determina – non con forza ma proprio con violenza – una quantità di azioni e omissioni dell’auctor. A scrivere è sempre il corpo.
Traducendo: non me ne vogliate per le assenze. Forse è anche vero che la mia idea di letteratura contempla una presenza che è in primo luogo testuale. Ma molte concezioni (contemporanee, che solo in parte ‘sento’) della letteratura non guardano troppo di buon occhio il testo. O non vorrebbero ci fosse ‘solo’ quello.
Tuttavia: quando nessuno di noi esisterà più, resterà precisamente la carta, da sola, con le file delle parole. A difenderci (a diffonderci; diffondersi su quanto eravamo).
domenica, 18 luglio 2004 [link]
Su due brani di Ashbery
Alcune annotazioni su due passi di John Ashbery, entrambi dalla raccolta Houseboat days (1977). Il primo è preso dalla poesia Friends:
I feel as though I had been carrying the message for years
On my shoulders like Atlas, never feeling it
Because of never having known anything else. In another way
I am involved with the message.
Sento come avessi portato per anni il messaggio
sulle spalle, come Atlante, senza mai
sentirlo: non avendo avuto mai
conoscenza di altro. In altri termini
io sono coinvolto nel messaggio.
Stando alla nota interpretazione di Kafka, Atlante avrebbe potuto in ogni attimo deporre il peso del mondo e andarsene; nulla però oltre questa coscienza gli era concesso avere. In realtà Atlante è – come suggerisce Ashbery – non semplicemente coinvolto (traduzione italiana a cui siamo forzati) ma addirittura tessuto dal suo peso, dal mondo-messaggio. Ne è costruito. Implicato, involved with. E la sua coscienza forma messaggio.
Le parole articolano la bocca che le parla.
Lo stesso Ashbery in epigrafe cita queste parole di Nijinsky: «I like to speak in rhymes, / because I am a rhyme myself».
*
Il secondo passo è la conclusione della poesia And Ut Pictura Poesis Is Her Name:
…His head
Locked into mine. We were a seesaw. Something
Ought to be written about this affects
You when you write poetry:
The extreme austerity of an almost empty mind
Colliding with the lush, Rousseau-like foliage of its desire to communicate
Something between breaths, if only for the sake
Of other centers of communication, so that understanding
May begin, and in doing so be undone.
…La sua testa
serrata alla mia. Eravamo un’altalena. Qualcosa
andrebbe scritto su come questo ti
investa quando scrivi versi:
l’estrema austerità di una mente quasi vuota
in collisione con il ricco fogliame, alla Rousseau, del suo
desiderio di comunicare
qualcosa tra i respiri, fosse solo per il bene
di altri centri di comunicazione,
così che l’intendere possa
iniziare, e in tanto essere disfatto.
La direzione della freccia punta verso «other centers of communication», così che la comprensione, e il passaggio di senso, possano iniziare in virtù del fatto che coincidono con il proprio (sempre imminente e dato) dissolversi. Ogni percezione è un doppio scarto; salto di sensore e oscillazione fra too-high e too-low. Sullo sfondo della negazione di luce, cade luce.
La fitta rete di implicazioni delle cose, del mondo, non è altrove rispetto al cerchio del senso-non-senso. Anzi questo meccanismo generale è in evidenza solo se e quando avviato in virtù del mondo (e da questo però svincolato, come un giunto cardanico che lega e scioglie superfici, e sé con esse).
martedì, 13 luglio 2004 [link]
Alcune pubblicazioni online recenti:
_ 4 poesie sul sito de «L’Area di Broca»
_ 6 prose da Fotosfera nel sito di Nazione indiana
_ Quattro inverni senesi sul sito del Premio Castelfiorentino
_ un piccolo saggio su autori contemporanei nel n.1 di «Ulisse»
_ una generosissima intervista/conversazione condotta e ricostruita da L. La Rosa è nello Speaker’s Corner del sito Rizzoli RCS
lunedì, 12 luglio 2004 [link]
Delle specificazioni
La critica è, prima di qualsiasi posizione (delineata), il vagare della preposizione «di».
Il divagare della proprietà, del proprium, del possesso di cognizioni. (Processo). Delle specificazioni
sabato, 10 luglio 2004 [link]
Di una evidenza
Se la tecnologia tematizza in meccanismi l’esperienza del senso; e veramente nel tempo realizza o in sé (in oggetti) costituisce di fatto «un mondo a misura d’uomo», fabbrica un mondo orribile.
Il «se» è retorico. Quella espressa è una constatazione.
Sia i meccanismi di accelerazione immateriali (ma vissuti, verificabili) sia gli oggetti che in concreto ne sono origine o esito, rappresentano con fedeltà via via crescente, high-fidelity, quello che già siamo, e la rapidità dei tracciati mentali.
Globalmente questo non è né gestibile né – in quanto gestirlo è istanza sensata – umano.
Dove una società assomiglia e si fa anzi sosia di meccanismi interiori, abdica a quelle incongruenze e lacune entro le quali precisamente quei meccanismi amavano trovare (hanno sempre trovato) spazio di vita, valore, esistenza.
La mente può funzionare a velocità impressionanti proprio perché non funziona sempre a velocità impressionanti. Ergo, quando una struttura complessa come una società, o addirittura una intera civiltà (occidentale), che invece non può mai ‘spegnersi’ e deve assicurare continuità e coerenza di funzioni, assume nella propria veglia ininterrotta quelle velocità, quelle assenze di lacune fatte però sistema, quel desiderare (e) mutare che sono lo specifico della mente nei suoi picchi di attività, non può che rovesciarsi in macchina di tortura.
Una società a misura d’uomo è un inferno.
sabato, 03 luglio 2004 [link]
cil qui sevent d’escriture
solent amer a demesure;
cil qui plus set
aime plus tost et plus tost [h]et
s’il voit chose qui li agret
chi sa di scrittura
di solito ama a dismisura;
chi più sa
più in fretta ama e più in fretta odia
se vede cosa che gli piace
[ Richeut, 1159-70 ]