novembre 2003

domenica, 16 novembre 2003   [link]
 

Paragrafi sulla rima

1. La rima, margine, non è il senso delle cose o il codice di traduzione in noi delle cose. È però una buona domanda posta alle cose (dal loro interno).

2. La prossimità fonica tra due parole, esibita intenzionalmente, non indica una prossimità che “sta” di fatto già in quelle parole e nei loro significati. Essa rappresenta semmai il punto di domanda che, nel porsi sotto forma di rima ossia prossimità fonica, dimostra di essersi messo in contesto, o di star tentando di mettersi in contesto. È come se affermasse: “ho idea di quel che state dicendo, e così la mia domanda è pertinente; che ne dite?”.

3. In realtà, la sua è anche impertinenza: perché la domanda non “è” in contesto, bensì semplicemente dimostra di sapere che “un” contesto è necessario – che cioè è implicita una condivisione di senso nel fatto stesso di domandare facendo riferimento a un contesto. Segnala pertanto di ritenere possibile, non già data, una risposta (altrimenti non sarebbe affatto una domanda). (E non ci sarebbe rima).

4. La rima è dunque la pertinenza, esibita come prossimità fonica, di una domanda di senso rivolta dalle parole non tanto a un contesto, cioè non al suo effettivo materiarsi, bensì alla necessità e possibilità del suo materiarsi. Di solito questa pertinenza in tanto è inedita e dunque esemplare (pertinente, daccapo) in quanto sa porsi come “impertinente” – quasi svincolata da quel che pure costituisce la detta prossimità fonica.

5. Si riferisce ad altro dal suono, la rima. E tuttavia l’impalcatura della possibilità di tale riferimento è meticolosamente pertinente, nell’apparire come suono.

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martedì, 11 novembre 2003   [link]

 

La costruzione di visioni o fotografie non magniloquenti, non teologiche-teleologiche, può riguardare un numero sempre meno preciso di persone, ma sicuramente decrescente. (Rispetto a cosa? Al passato). È o può essere un dovere non facile della scrittura, aggiungere – e non togliere – piccoli tratti connettivi alla storia; al nastro delle vicende effettive, non future; così legare punti altrimenti irrelati. Come in uno shangai dove fosse infinitamente più arduo – e meritorio – inserire poche asticciole esatte e delicate, piuttosto che toglierne molte, anche con abilità, solo per onorare piattamente il gioco.


domenica, 09 novembre 2003   [link]

 

Nel viaggio dello sguardo sulla poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi, sembra di constatare che la necessità dell’opera abbia statuto elettivamente inafferrabile, e però per segnali identificabili avvertito.
L’esistenza come comunicazione letteraria chiede indagine su quella necessità che le forme non garantiscono più (se mai hanno operato in tal senso). Ma che di forme si tratti, e che il loro vincolo di necessità si attesti, può diventare materia di indagine e dimostrazione, nei fatti. Ossia rientrare in un perimetro perfino definibile ‘scientifico’. Solo che l’interprete non eluda alcune evidenze. Nella rapida recensione al Condominio di carne, di V.Magrelli, molti esempi di lettura di evidenze («evidence» vale «prova», in inglese) si sono offerti. Un altro tratto testuale ricorrente si indaga ora qui, ancora per appunti brevi, in altro autore:

Annotazioni
su alcuni links (iterazioni/itinerari) nella poesia di F.Buffoni

I testi di Franco Buffoni spesso presentano, a distanza di anni, di libri, iterazioni/variazioni di una stessa poesia, ritorni di una frase, di una strofa, di una chiusa, o addirittura di un micropoemetto intero. Classico l’esempio del testo intitolato Come un polittico, presente sia nella raccolta d’esordio (I tre desideri, San Marco dei Giustiniani, Genova 1984) sia come prima pagina del Profilo del rosa (Mondadori, Milano 2000).

Analizzata la sua intera produzione (inclusi i più recenti Theios, Interlinea, Novara 2001; e Del maestro in bottega, Empiria, Roma 2002), non è del tutto impensabile ipotizzare – in lui studioso di topografie e mappe e ‘resti umani localizzati’ – la creazione, negli anni e tramite i libri, di una sorta di macro-opera fatta di rinvii e segnali topografici, sottotraccia eppure affioranti. Links intertestuali; indicatori interni al percorso di scrittura.

Come una sorta di reticolato che dà modo a chi legge sia di perdersi sia soprattutto di (grazie appunto ai ritorni) ritrovarsi. Ritrovare i ‘motivi’ e i picchi necessari per l’orientamento – nei temi. (Trovare, anzi, giusto i temi: i loci). (Così resi communes). (E necessari).

Nella mancanza allora di rocche valichi torri radure laghi della storia e società e retorica, sottratti dal tessuto comune, dissipati nell’amnio di aleatorio che (non) conosciamo, ecco che la creazione di un paesaggio artificiale sperimentabile, con ricorrenze e variazioni di frasi e versi e brani interi, dà occasione al lettore di localizzarsi e localizzare profili divenuti noti in itinere, per azione di iter, davvero… iterazione.

Se parliamo, con vocabolario credo ancora utilmente strutturalista, di isotopie, lo facciamo allora non per annettere alle opere un valore astratto dato dal semplice ricorrere (certificato, inventariato) di marcatori testuali precisi; ma perché questa stessa precisione e inventariabilità assumono o fabbricano di volta in volta un senso comunicabile, ‘sociale’ in quanto sapientemente reso necessario (non “necessario perché sociale”): offrono luoghi, modi di orientamento nel tessuto scritto. Mimano senza gesticolare, ma attraverso oggetti strutturati, il darsi di una cartografia possibile; o quantomeno la possibilità di una qualsiasi cartografia. (Ma poi: di questa cartografia, specifica: l’opera intera di Franco Buffoni, da I tre desideri al libro ‘in fieri’ Guerra).


sabato, 01 novembre 2003   [link]

 

Primi appunti su Nel condominio di carne

Del libro recente di Valerio Magrelli, Nel condominio di carne (Einaudi 2003), va detto che struttura il procedere ironico di un’indagine, di un regesto minuzioso sugli eventi fisici dell’io, sui disturbi i ricoveri le convalescenze le mutazioni di una architettura cellulare che, nel corso narrativo, da corpo e organi e sangue diventa allegoria del co/dominio sociale, alterato o minaccioso; e della stessa anatomia del linguaggio comune, spossato e spostato di continuo dalla febbre del senso-non-senso.

In 55 prose brevi o ‘stanze’ il Condominio si edifica come wunderkammer, camera delle meraviglie del grottesco quotidiano. Le metamorfosi dei/nei luoghi (Parigi, Gerusalemme, Atlanta, Roma), quelle di improvvise personae (Ensor, Giacometti, i Curie, Tycho Brahe), quelle delle parole («alfabeto Morse: “forse Morte”») e quelle dei corpi, dei traumi squadrati dallo sguardo, sovrappongono una carta millimetrata o mappa allegorica a ogni punto-puntura della percezione. Tutto è pretesto per distogliere lo sguardo dal centro del male, non rimuovendolo ma anzi stanando il soprassalto di significato che implicitamente covava.

Ogni visione di un dolore particolare è in questo modo un potenziale riorientamento della visione del dolore (del fatto di essere) in generale.
Il testo funziona così da strumento di conoscenza, come in generale tutta la scrittura metaforica/metamorfica di Magrelli, e allo stesso tempo costituisce – più di altre sue pagine precedenti – un esempio di trasparenza del male. O, con sintesi più pronunciata: sguardo-dolore.

Alcune prose di Esercizi di tiptologia potevano preludere a questa efflorescenza di micro-strutture fra il ghigno angelico e l’innocenza elencativa del dannato, che affabula narrando i disastri del corpo. Ma un differente scatto di stile – decisamente “materico” – sembra essersi innestato nel laboratorio dell’autore.

Nel condominio di carne dialoga con una linea francese, anche solo per dedizione ai prismi della prosa (Ponge, Michaux, Bonnefoy, perfino Fargue) ed è allo stesso tempo impensabile senza una diversa duttilità etimologica della lingua italiana (qui nelle ‘aree’ medica, scientifica, e nelle ibridazioni felici con altre lingue): una plastica sottoposta a wit, gioco, bisticcio. Tutto ciò fa del libro un figlio legittimo dei ‘lumi’ di Italo Calvino (Palomar) e insieme marca una differenza forte: che risiede precisamente nel lavoro poetico di Magrelli. La comicità volontaria del corpo torturato scrivente è lo spin di ininterrotte trasformazioni del tessuto verbale; spirale delle sue fughe prospettiche. La quantità di ombra che se ne genera, pur utile a sua volta alla osservazione delle cose, opera una sintesi – che calviniana non è – con l’area ‘cool’, fredda, dell’espressionismo recente: ossia con la vessata (ma utile) categoria del post-human.

D’altro canto, anche da questa categoria Magrelli si svincola facilmente. Con la leggerezza di Cavalcanti che in un salto oltrepassa le offese dei sepolcri: brilla infatti nel testo – forse centrale più di ogni altro carattere – un implicito pronunciamento anti-Sade e anti-Masoch. Sembra la radiazione di fondo che nutre ogni pagina. Su questo, non poche analisi testuali meriterebbero di essere condotte ancora.