Archivio mensile:Agosto 2006

aprile 2004

martedì, 27 aprile 2004   [link]
 

È uscito Bilico, di Andrea Inglese (Edizioni d’if). Uno dei meriti di questa piccola raccolta – verificati già nella precedente, Inventari (Ed. Zona) – è quello di lavorare sul registro lirico e su quello antilirico contemporaneamente, mettendo i due toni non in cortocircuito o conflitto, bensì dimostrandoli implicati, legati. Il loro è un serrarsi a scacchiera. Come nella realtà – ma non con neorealismo.


domenica, 25 aprile 2004   [link]

 

Sottrarre [3]

La stagione storica che dispone e sviluppa forme accumulative di produzione e analisi di ‘oggetti estetici’ (e così una diffusione di tipologie accumulative dell’interpretare) le applica anche a quei fenomeni che hanno funzionato almeno per un certo periodo secondo possibili logiche di sottrazione.

La fotografia è sì una tecnologia nata col maturare del capitalismo e dell’accumulo; e tuttavia su di essa può aleggiare precisamente, a differenza del cinema, la modalità sottrattiva. Una esplicita modalità sottrattiva.
Ad avvertire una simile modalità, la nostra stagione storica non giunge se non attraverso le proprie forme: ossia – come si è detto – per addizioni di foto, per tensione alla ricerca del senso in masse di materiali quali che siano. (Tutti senza distinzioni concorrono all’etichetta “bella immagine”, “foto accattivante”, perfino “riuscita”).
Questo non ‘deturpa’ uno stato presuntivamente edenico, moderno-sacrale, dell’arte, ma mette in discussione la possibilità per la fotografia di venir percepita anche come gesto della riduzione, dell’azzeramento di alternative.

Il modo accumulativo di interpretare ed esperire suggerirà insomma che – sempre – differenti e numerose alternative si offrono al/nel reale. E che il dato di senso e valore di un’immagine resta perlomeno inalterato “anche se”… (E la frase continua con migliaia di possibilità che si ramificano).

[ Questo ramificarsi funziona così bene da non aggiungere niente alla percezione. Le assomiglia tanto da limitarsi precisamente a replicarla. Così, in apparente paradosso, un modo di conoscere basato sull’addizione può non addizionare conoscenza. ]

Osserviamo inoltre: il cumulo si accresce perfino in forma intensiva: sulla stessa immagine. Ovvero: non solo vengono potenzialmente sentiti o di fatto conservati come interessanti migliaia di attimi posti prima e dopo quello della singola foto – la cui singolarità così si assottiglia – ma in più anche senza di essi la foto isolata ha milioni di altre vite compossibili: all’interno della sua manipolabilità in sede digitale.
Sappiamo che l’immagine singola(re) è già miliardi di altre, non appena sia stata acquisita da PhotoShop. È già diventata documentari di sé, promo in più varianti, pubblicità stretta. Non questo fatto – isolato – incide; bensì il nostro saperlo.

Questo, tengo a ripeterlo, non è “male”. È in ogni caso, bisogna dirlo, l’altro dalla fotografia – o da un certo tipo di fotografia. (Ammettendo nuovamente che giusto la fotografia come strumento di massa, è partecipe e testimone della fondazione di società basate su tipologie di accumulazione).

Quello dell’accumulo è pur sempre un versante della “fotografia come sottrazione” che… non è più sottrazione; o che non vuole si sospetti possa esservi sottrazione anche e proprio nel fotografare; e che infine rende estremamente problematico un certo modo di percepire la fotografia.

[ Ora sono ovviamente innecessari i tempi di posa lunghissimi delle immagini di Hill; e dunque è impensabile la feroce sottrazione realizzata – da lì – di ogni altro tempo e posa. Nella sua Piccola storia della fotografia Benjamin osserva che il procedimento stesso induceva i modelli che Hill ritraeva «non a vivere proiettandosi fuori di quell’attimo, bensì a sprofondare nel suo interno; nel corso della lunga durata della posa, essi crescevano insieme e dentro l’immagine». Implacabili, sottraevano in tal modo qualsiasi alternativa a quella posa. Questo si registra perfino dove vi individuiamo sfocature: esse non sono affatto ‘alternative’ alle linee incise, ma bruciano anzi come nicchie e insistenze, come un’esasperazione di incisione. Inoltre, le foto di Hill sono sì un procedimento sottrattivo ottenuto per obbligo tecnico: per necessità di impressionare la lastra. Ma costituiscono in ogni caso, anzi proprio così, un esempio cristallino – forse un’origine – del sottrarre in fotografia. ]


domenica, 11 aprile 2004   [link]

 

Di alcuni autori

Di alcuni autori giovani (per i quali tutto si gioca, come deve, sul piano della assoluta necessità – tessitura della pagina: ‘compiuta’) sicuramente si deve dire: formano già una generazione. (O meglio: una linea – frastagliata – di ricerche).

Costituiscono nei fatti, e in strutture e reti che vanno tuttora formandosi, una società letteraria. Per quanto possa spesso trattarsi di persone separate, lontane per distanze geografiche o letture o itinerari di ricerca; hanno una stima (tra loro e da altri) data e ricambiata, variamente diretta, che li lega; e li fa essere in dialogo.

Per loro è giusto cercare e studiare/affiancare strutture preesistenti; ma senza dubbio assume contorno e definizione un fatto: stanno (da tempo) producendo testi che hanno rilievo, posizione nei dibattiti, poesie e prose e saggi entro cui fin da adesso vedere scorrere in tessuto loro linee di riflessione, discussione, ragioni di poetica.

Pensiamo al saggio di Massimo Sannelli ora uscito sul n.3 di «Smerilliana» (e ai suoi libri di versi, tra cui il recente La giustizia); pensiamo al lavoro che nel tempo Cecilia Bello ha svolto su Emilio Villa, attraverso articoli che sono da considerare capisaldi della bibliografia critica. Pensiamo a una raccolta come Aspettami, dice, di Andrea Raos; o al poemetto di Sara Ventroni, Nel gasometro
Altri nomi da annotare sono quelli già incontrati da chi legge regolarmente questo weblog: Florinda Fusco, Mario Desiati, Marco Simonelli, Giovanna Frene, Andrea Ponso, Vincenzo Bagnoli, Alessandro Broggi, Fiammetta Cirilli, Alessandro Di Prima, Gianluca Gigliozzi, Ermanno Guantini, Andrea Inglese, Fabrizio Lombardo, Luigi Severi, Francesca Genti, Laura Pugno.

Questi autori (qui e ora accostati arbitrariamente: per [mia] prossimità alla loro ricerca) di sicuro non formano una compagine definibile gruppo. Ma, pur non essendo nemmeno interessati a una simile modalità di progetto collettivo, si incontrano e dialogano in ogni caso in avventure di riviste, siti, newsletter, convegni, letture pubbliche, presentazioni; visitano mostre e partecipano a eventi paralleli o incrociati; ascoltano – spesso cooperano a fare – musiche assai simili.

Alcuni di loro si ritrovano su «bina», altri (o gli stessi) su Nazione indiana, o «Nuovi Argomenti», oppure su «Accattone», «La Clessidra» (o «Atelier»), «l’immaginazione», o sul sito di Lello Voce, o su quello di Biagio Cepollaro (cfr. i suoi due Quaderni del blog Poesia da fare). Chi è a Roma frequenta la Casa delle Letterature, o la libreria Cythère-Critique (ai Banchi Nuovi), o la Fondazione Baruchello.

Separatamente e insieme hanno nel tempo fabbricato elementi e forme, strade e stili fra loro non conflittuali; un clima, anche, o una nuvola di variabili, magari disordinata e di sicuro non gerarchica, che probabilmente merita una storia e – ancora – sedi e siti.


sabato, 10 aprile 2004   [link]

 

La non raggiungibilità del mondo (dalle percezioni) a sua volta non è raggiungibile. Non è chiaro se ci si muova tutti verso un’irreversibilità di terrore e guerra globali (sembra non sia lecito eluderlo, l’aggettivo).
L’estensione delle fibre ottiche o radiofrequenze o campi elettromagnetici ovunque porta ovunque lo sguardo sulla morte. Ma (inversione spettacolare): porta la morte: tout court. Chi lo avrebbe detto? Chi avrebbe voluto vederlo?
Funziona bene, questa finalmente riuscita mappa 1:1 del pianeta.
Adesso vediamo che cosa la storia è sempre stata. Lo specchio dettagliatissimo è montato di fronte alle cose.


domenica, 04 aprile 2004   [link]

 

Sottrarre [2]

Se fino a parte degli anni ’60 l’istante scelto/còlto dal fotografo brillava di qualche accensione singolare incastonandosi nell’assenza di altri istanti, ossia di infinite altre possibilità spietatamente rese sfondo cancellato, si direbbe che successivamente lo sguardo abbia iniziato a contare perlomeno sulla illimitata manipolabilità dei segmenti di tempo, di immagine; e che specie ora sappia di poter in via eventuale montare in esteso o breve filmato (o immaginare montata) tutta una corolla possibile, anzi artificialmente procreabile, di foto ‘di secondo grado’: quasi poste lateralmente rispetto al senso.
È insomma il digitale.
Questo spettro di possibilità abbassa anche la temperatura della ricerca di senso esperita nella foto che rimane o che sentiamo rimanere – nonostante tutto – singola(re).
Intendiamoci: non è qui in gioco la grandeur dell’istante. Né il lato aristocratico e insomma un preziosismo del mezzo fotografico. Non si tratta di magnificare l’Irripetibile o l’Insostituibile.
Anzi, già l’atto di vedere non l’Eccezionale bensì qualsiasi cosa è, per principio, «vedere più di quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L’invisibile è il rilievo e la profondità del visibile» (M.Merleau-Ponty, Segni).

Ci sono tuttavia formazioni grafiche e immagini ad alto grado di connotazioni e complessità di rapporti interni, per cui il loro pesare sul nostro sguardo, il loro dar senso, attraverso le strutture di ciò che semplicemente mostrano, attiene alla nostra parallela e insieme indimostrabile percezione che proprio quelle connotazioni e quei rapporti fra quelle strutture sono il risultato di una selezione spietata, di una sottrazione di alternative che – semplicemente – di fronte al risultato che spicca nella foto perdono importanza e svaniscono: ma contano infinitamente come sfondo di assenza, e come tale sono parte ineliminabile del passaggio di senso.

Questo passaggio è del resto un’addizione o arricchimento sia in termini linguistici sia in termini di esperienza. Una foto singola(re) staglia infatti una situazione o evento preciso e reale (cfr. Barthes, La camera chiara, paragrafo 35) in forme che sull’occasione di quell’evento esibiscono giusto la propria complessità di codici disponibili a intrecciarsi – in via del tutto pertinente – al reale, all’oggettività, dunque all’esperienza. (Dunque all’esperire).
La profondità e sottigliezza di linguaggi di quella foto singola(re) strutturata come la situazione di cui sa farsi emblema (cfr. le parole sulla «posa», nel paragr. 33 della Camera) esibisce la penetrabilità del reale, la sua non totale indisponibilità a venir organizzato comunque – contro e dentro l’accumulo di alternative o perfino dentro l’insensatezza che lo forma – in sintagma, in comunicazione. In sintagma e comunicazione, addirittura, “esemplari”.

La foto riuscita fa riuscire l’indagine sull’indagare. Se quella foto dice così tanto su quell’evento e su se stessa – commenta l’osservatore – forse ogni atto di visione non è atto qualsiasi; forse ogni atto di visione ha, può avere il pregio di saper seguire e stagliare, nel groviglio di rapporti senza direzione mappabile, il senso. Forse ogni sguardo ha una possibilità, anche ed esattamente entro i limiti di un solo e unico scatto, di tracciare le linee di senso implicate nel proprio interrogare il reale, gli eventi. (Quel che si dice ..avere colpo d’occhio).

marzo 2004

domenica, 28 marzo 2004   [link]
 

Sintassi

Il fatto che in tv rarissimi politici razionali battaglino in bella disperazione, a suon di nessi tra frasi e analisi e ragionamento, contro loro sodali o nemici comunque più numerosi e rumorosi e monocordi nel prediligere l’iterazione come modello di esistenza (prima che di discorso), mette addosso lo sconforto che sempre viene vedendo l’organismo complesso soccombere davanti al caterpillar monocellulare.
Il pugile, che non ragiona, abbatte il corpo che ha di fronte, con tutte le ragioni che contiene. (È, del resto, la storia della politica italiana, dal 1994 in avanti).
Un unico minimo virus ‘fatto solo di se stesso’ compromette macchine animali giganti, miliardi di cellule. Lo stato è attaccato alla radice. Era debole; ora debolissimo. Gli italiani hanno ceduto perfino prima.
Venti o trent’anni di isosillabismo, di alfabeto morse per neuroni nani, di raggi x, su una nazioncina relativamente giovane (stato che non è mai stato stato), distruggono spessori e labirinti della sintassi.
La stessa percezione del tempo sospeso, incantato, che è essenziale per attendere e volere la conclusione di un ponte sintattico, è revocata, messa in scacco, impercorribile. (La parola è atto, e atto semplice, o non è: questo ora è l’implicito/scontato in ogni esordio di discussione; in ogni rapporto; e nel lavoro; e comporta distruzione del tempo).
Ma le pubblicità, fino a buona parte degli anni Ottanta, erano pur fatte di frasi. Le ricordo. Esistevano. Poi più nulla.

Da queste linee iniziali di constatazione deriverei il valore anche politico delle ARTI DELLA SINTASSI.
Diverso tassello di una resistenza (parecchio più vasta).


giovedì, 25 marzo 2004   [link]

 

Kitsch come meta_stile

Non avrei voluto aggiornare la pagina prima della fine della settimana. Ma la casella di posta elettronica e quella di posta ‘cartacea’ e le cose sentite e lette obbligano a volte a un piccolo ‘sommovimento’ (reattivo). C’è insomma un’insofferenza che chiede di essere espressa. (È assai meno importante del brano sull’allegoria, che segue; ma ha forse più urgenza).
Di che si tratta? È presto detto:
Tutti conoscono quella frase di Debord che dice che lo Spettacolo è il Capitale a un grado così elevato di accumulazione da diventare immagine. Il kitsch rappresenta l’accumulo di segni di secondo e terzo grado, deviati e disturbati (da assenza assoluta di storia e di coscienza dell’esistenza della storia): accumulo portato(si) a dimensioni tali da configurarsi come meta-stile.
Copre ed anzi è un amplissimo ventaglio di forme dell’esperire in generale, del ‘percepire il passaggio del senso’ (in arte, nel tratto di storia che chiamiamo indicativamente “contemporanea”). Mai viste così tante copertine di libri di poesia, e (cover di) canzoni, e abbigliamento, e libri e romanzi e poemi interi configurabili come “pacchiani”. E la cosa stupefacente – a parziale critica delle certezze di Debord – è che tanto trash non fa nemmeno vendere di più.
Tuttavia anche questo (come la new slavery evidente nel mondo) può essere cifrato daccapo grazie a un ulteriore riferimento a Debord (dal Panegirico): così come «la schiavitù vuole essere amata ormai esattamente per se stessa» e non in vista di alcun guadagno da parte dell’asservito, altrettanto diremmo che il kitsch non cresce esponenzialmente per raggiungere un assenso (una fortuna economica, un ‘piacere’, o ‘il fatto di piacere’). Semplicemente esiste come alone di questa fase di lusso perfetto del capitale transnazionale, delle città mondializzate, sequestrate. Dunque è meta-stile, e insieme meta, e insieme lo stile.
Questo non lo rende meno disprezzabile. E accresce le responsabilità e l’impegno di chi gli resiste.


domenica, 21 marzo 2004   [link]

 

Allegoria; sfondo di senso

Puerilmente e per necessità (comunque da non parlanti, da infantes, si inizia un discorso sul parlare) una base di partenza per degli elementi di poetica, o di ricostruzione di poetiche possibili, ha diritto e modo di darsi come ripensamento e critica frontale al post-human; ma prima ancora, e direi in parallelo, come riferimento alle strutture e precondizioni di linguaggio che legano le società.

L’argomento stesso del discorso è ambizioso. Segno che merita affrontarlo.

Una emblematica con riferimenti rigidi, a enigma, con strutture predefinite da una ideologia o religione, ha non solo perso senso, ma probabilmente non l’ha mai effettivamente avuto (nel cuore dei parlanti, nella storia). Tuttavia il castone di senso, l’involucro-fondazione entro cui nasce (e che è per paradosso generato da) qualsiasi parlare, fa pur riferimento a emblemi come minimi segnali di uno sfondo di senso possibile, condiviso. Pensabile proprio in quanto non già pensato, non pre/definito.
Il porre un enigma innesca – tra varie forme di eco – l’allusione a uno scioglimento possibile. Dunque a un passaggio di consegne tra non senso e senso.

L’occorrenza di allegorie in poesia, anche ‘vuote’, se pure non rinvia a elementi di decodifica certa, ha a che vedere precisamente con il più generale, necessario, riferimento a ‘un’ dar senso, atto specifico dei linguaggi complessi.

È forse questo il residuo di pietà [tracciato neurale plausibile: non ‘umidore’ neoromantico] nelle arti – già offerto non come resto o scarto ma proprio come corrente di materiali in tutto il Novecento. Pensiamo ai muri segnati e graffiti di Tàpies, al personalissimo fayyum di Boltanski, e – retrocedendo – alle esperienze del gruppo Cobra, o a Mirò, soprattutto a Klee.

Un riferimento – perfino diretto – agli stessi fondamenti di possibilità dell’esperienza del senso in accezione umana.

*

D’altro canto, è pur vero che questa esperienza è strettamente legata (sa di esserlo) al “dar senso individuale”, in scala 1:1, che sembra aver preso possesso della scena artistica in maniera assoluta e incontrovertibile giusto nel XX secolo, così ‘compiendo’ (dopo i laboratori già postumani dei nazisti) quel progressivo avvicinamento o sovrapposizione di “senso” e “condizione di possibilità del senso” che aveva avuto origine con la nascita del “senso estetico moderno”.
Nel momento in cui un sentimento di produzione e un sentimento di fruizione, investitore e investimento, vanno a legarsi fino a coincidere, vediamo oggettivata quella ‘estetizzazione dell’esperienza’ di cui fin troppo si parla.
Questo estremo riferimento al carattere individuale dell’arte come “esperienza estetica” (perché tutti e ciascuno individualmente, in tutte le esperienze e in ciascuna, esperiamo il senso, esperiamo l’esperire) rischia così radicalizzandosi di escludere il fatto che il suo circuito è reale e attivo in quanto socialmente fondato o fondabile; in quanto – appunto – umano, condivisibile (anche per punti minimi, per minime superfici di contatto) con una attenzione altrui.

Se ‘estetica’ riguarda in potenza ogni evento incontrato, ecco che la possibilità di verificare ovunque fondata l’esperienza del senso, sposta quest’ultimo nell’ovunque, e in ciascuno, così dissipandone i contorni socialmente riconoscibili (marcati per distacco). E offrendo resistenza zero all’eccezionalità/crudeltà delle “esperienze estreme”. Al loro attestarsi.

*

Per certi aspetti, dunque, il lavoro sugli emblemi e il riferimento alle “allegorie vuote” è ben interno a (non svincolato da) quello stesso senso estetico moderno che registra la de/umanizzazione, il post-human. Per altro, sa o vorrebbe saper fare risuonare – nel sollecitare precisamente il valore “sociale” del produrre senso in emblemi – quello sfondo di relazioni, quella materiale condivisibilità dell’esperienza di senso, che una estetica tutta catturata da se stessa e dal “nouveau” ha progressivamente fatto impallidire, se non distrutto.

Un cranio cavo, esibito in allegoria, opacizza o elide quella prepotenza di mappatura 1:1 della realtà che un cranio cavo vero, prelevato ed esposto, possiede e impone con violenza.

È implicito nel discorso culturale limitare con strumenti immateriali (nello stesso linguaggio) il non-discorso della violenza.


lunedì, 15 marzo 2004   [link]

 

Un primo paragrafo sul sottrarre

Proviamo a pensare a una fotografia come a un’esasperata sottrazione di alternative.
Diciamo: quella è (la) fotografia riuscita, entro quei termini e confini. O: non è le infinite altre – le non riuscite, le non (così) tessute di connotazioni.
Questo, volendo, spiegherebbe perché avvertiamo il mezzo fotografico – in quanto modello – così incline alla registrazione del dolore, altra forma di riduzione a zero di alternative.

[ Lo scatto di un dolore, prima ancora di (e con il) ritrarlo, dà un’eco della modalità generale di rapporto con il soffrire ].

[ Fuori dalla fotografia: è poi il tema che inaugura e innerva – variamente articolato – tutto il saggio di Genet sull’opera di Giacometti ].

Ma se è vero che pensiamo alla fotografia come ad una riduzione drastica di sentieri nel giardino borgesiano, lo facciamo rispetto a quale (altro) mezzo che invece ne addizionerebbe? Probabilmente rispetto al cinema. Sembriamo ritenere che il cinema sia l’esposizione dell’evento intero, in tutte le sue mancanze e i suoi pieni. Di cui la fotografia sarebbe, anzi è (o di cui un certo tipo di fotografia fino a oggi è stata) il fermo-immagine non casuale.

[ È quel che Barthes sta per dire nel § 23 della Camera chiara, parlando di «pensosità» del fotogramma. È quello che forse adombra Cocteau nel Mistero laico, nel brano che inizia con «Una casa fotografata e una casa filmata non si rassomigliano affatto». È quanto suggerisce, per via inesplicita, Susan Sontag – nel testo Nella grotta di Platone – parlando di una fotografia come di una «trasparenza strettamente selettiva». È ciò che McLuhan sfiora e pure schiva al principio del cap. XX de Gli strumenti del comunicare. ]

Ossia. Se vuole darsi titoli di cacciatrice del senso, la fotografia deve – sì – aver l’aria di una sottrazione di alternative, ma sempre (e in quanto) comunica insieme la certezza-sfondo che tutte le alternative abolite per arrivare a quell’unica particola sovrastante un cumulo annerito siano state quelle giuste; siano state sensatamente azzerate, secondo un esatto quanto imprescrittibile profilo di sparizioni.


domenica, 14 marzo 2004   [link]

 

Pianeta deperibile

I limiti del conoscere, del significare e dell’usare (il mondo) sono esterni a noi. Se il linguaggio è innamorato delle proprie gallerie (specchianti), ciò non toglie che il mondo esperito non si pieghi a una simile indifferenza verso il limite. Il barocco, per statuto, manca di umiltà.
Il pianeta ci ‘interrompe’, di fatto. Il misconoscimento del margine ha prodotto (sul versante in apparenza più immateriale) il Mercato e lo Spettacolo contemporanei come tematizzazioni del nodo estetica/economia; e ha escogitato (sul versante più fisico) l’energia nucleare: la distruzione dell’ecosistema.
Le armi nucleari aggirano irreversibilmente il nemico. Lo cancellano. Attengono alla stessa possibilità del conflitto, radicalizzandolo a un punto tale da renderne vuoto il concetto. Le testate nucleari non iniziano né concludono uno scontro, ma puramente annientano tutte le parti in causa – e perfino quelle non in causa. Qui si ha a che fare con l’illimite fatto arma. Anche questo è ‘umano’, ovviamente, ma dell’umano rappresenta il confine esterno, oltre il quale inizia la scomparsa della specie dal pianeta.
Al momento questo non accade o non è ancora accaduto. Tuttavia l’istituzione di una eventualità del genere non era inevitabile. Ora lo è. Ne ha responsabilità una definita classe sociale, che come sempre è cosciente di sé solo fin dove fa comodo ai propri interessi (economici). La ‘classe imprenditoriale’ nemmeno ha voluto osservare la prossimità di economia ed estetica. Ha puramente sposato il loro sposarsi. Ha stampato l’homo faber come istituzione comodamente perenne, incoronando così l’homo ludens in forma di asservibile già asservito utens.


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MG’s Biblio_upgrade: sono usciti in questi giorni

> un poemetto e alcune poesie su «Smerilliana», n.3, febbraio 2004,
> sette poesie da Alter su «Il Segnale», n.67, febbraio 2004,
> otto poesie su Matità n.4, feb. 2004,
> due prose e una poesia nelle pagine del progetto Klandestini del British Council.


domenica, 07 marzo 2004   [link]

 

Qui di séguito ripropongo una pagina già pubblicata tempo fa, ma adesso (ri)pensata e quasi riscritta, come possibile dialogo con i vari interventi che in questi giorni sono comparsi su «L’Unità» (specie quello condivisibilissimo di Margherita Ganeri, il 5 marzo), sul sito di Lello Voce, e sul settimanale «Stilos» (p.es. il pezzo di Elio Paoloni, uscito il 2 marzo).

Parola spostata

Scrittura, interpretazione e prassi (anche nel senso elementare di comportamento quotidiano) cospirano a risalire verso la complessità e indecidibilità delle percezioni. In arte e scienza e riflessione filosofica sembra che il Novecento abbia stilato un unico regesto sull’indeterminabile, quindi sul rinvio continuo (link, rimando, nuova rima, frequentativa). Fino a spingere – non insensatamente – perfino alcuni filosofi postmoderni a dubitare del dubbio, e a interrogare le linee di resistenza del reale, osservando che comunque qualcosa nel cerchio dei segni fa spessore, bordo, ostacolo, e così crea o prefigura sintassi, gerarchie di senso, ovvero limita o recide la deriva interminabile di connessioni che la realtà percepita e ritradotta sembra formare.

Dallo specchio barocco si avvista già la fibra di vetro. Ora la perplessità non ha compiutamente modo di venerare una sua propria poetica, o di insultarla; non ha teschi da veder posare sul tavolo della natura di fatto morta, né stagioni da dissipare mento in mano contemplando fiamma. Migliaia di miliardi di “materiali” (info) si torcono de/formati perché perfetti all’interno dei prismi-specchio, da un cavo all’altro, senza passaggio di tempo; in un momento. (In parallelo e coerentemente, il tempo individuale tende a zero: abolito dal tempo enorme e collettivo delle cataste di informazione, e dello sfruttamento tollerato).

È configurata allora una contraddizione tra la struttura seriale del pensiero-scritto che conosciamo, e la natura parallela dei files che il mondo informato genera (o: che noi bene o male rubrichiamo come quella cosa a cui diamo nome di Mondo).

Per seguire e capire e intervenire anche in senso politico sulla realtà ‘servirebbe’ un iter lineare o più trame di un tessuto (textus) serialmente affrontabile. I files, i percetti, concrescono invece aperti in parallelo, nonché virtualmente senza numero: frattali. Non si può metterli in sintagma. Sono pressoché negazione del concetto di sintagma. Disporli in tracce verticali, gerarchizzate, non ramificate, è chiamarsi fuori gioco, o antieconomico, stante anche il fatto che tale loro articolazione ‘in parallelo’ riproduce quel medesimo sistema complessivo-complesso di organizzazione mentale dei dati percepiti che l’uomo europeo e in parte statunitense ha formato in sé, almeno dal Settecento a oggi (via via più scientemente).

In questo planetario è perfino funzionale e implicito lo spiraglio joyciano (joy), con uno stream (parola fortunata) of consciousness congegnato per abbassare la temperatura e i picchi delle sensazioni, digerire le res estraendone il nulla, facendone narrazione orizzontale, o narrazione-orizzonte, talvolta perfino parola critica, concertando di séguito blob tra maschere (personae) politiche o blog apolitici strettamente separati e autocentrati.

In sostanza: è capitato al XX secolo di essere il luogo esemplare di una doppia irraggiungibilità: del reale e della parola contemporaneamente. Come una freccia che punta allo stesso tempo in due direzioni, e che precisamente in questo modo cerca di dire entrambe. Non toccandone alcuna. Così per paradosso fondante arrivando precisamente a esprimerle. (Dimostrandole legate; accusandole implicate).

Non si deve forse guardare al XX secolo come a un’unica messa in scacco della parola; bensì come al tempo in cui la parola-scacco ha tematizzato sé. Così facendo, ha in parallelo reso o dimostrato più fragili le proprie vie, complici o complanari – in potenza – di quel sistema di paratassi blande, di slittamenti di responsabilità, di elusione dei costi del possesso dei piaceri, di smaterializzazione irreversibile del valore dei corpi e delle vite individuali, che può essere in sintesi chiamato ancora capitalismo.

In un quadro simile, la parola-scacco occupa una casella che solo contraddittoriamente entra nel punto cieco abitato dai lessici politici. (E questo ne fa parola di conoscenza differente, cifrata e cifrante, spostata: ben poco ‘utile’, almeno in prossimità della sua nascita sul foglio). E tuttavia sembra essere ancora il primo luogo di conoscenza che abbiamo. Non è poco.

[ nuova variazione dell’articolo comparso con il titolo di Afasia di settembre su «Il Segnale», a.XXI, n.62, giugno 2002 ]

febbraio 2004

domenica, 29 febbraio 2004   [link]
 

Joyce vs Rilke

Da Il mezzo è l’aria, di Enrico Ghezzi (Bompiani): «Credo che il dovere di chi lavora nell’ambito della comunicazione sia, non dico di opporsi, ma in qualche modo di porre come dei freni, degli intralci, delle complicazioni, delle deviazioni, proprio alla immediatezza (insormontabile, invece) della comunicazione cinetelevisiva. E c’è poco da dire: ci eccede. Ogni immagine ci convoglia, ci butta addosso informazioni che non avremo mai il tempo di leggere, di mettere in sintagma, di selezionare, di gerarchizzare».
È il tema del “rumore di fondo”, in rete come ovunque. Ma è poi così strano che la comunicazione ci ecceda? Non fa così ‘anche’ il linguaggio? Il parlare stesso? Il percepire, prima ancora. (Il primo assoluto).
[Suggerirei: non la comunicazione ci eccede: questo sempre è accaduto. Semmai: cresce la nostra percezione dell’excessus, dato che i meccanismi che in se stessi tematizzano il nostro medesimo esperire, sempre più ci danno occasioni di delibare frontalmente l’eccesso, l’eccedere dei segni].

È allora una ‘soluzione’ pensare di «porre come dei freni, degli intralci» o «deviazioni»?
Si tratta forse, come l’Ewald Tragy di Rilke, di «dire una parola enorme», scagliare in faccia alla ‘borghesia’ quell’insulto da cui essa non potrà riaversi? La parola enorme è qualcosa che dobbiamo forse “dire”?
Se osserviamo bene, nel campo del “dire”, sul principio del Novecento l’avanguardia andava – come insegnano i saggi di Franco Moretti – proprio in direzione opposta: con lo stream of consciousness, si produceva – proprio all’opposto – una netta eliminazione di intralci complicazioni tragedie. Cesure e interruzioni sparivano sullo sfondo di un orizzonte di eventi freddo-tiepido: l’orizzonte del monologo interiore, banale basso continuo, che permette al dublinese medio di sopravvivere alla catena di shock e piani sequenza della città in accelerazione.
Nella coscienza tutto è complanare con tutto, e ‘fluente’ (“stream”: nome fortunato): per sopravvivere, per non soccombere all’impatto della molteplicità. (Del cinema, si direbbe).
E cosa ha fatto lo stesso Ghezzi, se non escogitare, con Blob, l’equivalente televisivo dello stream? Non ha reso, così, tutto più fluido, più corrente, più digeribile-digerito? No. Forse no. E tuttavia: lui per primo (in tv) ha “semplicemente” mostrato allo spettatore postmoderno che cosa è e come effettivamente funziona l’immaginario schiacciasassi dello spettatore postmoderno. Ha reso trasmissione televisiva quello che era già per tutti e per ciascuno un banale e irriflesso daily (mental) zapping – spesso produttore casuale di senso.

Le avanguardie non sono all’avanguardia di qualcosa di ontologicamente dato grazie a loro, bensì di qualcosa che ha sempre a che vedere con l’autocoscienza, con la percezione riflessa di un certo stato di cose e di caos; e con la significazione di tale presa d’atto.
Il primo che formalizza un metalinguaggio (Joyce con lo stream dei dublinesi d’inizio secolo, Ghezzi con il blob dello spettatore mondiale medio mediale degli anni ’80) appare “all’avanguardia” – e in effetti lo è. Ma è all’avanguardia in termini di percezione di un evento che già si è dato socialmente, è già in atto. Non viene istituito da loro. Loro ne sono i primi (attivi) sismografi. Sono i legislatori di un buon (= funzionante; e spendibile infine) codice di autocoscienza.
Se Ulisse vuole sopravvivere dentro Dublino, dentro la città-linguaggio (e dentro la borghesia, nell’industria, nell'”esteticità diffusa” = “senso estetico moderno”), parlando da dentro quel linguaggio, essendone parte, allora la “parola enorme” di Ewald Tragy non è una soluzione.


domenica, 22 febbraio 2004   [link]

 

“Un’editoria che non cura le opere di qualità e di sperimentazione è come un’industria che non investe in ricerca di nuove tecnologie. Che è precisamente quello che accade in Italia da decenni, in entrambi i campi. Infatti non siamo, né letterariamente né economicamente, competitivi”. (Lello Voce)


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Tutto è politico? Anche questa citazione di altri anni, certo.
E allo stesso tempo: niente è politico; dato che il contesto (‘mondiale’) è blindato. Niente che un ‘comunicatore’ (dov’è non dico la figura, ma proprio la parola “Intellettuale”?) possa raggiungere.
Se il blog è la forma estrema di isolamento nella rete, attraverso la rete, è pur vero che le stesse comunicazioni ‘classiche’ ad alto grado di formalizzazione (poesia, narrativa breve, saggio) scontano un abbassamento di visibilità, in Italia più che altrove ma nel Novecento e ora più che mai, sensazionale.
La scomparsa o trasformazione (non letteraria) della parola pubblica coincide con la crescita del potere di chi sa comprarla. Quanto più è alto l’investimento non mediatamente economico, tanto più forte è la presenza sulla scena della parola. Su temi legati, si può leggere una riflessione nel blog di Biagio Cepollaro.


domenica, 15 febbraio 2004   [link]

 

A fuoco è fuori fuoco
(2)

Una fotografia che osservo, carica di un certo alto o basso numero di connotazioni, parrebbe oggetto definito. È così? Quale oggetto è – in generale – finito, definito (definitivo)?
La foto X, in quelle strutture comunicata, esattamente per via dell’esattezza e inaggirabilità delle linee e isotopie percettibili che la compongono, rende sfondo eluso e cancellato una massa di possibilità altre. Possibilità che in qualche modo sono avvertite o presentite come sfondo eluso e cancellato giustamente.
L’oggetto infinito, il prodotto infinito, insomma, tematizza proprio con il suo “infinirsi” l’atto generalissimo del giudicare. La possibilità, anzi, di giudicare.
Attenzione: questa non è “deriva (solo) storica” – se non in quanto si è estesa e sta crescendo di fatto in un arco di decenni. Non ci troviamo del tutto in un territorio storico. Avendo a che vedere con una indeterminata e generalissima facoltà di giudicare, abbiamo allo stesso tempo a che fare con qualcosa che ci riguarda in maniera profonda: che riguarda cioè l’esperire in generale; e, anche, il darsi di una storicità delle esperienze di arte.


sabato, 07 febbraio 2004   [link]

 

La molteplicità delle lingue – l’includerne varie all’interno di un testo – non è segno di “uso” di una lingua sentita altra, né l’espressione di (una parte di) indagine attraverso una madre seconda, né moda, né nodo di tutto questo.

 

È semmai semplicemente l’emersione dell’esattezza (imprescrittibile) da/in altri suoni da quelli della lingua madre. E notiamo: un testo può “compiersi” anche non includendo solo lingue altre, ma – il ’900 insegna – brani musicali, grafica, variazione della stessa forma-libro, inserzione di oggetti (pensiamo per l’ennesima volta agli esperimenti di Kolař, o all’opera-mondo di Pound). La poesia visiva è appena uno dei raggi di questa ruota. I suddetti non sono “strumenti”, come non lo è in sé la stessa lingua (madre), il codice primo (quando accade sia quello, ossia la scrittura in madrelingua, il primo). Sono i diversi luoghi entro cui l’indagare del segno sul segno oscilla interrogando sé, il mondo.

 

L’”uso” delle lingue altre può allora essere così disinvolto in molti autori degli anni recenti proprio perché non è un uso (come una parte del Novecento ha spesso inteso), un agire cioè di A su B attraverso C. Non esiste strumentalismo, dualismo, ruolo. Semmai, il parlare esperisce sé (cresce) entro una continua tematizzazione del proprio lavoro, che il linguaggio concreta in lingue e sovrapposizioni e segni moltiplicati.

 

L’impasto complessivo e complesso dato dall’esperienza degli anni recenti è formalizzazione – ma accesa, non quieta – di questo preciso “riflettere su sé” del segno linguistico moltiplicato nei segni in generale.

 

Un riflettersi che va semplicemente (almeno da chi scrive) esperito/agìto.

 

D’altro canto, un maestro (non il solo, forse però il maggiore) in ciò è stato e sarà Emilio Villa. Annotava, tra altri, Stelio Maria Martini: «ma Villa dovrà accorgersi che la lingua non è fungibile solo nell’uso delle singole parole, bensì anche rispetto a qualsiasi altro mezzo impiegabile nella pratica del sensibile. L’uso della lingua prima o poi porta ad aprire all’extraverbale, se non si desidera girare in tondo perpetuamente, cioè ripetersi all’infinito» (Scrittura totale, in «il verri», a.XLIII, n.7-8, nov. 1998, p.152).

 

La «pratica del sensibile» (l’estetica in sostanza, il non-campo dell’esperibile) ha tra i suoi fenomeni rubricabili la lingua, una lingua storica, “maggiore”, e tutte le infinite (anche impercettibili) variazioni e deviazioni da quella. Come i libri della biblioteca di Babele. Ogni testo poetico, ogni libro, è in fondo una nuova grammatica, più o meno percettibilmente deviante, più o meno avviata a essere altra lingua, minore all’interno di quella che appunto aveva preso come luogo (già poi smarginato, inafferrabile) di avvio.


domenica, 01 febbraio 2004   [link]

 

A fuoco è fuori fuoco

Riprendendo Estetica. Uno sguardo-attraverso, di Emilio Garroni.
L’esperienza ampia e indeterminabile del senso-non-senso, fatta attraverso particolari e determinati eventi, registra sé nei meccanismi che ne accumulano occasioni.
Più occasioni abbiamo, più (frequenti) occorrenze di esperienza del senso registriamo. Il moltiplicare le occasioni all’infinito, avvicina sé all’indeterminabile.
Quanto più le occasioni diventano x che tende a infinito (e si vede e vende come tendente a infinito), tanto più costeggiano quell’imponderabile che abita nella condizione di possibilità della facoltà di giudizio.

Dunque l’accumulo, puntando a infinito per statuto, è modello e descrizione – tendenzialmente – della stessa possibilità dell’emersione del senso.
Ecco spiegato come il prodotto contemporaneo non sia più (non possa nemmeno saper essere) finito.

Indefinizione e infinità allacciano rapporti. Siamo ancora nel campo del senso estetico moderno.
Sul prodotto (in)finito, esercitare nelle forme note un giudizio non è del tutto legittimo, essendo il suo sfondo un moltiplicatore di possibilità di essere altro da sé.
Il giudizio determinato sul prodotto infinito rischia di farsi inaccessibile perché il prodotto, proprio come infinito, non tanto è oggetto di giudizio, quanto si avvia a confondersi con l’iter mentale che realizza o addirittura fonda il giudicare.

Quando l’oggetto tende in via esplicita e per statuto a infinito (relativamente alla propria identità), tende parallelamente a risalire il giudicare. (Movimento che a sua volta si dà come modello del giudicare stesso, del giudicare anche solo possibile).

gennaio 2004

domenica, 25 gennaio 2004   [link]
 

Specchio, spessore

Seguendo Franco Moretti nella sua lettura del genere-romanzo e di modernismo e postmodernismo in quanto ‘svolte’ nei confronti del tragico, diremmo che Egeo non ha compiuto un gesto eccezionalmente moderno. Ha certificato a sé la propria esistenza, dopo il dolore, smettendo di esistere. Egeo è precisamente quell’Ego al quale modernità e – a maggior ragione – postmodernità si rivolgono con cifre di (prosaica) diffidenza.
Probabilmente ritengono migliore il fulmineo «rimo, dunque vivo» di Tristan Corbière – a cui lo stesso poeta guarda poi con aria beffarda, visto che il verso intero suona «Io rimo, dunque vivo… (non temere: è a salve)».

Anna Maria Ortese: «Solo una superficie gelida ed elegante – assolutamente immobile – potrà riprendere il moto scompigliato di un albero scosso dal vento, o il levarsi fresco di belva di un’onda verde del mare. Il mare non riflette il mare, né l’albero l’albero. Solo in qualcosa di natura profondamente diversa e contraria, la natura e l’animo tragico delle cose si riflettono. Questo è ciò che si dice qualità estetica. È la qualità dello specchio, che si oppone – e perciò la cattura – alla cosa specchiata. E se volete riprendere un mare in tempesta, o gli orrori di una guerra, siate calmi – e mettete tra voi e queste cose la distanza scaturita dal vostro stesso doloroso silenzio» (Dove il tempo è un altro, 1980; ora in Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997, pp.66-67).


domenica, 18 gennaio 2004   [link]

 

Egeo

Egeo, figlio di Pandione e padre di Teseo, fu il nono re di Atene. Spodestato dai nipoti, fu rimesso sul trono dal proprio figlio.
Quando Teseo partì per uccidere il Minotauro, il vecchio padre gli raccomandò di issare, al ritorno, una vela bianca sulla nave, in segno di vittoria sul mostro. Ma l’eroe e l’equipaggio, in festa, ubriachi di felicità per l’uccisione del Minotauro, dimenticarono l’avvertimento.
Così, rientrando, ecco: la nave recava ancora la stessa vela nera con cui era partita, in segno di lutto.
Egeo, vedendo quell’unico segnale venire dall’orizzonte, da dove ancora non si avvertiva il baccano e l’entusiasmo della ciurma, e credendo che il suo unico figlio fosse morto, si gettò disperato in quel mare che da lui avrebbe poi appunto preso nome.

Un unico segnale e un unico figlio. E da queste unità: un lutto: superfluo. Un semplice fraintendimento di un codice (binario): l’uno che sembra/è zero. Da un signum letto correttamente ma emesso senza intenzione scatta – in una disposizione alla tragedia – l’irreparabile.

Per quanto si possa ammettere che forse ci comporteremmo tutti tragicamente, nei panni di Egeo (o in quelli di Wittgenstein che in trincea medita e semina per il Tractatus), è comunque necessario guardare con sospetto a questo istinto di tragedia. Viene dai segni.


domenica, 11 gennaio 2004   [link]

 

Da annotazioni degli anni ’90

«Sei in compagnia con amici e con una donna, è lo stesso, sono le parole fatte dagli uomini, il corpo dell’uomo che è stampato dappertutto, nel viso delle bestie, nella lingua del cane. Sei solo davanti al mare o alle montagne; ma non sei solo, fra te e la montagna tutta chiusa nel suo vestito di pietra ci sono le immagini e le ragioni degli uomini, il loro bisbigliare. Allora ti ricordi di quando non era così, di quando credevi di poter essere solo con le cose ed erano le cose a preoccuparti e interessarti.
Come è avvenuto? Ecco, quando senti che non c’è più nulla che non sia occupato dalle cose dell’uomo, nulla che non ti ripeta le storie monotone dell’uomo; quando ti accorgi che le cose stanno quatte e zitte finché non le nomini e discuti attraverso di esse con gli uomini; allora sei arrivato a metà della tua vita e non potrai più tornare indietro…»
(Franco Fortini, La cena delle ceneri (1948), ora in La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, Claudio Lombardi Editore, Milano 1988, pp.59-60).

Di fatto l’irreversibilità della sensazione di «essere solo con le cose», lirica o dolorosa che sia, funziona a un dato momento da spartiacque in ogni storia individuale. La taglia in due versanti «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. […] Esperienza, insino alla quale nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo […] Ma accaduta che sia, […] in fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale» (Leopardi, Pensieri, LXXXII).

Per Fortini, la Resistenza è stata (poi è nel racconto) un margine, un confine di questo genere. Ma la ricchezza del testo fortiniano non si arresta qui.
Nel racconto si parla proprio di un’ulteriore frattura – che è poi quella del presente della narrazione. Si parla cioè di una sorta di “ritorno ai segni”, dopo l’immersione nella solitudine con le cose, dopo il dolore.
Questo ritorno può essere – non del tutto arbitrariamente – assunto come sensata e vera seconda frattura nella vita individuale.
Dopo la cesura netta fra un ‘prima’ fanciullesco (quando del dolore si sente solo parlare) e un ‘dopo’ di impatto con la realtà, occorre fissare un momento di arricchimento, consistente in questo: l’assunzione in sé, e presa d’atto, che le ragioni dei segni non sono distinguibili dalle ragioni delle cose, il tessuto doppio (che doppio non è) non si lascia smagliare. I fili sono serrati insieme.

Con le parole di Fortini: «ma non sei solo, fra te e la montagna […] ci sono le immagini e le ragioni degli uomini, il loro bisbigliare».
È forse questa la ‘vera’ partizione. È da questa assunzione di responsabilità nei confronti del proprio sistema di segni, solo da questo riconoscere «le immagini e le ragioni […] le storie monotone dell’uomo», che inizia la seconda metà della vita. (Da cui «non potrai più tornare indietro»). (Semplicemente perché non esiste nessun posto dove tornare: e la precedente idea ‘binaria’ o dualista del parlare e del vivere era la visione incompleta o puerile del tessuto effettivo).


domenica, 04 gennaio 2004   [link]

 

Di alcune scritture recenti

[appunti da un saggio in costruzione, su poeti italiani nati negli anni ’60 e ’70]

Alcune scritture recenti trascinano da vita ed esperienze dirette (straight stories) elementi riportandoli in un orizzonte che, linguistico, non fa della lingua l’orizzonte. (Perché essa già lo è. E come tale è avvertita, da chi – nato dopo il 1960 diciamo – questa coscienza l’ha assorbita con il latte ottico e sonoro che lo nutriva e lo istruiva/istituiva, che lo formava). (In virtù del fatto di crescere in un tempo determinato da neoavanguardia e parallele scritture diversissime; e dalle scritture delle varie forme di elettronica che gli anni registravano).
In autori come Florinda Fusco, Elisa Biagini, Laura Pugno, Ermanno Guantini, Alessandro Di Prima, Massimo Sannelli, Sara Ventroni (tutti del 1970-74) il testo a mio parere nasce e sa decisamente nascere freddo, ‘cool’; ossia non necessariamente legato a valori materici traslati sul foglio ad annerire e formare blocco incandescente, ‘laborintico’, o à la Spatola. La pagina non slitta primariamente verso Il Linguaggio, verso retorica-rito. A serrare e chiudere il testo, in Fusco, Di Prima ecc., e già forse in Frene, Raos, Inglese, non è frontalmente la sovrabbondanza di res, cose, cataste/fatti linguistici, ma all’opposto una loro libera sottrazione. (O un accumulo tuttavia algido, seccamente dato). E l’emersione, al posto del magma, di un calco cavo, di un variato eccesso di non detto. Non però nella forma del consueto bianco-pagina neoermetico. Le lacune, gli spaziamenti (espacements, aree fredde), le ceneri e i tagli operati su una materia/maceria enorme sono dolorosi e danno diversa incandescenza. Differenti salti di rapporti, tagli semantici, spezzature.


giovedì, 01 gennaio 2004   [link]

 

Sul poemetto Spostamento – di Giovanna Frene

Spostamento, di Giovanna Frene, edito da Lietocollelibri (Como, 2002, pp.48), è testo costituito da una Definizione in tre versi («Chiamiamo morte quella condizione / per cui il ricordo di una persona / da viva ci appare improponibile»); da dieci poesie o lasse numerate e dotate di titoli; da una Clausula; e infine da un vero e proprio riporto epigrafico: «nemo obliviscitur felicitatis suae».
Il poemetto nasce come torsione testuale o nadir (complesso) di un evento luttuoso. Il suicidio di una persona cara disegna sulla pagina orma e deformazione di un discorso emotivo. Che non significa sentimentale. È anzi vero l’opposto.
E se un “io” affiora già dal Proludio, si tratta di ego che è dissipazione, e che così (si) dichiara: «per l’appeso scrivo qui la poesia doverosa / necessaria maledizione di un maledetto: / non dissimile al vento che portava / al nulla la stagione il detto della cenere». Dissipazione agìta anche sul corpo dei sostantivi dell’ultimo verso: quale valore hanno «stagione» e «detto»? Altre ceneri: grammaticali.
Forse la poesia in questo senso più emblematica è la quinta, intitolata Dell’irradiazione: l’incipit «luce della luce dei corpi senza luce» rimanda per solennità e altezza (non retorica) al Credo della liturgia cattolica. Ma è versato come una litania rivolta alla «insufficienza ovale» (ai «bordi della parola») sul «cranio opaco» e distanziato dello scomparso. In gioco è così una doppia sparizione: di parola e corpo: il verso conclusivo, «mortomorto senza assoluzione», significa lo stesso inseguirsi dei linguaggi.
Se quindi Spostamento si definisce in sottotitolo Poemetto per la memoria, è anche un flusso scritto-spostato lungo una linea di fuga dallo stesso concetto di testo. Chiara – per eccesso di ironia – la Clausula che inquadra il poemetto come «una cassa / […] / più immortale della carta».
In apparenza formalmente chiusissimo, Spostamento si rovescia all’esterno della sua devozione e dedizione allo stile. E dove ragiona di una scomparsa, lo fa in qualche modo specchiando la fuga irreversibile del testo-tessuto: in memoriam. È «il vuoto entrato nel baratro della rappresentazione» (poesia IX), «bordo dissolto del fuocovento come margine» (poesia VI).
Non diversamente è decifrabile (ancora nella poesia VI, v.5) quell’emistichio-calco che piega un immaginabile seme del piangere caproniano in «seme del margine»: picco metatestuale evidente.
In questa complessa operazione di spola tra testo e metatesto, tra planctus vestito di storia e textus incenerito, sicuramente ha magistrale e positiva influenza l’opera di Zanzotto, indagata con assiduità da Giovanna Frene. Ma potrebbe forse esser fatto anche il nome della Valduga autrice di Donna di dolori.

[Articolo comparso originariamente in «l’immaginazione», a.XX, n.196, mar.2003]

dicembre 2003

domenica, 28 dicembre 2003   [link]

Nell’urto

Alcuni autori di ‘scrittura classica’ (loro, non quest’ultima di per sé) edificano in virtù di un motore di buio che li muove. Di Valéry, Joyce, Kafka, Mansfield e altri, scrive Cortàzar che sono tormentati – al passaggio tra XIX e XX secolo – dall’intuizione, opaca quanto ‘tattile’ che «qualcosa eccede le loro opere e che al chiudere il bagaglio di ciascun libro ci sono maniche e fibbie che penzolano fuori, impossibili da rinchiudere; sentono misteriosamente che tutta la loro opera è sollecitata e incalzata da ragioni che desiderano ansiosamente esprimersi ma non riescono a farlo nel libro perché in alcun modo si tratta di ragioni letterariamente riducibili; calibrano, con la portata del loro talento e della loro sensibilità, la presenza di elementi che trascendono qualsiasi intento stilistico, qualsiasi uso edonistico ed estetico dello strumento letterario, e sospettano con angoscia che questo qualcosa sia nel fondo ciò che veramente conta». (Julio Cortàzar, Teoria del tunnel, tr.it. Cronopio, Napoli 2003, pp.18-19).

Al passaggio al secolo successivo, ecco, non più si sente oscuramente l’eccedere del fondo buio del reale (storico e politico e psichico). La mole che schiaccia il tempo è integralmente visibile, pronunciata.


lunedì, 22 dicembre 2003   [link]

In società (siccità)

Il valore di una retorica sta nella usefulness che il tempo vorrà accordarle? Nel fatto che – tra dieci anni – lettori o autori giovani leggeranno e useranno le forme e formule ora inventate o risperimentate per (=al fine di) fare qualcosa (di profittevole)? (In letteratura?). Niente garantisce da adesso – su nulla. Magari future letture sceglieranno questo accento. Ma parlando di valore non si parla di pura (hegeliana) presenza perimetrabile di qualcosa. Il fatto che la materia delle parole che il ventenne o trentenne oggi usa in letteratura sia quella assorbita con il latte dai media e dai mediatori e dai letterati che erano giovani venti o trent’anni fa, non depone automaticamente a favore di questi ultimi.
Né, d’altro canto, esistono adesso garanzie sul lavoro di chi non sarà più giovane quando i rendiconti saranno scritti.
Solo, lasciar scegliere al mercato o a ‘un’ criterio (piana fluente lettura versus sperimentazione irta versus narrazione) è altrettanto puerile quanto pensare che criteri e correnti non esisteranno affatto. Il richiamo all’onestà della (scrittura di) ricerca dunque può valere ancora. Non come prescrizione; semmai come presa d’atto di qualcosa che già c’è.


lunedì, 08 dicembre 2003   [link]

L’incontro di «Atelier» a Palazzo Vecchio

Nei giorni 5 e 6 dicembre scorsi, a Firenze si è tenuto un incontro internazionale di poeti, scrittori e critici intitolato Dopo il Novecento. Prospettive della poesia contemporanea. La promozione e organizzazione era a cura della rivista «Atelier», e particolarmente di Giuliano Ladolfi, Marco Merlin, Federico Italiano. Questi gli interventi programmati:

Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi
Edoardo Zuccato, Quale Novecento?
Stefano Guglielmin, Canone e caducità
Paolo Febbraro, La poesia nel suo stato critico
Salvatore Ritrovato, La “sostanza” della poesia
Enrico Francese – Daniele Gigli, Fuggire dal labirinto
Daniele Piccini, Dalle strettoie polemiche ad una difficile nuova libertà
Bianca Garavelli, La forma poemetto nella poesia italiana fra Novecento e Duemila

Hanno letto numerosi poeti, tra cui Spyros Vrettós, Ilja Leonard Pfeiffer, Rosaria Lo Russo, Federico Italiano, Elisa Biagini, Massimo Gezzi e molti altri. Ulteriori contributi critici sono venuti dagli interventi di Mariella Bettarini, Gabriella Sica, Lelio Scanavini (per la Redazione del «Segnale»), Roberto Pasanisi («Nuove Lettere»), Giovanna Frene, Rinaldo Caddeo, del sottoscritto e di vari altri autori.

Qui di séguito propongo una piccola parte del mio intervento di venerdì pomeriggio. Il titolo del testo intero è La continuità del senso (inteso, il “senso”, secondo la lezione kantiana di Emilio Garroni, come senso-non-senso) e comparirà su «Atelier». Qui estraggo una piccola parte dei paragrafi VI e VII:

Vorrei richiamare l’attenzione sulla centralità di una nuova freddezza, oggi presente in molti esperimenti di autori contemporanei. Giovani e non giovani.

Senza assolutamente dare a “freddezza” un connotato negativo. Rientrerebbero in questo possibile àmbito o ipotesi: la scrittura metaforica-metamorfica di Valerio Magrelli; le intermittenze di autoanalisi, e riferimenti ipercolti, di un autore come Giuliano Gramigna (si veda il notevolissimo Quello che resta, Mondadori, Milano 2003); lo sguardo algido, distaccato, che viene dai ritratti a penna di Valentino Zeichen; la superfetazione di immagini e storie, eccessive e ‘ciniche’, della poesia di Simon Armitage; la ‘crudeltà’ fotografica e però narrativa di Robin Robertson.
Si tratta di una scrittura cool, con forti basi di ‘ossessione dell’osservazione’ (il referto, lo scatto b/n da morgue, o l’accensione da stampa cybachrome) che può nascere indifferentemente da scelte e studio rigorosi – al limite dell’ascesi – come dall’incandescenza di storie individuali, oppressione, dolore, lutto.
Dunque dalle scritture per eccellenza fredde (Beckett, Ponge, gli autori ‘del segno’: di «Tel Quel» e «Anterem», anche) e da quelle per eccellenza calde (beat, Burroughs, Artaud): questo, dovendo elencare filiazioni ‘solo letterarie’. (Ed è un errore: si dovrebbe semmai – o in parallelo – cercare nella direzione della musica, nel jazz, nell’hip hop, nella fotografia e negli oltraggi di Matthew Barney, di Nan Goldin, fino al gelo puro di Boltanski, agli interni ostili di Luisa Lambri, ai set di David Lynch).
Quali i nomi? Certo, molti esempi sono di voci femminili: Florinda Fusco, Elisa Biagini, S/z Mary, Sara Ventroni, Paola Zallio, Alessandra Greco, Laura Pugno, Giovanna Frene.
Va forse anche analizzato ancora, in questa stessa ottica e facendo riferimento p.es. al lavoro di Pleynet, o a quello diverso di Noël, il legame di prosa e poesia: pensiamo a Massimo Sannelli, Fabio Simonelli, Alberto Pellegatta, e di nuovo a Zallio e Pugno; ma anche a Stefano Dal Bianco. Non a caso il numero V-VI di «YIP – Yale Italian Poetry», riferito al 2001-02 ma uscito recentemente, dedica un’interessante inchiesta esattamente alla prosa poetica.

Eccedere e – continuamente – oltrepassare i bordi del lavoro di Fortini, di Pasolini, di Sereni, di Roversi, della neoavanguardia, come delle scritture ‘classiche’ (Cristina Campo, Montale), è quanto conserva e insieme e vitalmente riusa e altera le forme del Novecento, in un campo e tempo comunque cambiato, indecifrato. (Ma: cifrabile).

novembre 2003

domenica, 16 novembre 2003   [link]
 

Paragrafi sulla rima

1. La rima, margine, non è il senso delle cose o il codice di traduzione in noi delle cose. È però una buona domanda posta alle cose (dal loro interno).

2. La prossimità fonica tra due parole, esibita intenzionalmente, non indica una prossimità che “sta” di fatto già in quelle parole e nei loro significati. Essa rappresenta semmai il punto di domanda che, nel porsi sotto forma di rima ossia prossimità fonica, dimostra di essersi messo in contesto, o di star tentando di mettersi in contesto. È come se affermasse: “ho idea di quel che state dicendo, e così la mia domanda è pertinente; che ne dite?”.

3. In realtà, la sua è anche impertinenza: perché la domanda non “è” in contesto, bensì semplicemente dimostra di sapere che “un” contesto è necessario – che cioè è implicita una condivisione di senso nel fatto stesso di domandare facendo riferimento a un contesto. Segnala pertanto di ritenere possibile, non già data, una risposta (altrimenti non sarebbe affatto una domanda). (E non ci sarebbe rima).

4. La rima è dunque la pertinenza, esibita come prossimità fonica, di una domanda di senso rivolta dalle parole non tanto a un contesto, cioè non al suo effettivo materiarsi, bensì alla necessità e possibilità del suo materiarsi. Di solito questa pertinenza in tanto è inedita e dunque esemplare (pertinente, daccapo) in quanto sa porsi come “impertinente” – quasi svincolata da quel che pure costituisce la detta prossimità fonica.

5. Si riferisce ad altro dal suono, la rima. E tuttavia l’impalcatura della possibilità di tale riferimento è meticolosamente pertinente, nell’apparire come suono.

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martedì, 11 novembre 2003   [link]

 

La costruzione di visioni o fotografie non magniloquenti, non teologiche-teleologiche, può riguardare un numero sempre meno preciso di persone, ma sicuramente decrescente. (Rispetto a cosa? Al passato). È o può essere un dovere non facile della scrittura, aggiungere – e non togliere – piccoli tratti connettivi alla storia; al nastro delle vicende effettive, non future; così legare punti altrimenti irrelati. Come in uno shangai dove fosse infinitamente più arduo – e meritorio – inserire poche asticciole esatte e delicate, piuttosto che toglierne molte, anche con abilità, solo per onorare piattamente il gioco.


domenica, 09 novembre 2003   [link]

 

Nel viaggio dello sguardo sulla poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi, sembra di constatare che la necessità dell’opera abbia statuto elettivamente inafferrabile, e però per segnali identificabili avvertito.
L’esistenza come comunicazione letteraria chiede indagine su quella necessità che le forme non garantiscono più (se mai hanno operato in tal senso). Ma che di forme si tratti, e che il loro vincolo di necessità si attesti, può diventare materia di indagine e dimostrazione, nei fatti. Ossia rientrare in un perimetro perfino definibile ‘scientifico’. Solo che l’interprete non eluda alcune evidenze. Nella rapida recensione al Condominio di carne, di V.Magrelli, molti esempi di lettura di evidenze («evidence» vale «prova», in inglese) si sono offerti. Un altro tratto testuale ricorrente si indaga ora qui, ancora per appunti brevi, in altro autore:

Annotazioni
su alcuni links (iterazioni/itinerari) nella poesia di F.Buffoni

I testi di Franco Buffoni spesso presentano, a distanza di anni, di libri, iterazioni/variazioni di una stessa poesia, ritorni di una frase, di una strofa, di una chiusa, o addirittura di un micropoemetto intero. Classico l’esempio del testo intitolato Come un polittico, presente sia nella raccolta d’esordio (I tre desideri, San Marco dei Giustiniani, Genova 1984) sia come prima pagina del Profilo del rosa (Mondadori, Milano 2000).

Analizzata la sua intera produzione (inclusi i più recenti Theios, Interlinea, Novara 2001; e Del maestro in bottega, Empiria, Roma 2002), non è del tutto impensabile ipotizzare – in lui studioso di topografie e mappe e ‘resti umani localizzati’ – la creazione, negli anni e tramite i libri, di una sorta di macro-opera fatta di rinvii e segnali topografici, sottotraccia eppure affioranti. Links intertestuali; indicatori interni al percorso di scrittura.

Come una sorta di reticolato che dà modo a chi legge sia di perdersi sia soprattutto di (grazie appunto ai ritorni) ritrovarsi. Ritrovare i ‘motivi’ e i picchi necessari per l’orientamento – nei temi. (Trovare, anzi, giusto i temi: i loci). (Così resi communes). (E necessari).

Nella mancanza allora di rocche valichi torri radure laghi della storia e società e retorica, sottratti dal tessuto comune, dissipati nell’amnio di aleatorio che (non) conosciamo, ecco che la creazione di un paesaggio artificiale sperimentabile, con ricorrenze e variazioni di frasi e versi e brani interi, dà occasione al lettore di localizzarsi e localizzare profili divenuti noti in itinere, per azione di iter, davvero… iterazione.

Se parliamo, con vocabolario credo ancora utilmente strutturalista, di isotopie, lo facciamo allora non per annettere alle opere un valore astratto dato dal semplice ricorrere (certificato, inventariato) di marcatori testuali precisi; ma perché questa stessa precisione e inventariabilità assumono o fabbricano di volta in volta un senso comunicabile, ‘sociale’ in quanto sapientemente reso necessario (non “necessario perché sociale”): offrono luoghi, modi di orientamento nel tessuto scritto. Mimano senza gesticolare, ma attraverso oggetti strutturati, il darsi di una cartografia possibile; o quantomeno la possibilità di una qualsiasi cartografia. (Ma poi: di questa cartografia, specifica: l’opera intera di Franco Buffoni, da I tre desideri al libro ‘in fieri’ Guerra).


sabato, 01 novembre 2003   [link]

 

Primi appunti su Nel condominio di carne

Del libro recente di Valerio Magrelli, Nel condominio di carne (Einaudi 2003), va detto che struttura il procedere ironico di un’indagine, di un regesto minuzioso sugli eventi fisici dell’io, sui disturbi i ricoveri le convalescenze le mutazioni di una architettura cellulare che, nel corso narrativo, da corpo e organi e sangue diventa allegoria del co/dominio sociale, alterato o minaccioso; e della stessa anatomia del linguaggio comune, spossato e spostato di continuo dalla febbre del senso-non-senso.

In 55 prose brevi o ‘stanze’ il Condominio si edifica come wunderkammer, camera delle meraviglie del grottesco quotidiano. Le metamorfosi dei/nei luoghi (Parigi, Gerusalemme, Atlanta, Roma), quelle di improvvise personae (Ensor, Giacometti, i Curie, Tycho Brahe), quelle delle parole («alfabeto Morse: “forse Morte”») e quelle dei corpi, dei traumi squadrati dallo sguardo, sovrappongono una carta millimetrata o mappa allegorica a ogni punto-puntura della percezione. Tutto è pretesto per distogliere lo sguardo dal centro del male, non rimuovendolo ma anzi stanando il soprassalto di significato che implicitamente covava.

Ogni visione di un dolore particolare è in questo modo un potenziale riorientamento della visione del dolore (del fatto di essere) in generale.
Il testo funziona così da strumento di conoscenza, come in generale tutta la scrittura metaforica/metamorfica di Magrelli, e allo stesso tempo costituisce – più di altre sue pagine precedenti – un esempio di trasparenza del male. O, con sintesi più pronunciata: sguardo-dolore.

Alcune prose di Esercizi di tiptologia potevano preludere a questa efflorescenza di micro-strutture fra il ghigno angelico e l’innocenza elencativa del dannato, che affabula narrando i disastri del corpo. Ma un differente scatto di stile – decisamente “materico” – sembra essersi innestato nel laboratorio dell’autore.

Nel condominio di carne dialoga con una linea francese, anche solo per dedizione ai prismi della prosa (Ponge, Michaux, Bonnefoy, perfino Fargue) ed è allo stesso tempo impensabile senza una diversa duttilità etimologica della lingua italiana (qui nelle ‘aree’ medica, scientifica, e nelle ibridazioni felici con altre lingue): una plastica sottoposta a wit, gioco, bisticcio. Tutto ciò fa del libro un figlio legittimo dei ‘lumi’ di Italo Calvino (Palomar) e insieme marca una differenza forte: che risiede precisamente nel lavoro poetico di Magrelli. La comicità volontaria del corpo torturato scrivente è lo spin di ininterrotte trasformazioni del tessuto verbale; spirale delle sue fughe prospettiche. La quantità di ombra che se ne genera, pur utile a sua volta alla osservazione delle cose, opera una sintesi – che calviniana non è – con l’area ‘cool’, fredda, dell’espressionismo recente: ossia con la vessata (ma utile) categoria del post-human.

D’altro canto, anche da questa categoria Magrelli si svincola facilmente. Con la leggerezza di Cavalcanti che in un salto oltrepassa le offese dei sepolcri: brilla infatti nel testo – forse centrale più di ogni altro carattere – un implicito pronunciamento anti-Sade e anti-Masoch. Sembra la radiazione di fondo che nutre ogni pagina. Su questo, non poche analisi testuali meriterebbero di essere condotte ancora.

ottobre 2003

venerdì, 24 ottobre 2003   [link]

 

Apologia dell’asimmetria (en prose)

Uno dei libri più interessanti pubblicati da Donzelli è Il mondo non finisce, di Charles Simic. Il titolo ha in inglese un ulteriore segmento testuale che dice «prose poems». E si tratta – certo – di brevi poémes en prose, ma da non immaginare catturati da una facile o ‘cantabile’ (né troppo facilmente citabile) lirica.
Anzi. I testi di Simic registrano molte caratteristiche (starei per dire slave, generalizzando, immaginando legami per esempio con Holan, o con Zbigniew Herbert) specifiche della narrazione interdetta, asimmetrica, anche sognante o giocosa, ma nella quale non si dà, o si dà in forma problematica, la sfera del microracconto, del testo ritmicamente e narrativamente lineare.
Piuttosto, interviene una vera frammentazione e riconfigurazione – surreale – di coerenze narrative separate. Come se ogni prosa rappresentasse la somma miracolosa e senza resti di schegge di eventi eterogenei; o minuscoli apologhi emergessero solo per revocare il proprio senso e forma, tessendone semmai di incomprensibili quanto necessari:

«Storie di fantasmi come equazioni algebriche. La piccola Emily alla lavagna è spaventatissima. Le X sembrano un cimitero di notte. La maestra vuole che frughi tra di esse con il gesso. Tutti i bambini trattengono il respiro. Il gesso bianco stride una volta tra i più e i meno, poi torna il silenzio»

(p.35; altro riferimento possibile – lo vediamo – è la prosa di Julio Cortàzar).

L’elemento surreale, come in una galleria di piccoli quadri-enigmi, è la sigla di Simic e di altri poeti contemporanei americani: Mark Strand e John Ashbery innanzitutto. Lo osserva il curatore e traduttore della raccolta, Damiano Abeni, che giustamente fa riferimento per Simic (nato a Belgrado nel 1938 anche se prestissimo trasferitosi negli USA) alla «tradizione balcanica ed est-europea».
Un’ulteriore qualità di Simic è l’ironia sul grandioso. Pensiamo a un incipit come «It was the epoch of the masters of levitation» («era l’epoca dei virtuosi della levitazione»), beffa riuscita ai vezzi kitsch dei titoli d’enciclopedia o di serial tv. È, allo stesso tempo, incipit levitante, gioco di ironia appunto: centrato sulla leggerezza/debolezza non solo del reale tradotto in comunicazione mondiale («Avevamo paura di parlare, di respirare» – si legge più avanti), ma della stessa struttura d’immagine del testo, che non a caso si conclude con una netta visione d’aria: «vedemmo […] le camicie sollevare le maniche vuote sul filo del bucato della cieca».
E notiamo: viene qui tessuto anche un ennesimo correlativo oggettivo: ma daccapo misterioso, indecifrabile, irrelato e dunque capace di radicalizzare il discorso che le prose ininterrottamente rivolgono al mondo, avvertito come ostilmente-sottilmente impenetrabile. Un mondo che – suggerisce ancora Abeni – tuttavia non finisce. Anche nel senso che non si compie mai, così nella percezione come nella trascrizione o interrogazione alfabetica che ne tentiamo.

Charles Simic, Il mondo non finisce, traduzione e cura di D.Abeni, Donzelli Editore, Roma, 2001. (Titolo originale The world doesn’t end: prose poems, Harcourt Brace & Company, San Diego, 1989).
Recensione riproposta (già pubblicata su «Il Grandevetro», a.XXV, n.159, ott-nov.-dic. 2001, p.43); e ora in parte anche in IBS.


venerdì, 17 ottobre 2003   [link]

 

Perf.

La frequenza a volte notevolissima con cui nelle strutture ricettive e distributive della poesia contemporanea compaiono il corpo, la performance, e tutti i macro ed epifenomeni che partono dallo slam-poetry e arrivano al teatro-teatro, alla canzone d’autore, al film-da-romanzo, ha un volto doppio.
Da una parte è il risultato e la somma positiva di codici di trent’anni e più di sperimentazione. Che ‘portano’ una quantità di messaggi. Molti di essi politicamente ben funzionanti. Fattori e vettori di resistenza. Pensiamo alla satira, all’intensità di scritture del corpo ‘storiche’ (Pasolini).
D’altra parte un forte rischio, in certi casi percettibile, è quello di circoscrivere appunto all’ossessione della presenza la validità – la durata – dei testi, delle opere.
Dove l’autore si assenta, non esiste opera. Può succedere. Questo mette in pericolo ciò che in pericolo è già (sempre per strade politiche, note): la storia. Individuale. Ossia una storia.
Morto un autore, l’alternativa posta è tra museificazione e oblio. In questi termini, precisamente il corpo vivente si spegne (il corpo che – vivo l’autore – era fittamente vincolato al senso). Doppia morte, così.
«Siamo un paese senza memoria»? Si può affermare. Nonostante a legioni sciamino filologi, restauratori, cameramen, enti storicizzanti, archivi e biblioteche di vetro – o vetroresina. Perché, semplicemente, anche la memoria è cosa viva. E allora forse va anche coltivata l’ossessione per il corpo. Ma:
Non è male leggere i testi degli autori. (Anche: in silenzio). (Dove questo esista). I testi parlano precisamente, sempre e comunque, in assenza di chi li ha emessi, e ne difendono o incrinano il valore. Ma sì: così un puro-solo attore non passerebbe alla storia, campito in stemmi.
Mentre non verrebbe dimenticato chi attore non era, ma scriveva bene.


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Sociologismo volgare

Molte ragioni di assenza dai luoghi dove si fa poesia (letta) risiedono in un’ipotesi da verificare (e, da chi scrive, già ora verificata): non ha più spazio di esistenza quello che anche poco tempo fa era definibile poeta operaio. (Excusez, per la patina ‘vetero’).
Molti obietteranno che fitta/forte fatica comporta la vita di tutti, aujourd’hui. Contro-obiezione: la fatica fisica, unita a quella intellettuale, al contatto con il pubblico, all’assorbimento di tensioni altrui (ogni lavoratore dipendente sa di che si parla), per un tempo di oltre 8 ore al giorno (molto oltre le 8 ore), bloccano ogni attività. Bloccano le ‘partecipazioni’. Del resto, chi non ha altro che il lavoro per tenersi in piedi – non contando su nessuna altra ricchezza – deve dare precedenza alla partita doppia delle energie e del denaro. (Woolf versus Bataille). La classe sociale di appartenenza, lo si voglia o no, determina – non con forza ma proprio con violenza – una quantità di azioni e omissioni dell’auctor. A scrivere è sempre il corpo.
Traducendo: non me ne vogliate per le assenze. Forse è anche vero che la mia idea di letteratura contempla una presenza che è in primo luogo testuale. Ma molte idee (contemporanee, che solo in parte ‘sento’) della letteratura non guardano troppo di buon occhio il testo. O non vorrebbero ci fosse ‘solo’ quello.
Tuttavia: quando nessuno di noi esisterà più, resterà precisamente la carta, da sola, con le file delle parole. A difenderci (a diffonderci; diffondersi su quanto eravamo).


mercoledì, 08 ottobre 2003   [link]

 

Su L’esperienza, di M.Sannelli

Massimo Sannelli ha pubblicato recentemente, tra altri libri, L’esperienza. Poesia e didattica della poesia, Edito da La Finestra (Trento 2003).
Il libro presenta quattro qualità: 1, è un “report” su un’esperienza (intesa “come tema” e come periodo vissuto) di insegnamento/dialogo in una scuola; 2, è un testo di poetica; 3, raccoglie e anzi unisce e fonde brani di Sannelli, dei ragazzi della scuola, e di altri autori che hanno collaborato e contribuito con pagine proprie ad affrontare l’argomento; 4, è una micro-raccolta di poesie dell’autore.
Alla ricchezza argomentativa e bibliografica (un saggio che parla di altri saggi) unisce dunque una raggiera di interessanti – e diverse – linee e scritture di prosa e poesia. Ha il pregio dello spessore saggistico unito alla serietà/leggibilità del resoconto di un tratto biografico.

settembre 2003


domenica, 21 settembre 2003   [link]

 

   Parola spostata

Scrittura, interpretazione e prassi (anche nel senso elementare di comportamento quotidiano) cospirano a risalire verso la complessità e indecidibilità delle percezioni. In arte e scienza e riflessione filosofica, sembra che il Novecento abbia stilato un unico regesto sull’indeterminabile, quindi sul rinvio continuo (link, rimando, nuova rima, frequentativa). Fino a spingere – non insensatamente – perfino alcuni filosofi postmoderni a dubitare del dubbio, e a interrogare le linee di resistenza del reale, osservando che comunque qualcosa nel cerchio dei segni fa spessore, bordo, ostacolo, e così crea o prefigura sintassi, gerarchie di senso, ovvero limita o recide la deriva interminabile di connessioni che la realtà percepita e ritradotta sembra formare.

Dallo specchio barocco si avvista già la fibra di vetro. Ora la perplessità non ha compiutamente modo di venerare una sua propria poetica, o di insultarla; non ha teschi da veder posare sul tavolo della natura di fatto morta, né stagioni da dissipare mento in mano contemplando fiamma. Migliaia di miliardi di “materiali” (info) si torcono de/formati perché perfetti all’interno dei prismi-specchio, da un cavo all’altro, senza passaggio di tempo. In un momento.

È configurata allora una contraddizione tra la struttura seriale del pensiero-scritto che conosciamo, e la natura parallela dei files che il mondo informato genera (o: che noi bene o male rubrichiamo come quella cosa a cui diamo nome di Mondo).

Per seguire e capire e intervenire anche in senso politico sulla realtà ‘servirebbe’ un iter lineare o più trame di un tessuto (textus) serialmente affrontabile. I files, i percetti, concrescono invece aperti in parallelo, nonché virtualmente senza numero: frattali. Non si può metterli in sintagma. Sono pressoché negazione del concetto di sintagma. Disporli in tracce verticali, gerarchizzate, non ramificate, è chiamarsi fuori gioco, o antieconomico, stante anche il fatto che tale loro articolazione ‘in parallelo’ riproduce quel medesimo sistema complessivo-complesso di organizzazione mentale dei dati percepiti che l’uomo europeo e in parte statunitense ha formato in sé, almeno dal Settecento a oggi (via via più scientemente).

In questo planetario è perfino funzionale e implicito lo spiraglio joyciano (joy), con uno stream (parola fortunata) of consciousness congegnato per abbassare la temperatura e i picchi delle sensazioni, digerire le res estraendone il nulla, facendone narrazione orizzontale, o narrazione-orizzonte, talvolta perfino parola critica, concertando di séguito blob tra maschere (personae).

In sostanza: è capitato al XX secolo di essere il luogo esemplare di una doppia irraggiungibilità: del reale e della parola contemporaneamente. Come una freccia che punta allo stesso tempo in due direzioni, e che precisamente in questo modo cerca di dire entrambe. Non toccandone alcuna. Così per paradosso fondante arrivando precisamente a esprimerle. (Dimostrandole legate; accusandole implicate).

Non si deve forse guardare al XX secolo come a un’unica messa in scacco della parola; bensì come al tempo in cui la parola-scacco ha tematizzato sé. Così facendo, ha in parallelo reso o dimostrato più fragili le proprie vie, complici o complanari – in potenza – di quel sistema di paratassi blande, di slittamenti di responsabilità, di elusione dei costi del possesso dei piaceri, di smaterializzazione irreversibile del valore dei corpi e delle vite individuali, che può essere in sintesi chiamato ancora capitalismo.

In un quadro simile, la parola-scacco occupa una casella che solo contraddittoriamente entra nel punto cieco abitato dai lessici politici. (Questo ne fa parola di conoscenza differente, cifrata e cifrante, spostata: ben poco ‘utile’, almeno in prossimità della sua nascita sul foglio). E tuttavia sembra essere ancora il primo luogo di conoscenza che abbiamo. Non è poco.

[ variazione dell’articolo comparso con il titolo di Afasia di settembre su «Il Segnale», a.XXI, n.62, giugno 2002 ]


sabato, 13 settembre 2003   [link]

 

Di conoscenza

Un obiettivo e valore del testo poetico – o delle strutture (nome amabile) che desiderano la conoscenza – può essere in una «leggerezza pensata all’interno della materia, prima dell’unità e prima delle separazioni» (Emilio Villa, su Burri, in Attributi dell’arte odierna, Feltrinelli, Milano 1970).

La scrittura solo-materica ha il limite di farsi “versione integrale” delle cose (non richiesta tuttavia dal tempo: ora la realtà ha già i suoi relatori e storiografi, nella politica e nella comunicazione, e nella politica-comunicazione, come nella prosa del mondo di troppa narrativa). (Vedi le recenti annotazioni di Biagio Cepollaro sul realismo, nel suo blog).
Diversamente, la scrittura “solo-inafferrabile” è esercizio calligrafico, curve su carta.

Una scrittura di conoscenza ha ancora altro statuto, e diversa mira. Ma è una fabbrica di reincisioni, sovraincisioni. Così – e per questo – non elude il pieno peso del mondo/messaggio, il male di cui dice Ashbery.


lunedì, 08 settembre 2003   [link]

 

Rhymes / Ashbery

Un passo di John Ashbery, dalla poesia Friends (in Houseboat days, 1977):

   I feel as though I had been carrying the message for years
   On my shoulders like Atlas, never feeling it
   Because of never having known anything else. In another way
   I am involved with the message.

   Sento come avessi portato per anni il messaggio
   sulle spalle, come Atlante, senza mai
   sentirlo: non avendo avuto mai
   conoscenza di altro. In altri termini
   io sono coinvolto nel messaggio.

Secondo la nota interpretazione di Kafka, Atlante avrebbe potuto in ogni istante deporre il peso del mondo e andarsene; nulla però oltre questa coscienza gli era concesso avere. In realtà Atlante è – come suggerisce Ashbery – non semplicemente coinvolto (traduzione italiana a cui siamo forzati) ma addirittura tessuto dal suo peso, dal mondo-messaggio. Ne è costruito. Implicato, involved with. E la sua coscienza forma messaggio.

Le parole articolano la bocca che le parla.

Lo stesso Ashbery in epigrafe cita queste parole di Nijinsky: «I like to speak in rhymes, / because I am a rhyme myself».

luglio 2003


domenica, 27 luglio 2003   [link]

 

Una nota su I loro scritti

Può essere istituito un legame forse non in tutto arbitrario tra i Preludi (redatti poi in tempi e luoghi diversi) nel Prufrock di Eliot e i primi sette testi della prima sezione de I loro scritti, di Giuliano Mesa.
Il legame è indicabile nel tipo di trattamento del deforme quotidiano, dell’osservabile, in città – come accade – svenduto dal tempo, arato, sversato e lasciato in rovina. Nei Preludi la narrazione è per nuclei profilati, oggetti. Nel testo di Mesa un alterato o stesso spazio di sentimenti-visioni o di riconfigurazioni di eventi, o sofferenza di persone, è dato in una forma che è narrativa per sottrazione. Ossia non frontale bensì spezzata in schegge poi non tutte date, biglie difformi, di cui alcune intenzionalmente sottratte alla vista. Micro-correlati, molti poi elusi. Appena suggeriti e subito messi sotto la superficie di (oppure in) un meccanismo elencativo – o anche solo ritmico – serrato, che lascia sfuggire solo tagli ulteriori. Mai dichiarazioni, inquadrature.

Il risultato è un testo che complessivamente e fortemente tiene, e per istinto lo avvertiamo. Ma non decifriamo né in dettaglio né “guardando dall’alto” le strutture portanti. Questo il pregio della leggerezza. Manca poi (e questa è lezione eliotiana, anche) un abbandono integrale alla crudeltà, all’espressionismo. Strategia intenzionale; e un merito. Come se la forma fosse capace (e lo è) di non lasciare sfuggire nulla.

Leggiamo il terzo testo della serie:

3
appartenere, nella scaglia rugosa, la cornea lucida,
la custodia solida dei guanti, e dei bottoni, a voi,
mirabili in miriadi, passeggianti narici e lozioni,
noi frequenti, sollevando sugli zigomi le nocche,
ardori opportuni, tutti i loro esseri intenti,
al giuoco all’addiaccio, del remunerare, rendere,
schiusa, occorrente, la porzione di alito, da te a te,
l’attracco al mulino, alle crusche, lo scambio annoso,
fragoroso, fra noi, il torrido contatto,
fruscianti via, per fatiche e sollievi, lo scambio
benefico, aizzante, via, in pasto e sorriso –

(da: Giuliano Mesa, I loro scritti, Quasar, Roma 1992)


lunedì, 14 luglio 2003   [link]

 

Un aggiornamento in tempo reale: è appena uscita su “Zoooom” una mia recensione alla raccolta Sleepwalking, di Laura Pugno: tredici racconti visionari.

1 giugno 2003

domenica, 01 giugno 2003   [link]
 

…logicamente il flusso dei testi si riaggiorna. il fare giorno è sempre fuori della logica, in qualche modo – non è mai chiaro. però le ombrature sono una forma di chiarezza spostata. a cui non necessariamente si devono dare altri sistemi di luce…

30 maggio 2003

venerdì, 30 maggio 2003   [link]
 

. . Per un periodo di anni non accade nulla. La struttura rimane al suo posto non toccata da niente che abbia forma di altra struttura, differenza. Poi qualcosa nella sua crescita piega verso affetto. Ossia verso una variazione che implica un’idea di “esterno” (a sé, a sé struttura). Allora le ore e luci si contraggono, gli accenti si ridispongono sulle frasi, che cambiano per inseguirli o farsene rideterminare. Una parola detta diventa una scrittura spostata. Sul fondale, che è opaco, si profilano le ombre delle comparse, si muovono e tutta l’impacatura sembra avere intenzione di splenderne. . .