Facendo un salto [avanti] di un milione di anni troviamo una delle pietre miliari della storia dell’evoluzione umana. Si tratta del cosiddetto “ragazzo di Nariokotome”, il più completo scheletro fossile mai trovato, che risale a 1,6 milioni di anni fa. È lo scheletro di un ragazzo che morì a un’età compresa tra gli undici e i quindici anni; aveva già raggiunto la statura di un uomo moderno, e lo si classifica come un esempio di Homo ergaster. Se questo ragazzo fosse nato in una delle prime civiltà, avrebbe potuto imparare a scrivere? Possiamo affermare con certezza che avrebbe sentito il bisogno di comunicare, che sarebbe stato in grado di manipolare oggetti grazie a un’avanzata abilità manuale e avrebbe compreso i punti di vista degli altri.
Per quanto capace di acquisire tali abilità, gli sarebbe però mancata, a mio avviso, la componente cognitiva più importante per lo sviluppo della scrittura, cioè il linguaggio. C’è una differenza cruciale fra le vocalizzazioni dei primati e il linguaggio umano. Il linguaggio umano non è caratterizzato soltanto da un lessico molto più ampio e da un sistema di regole grammaticali che specificano come si debbono combinare insieme le parole per esprimere significati particolari: è innanzitutto un sistema di riferimento in absentia, in quanto permette di parlare del futuro, del passato o di un altrove geografico fuori della portata visiva. Questa proprietà è di importanza capitale per lo sviluppo della scrittura.
Steven Mithen, L’arte preistorica e i fondamenti cognitivi della scrittura,
in: Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti (a cura di ), Origini della scrittura. Genealogie di un’invenzione (Bruno Mondadori, Milano 2002, pp.18-19)