6070

1. premessa

Credo nell’esistenza delle generazioni. In un dato periodo un certo numero di persone fa e sente e condivide alcune esperienze, le connota e ne riceve connotazione a sua volta. La stessa connotazione, passati alcuni anni, non si ripete. Una generazione dà alle esperienze un linguaggio che quelle non avevano. A sua volta il linguaggio ne viene mutato, sovrascritto. L’insieme di questi passaggi costituisce una nuvola di variabili, di campi di possibilità, in cui si possono distinguere linee flesse ma non del tutto instabili di prevalenze, di dominanti, e di (anche) correnti. La generazione dei nati nell’arco di tempo tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta ha delle caratteristiche peculiari, forse, nel campo complesso e ampio della lettura come della scrittura. O meglio: del modo di percepirle.

Le caratteristiche possono essere analizzate e descritte. Lo farò senza statistiche, senza aderenza scientifica a dati calcolati, ma attenendomi a quello che ho visto e vedo e so o mi sembra decisamente di sapere, e vedere, con chiarezza. Di conseguenza, non solo la mia analisi sarà disamata e contestata, ma implica un gaio disinteresse mio nei confronti sia del disamore sia delle contestazioni. Inizio dicendo questo per mettere in preallarme chi voglia sostenere che le generazioni non esistono, o che la mia generazione non c’è o non ha connotati, o che questi connotati non sono quelli che osservo. Tali critiche le considero tanto legittime quanto esterne al presente scritto e ai miei interessi a breve media e lunga gittata. Così non presterò loro ascolto e ciò darà a ciascuno incomprimibile felicità.

2. premessa alle tavole nomenclative

Senza nessun ordine (un certo disordine molto controllato è uno degli aspetti della mia generazione) («ovviamente» dico ciò con ironia) elencherò alcuni dettagli probabilmente generalizzabili, estendibili a molti dei nati in quell’arco di anni. Inoltre, per brevità sintetizzerò il riferimento a costoro usando il numero 6070 (da leggersi sessantasettanta). Come un sostantivo invariabile che intenda chiudere in nome veloce un’espressione come «i nati tra il 1966 circa e il 1975–76 circa». Dunque, invece di dire «i nati tra il 1966 e il 1975 circa, grosso modo» dirò sinteticamente «6070», ossia «sessantasettanta». È semplice, non è semplificatorio.

3. dettagli cruciali o non cruciali di cronologia

Non sono del tutto certo che le mie osservazioni funzionino per una quantità rilevante di 6070 nati dopo il 1972–73. Un motivo: già nel 1991 la risposta restaurativa e repressiva seguita ai movimenti di Occupazione delle università del 1989–90 aveva cambiato l’aspetto delle Facoltà, chiuso e disperso alcune iniziative, blindato dipartimenti e zone franche. Chi per banale anagrafe arrivava all’università nel 1991–92, non poteva proprio materialmente vivere lo stesso tipo di clima e storie dei due-tre anni precedenti. Non tutti i 6070 nati a partire dal 1972–73 dunque possono definirsi 6070 secondo certi parametri che darò. Ciò non determina necessariamente che questi parametri cadano, in tutto o in parte, all’esterno dell’identità 6070.

È inoltre e infine evidente che ci sono molti o moltissimi 6070 che (cor)rispondono alle caratteristiche che dirò e darò, senza che per questo costoro siano mai stati all’università, o abbiano mai partecipato a lotte studentesche. È tuttavia vero che è consistentissimo il quantum di politicità o anche solo di peculiarità (=identità stagliata) nelle/delle esperienze che si potevano fare e respirare e assorbire come aria nella semiosfera (e nell’immaginario di massa) da metà anni Sessanta fin quasi a ridosso degli Ottanta.

Dopo no. Voglio dire: dopo, molto meno. Dopo il 1980, dico e insisto, no, o decisamente e fortemente molto meno. Che c’entra l’aria respirata dai bambini e ragazzini e ragazzi che hanno attraversato il tempo tra fine anni Sessanta e 1975–76–79 con le Occupazioni, con i centri sociali, con le Facoltà in lotta nel 1990? c’è un legame diretto? In parte sì, ma non esclusivo.

4. Tavole nomenclative

a. ombra

Il campo (di) immaginario di 6070 è marcato da una percezione piuttosto acuita dello spazio di non detto e di ombra che può connotare il linguaggio corrente fra umani. Il non detto non è considerato cioè necessariamente una mancanza. Può essere o divenire al contrario lo spazio di manovra ermeneutica del leggente. Il leggente non è spaventato dall’ombra (senza esserne per forza attratto, ma può esserne attratto). Se però di fatto accade che l’ombra, la latenza, il non detto, non si trasformino o non si rivelino essere «lo spazio di manovra ermeneutica dei leggenti»; se cioè succede che si rivelino essere problemi e non pregi, non è stabilito né dimostrato che ciò sia da attribuire a una falla nel sistema retorico degli scriventi. Il 6070 avverte la latenza come una sfida all’indagine, non come un insulto alla chiarezza. Meglio: la mia impressione fortissima è che abbia questa percezione più facilmente (o più spesso?) rispetto ad altri di altre generazioni.

b. ombra

Gli sceneggiati televisivi del periodo 6070 sono spesso di genere fantastico, fantascientifico, horror. Ma possono risultare — non per ragioni puramente legate al genere — privi di alcune linee di coerenza, abbondando di eventi misteriosi non spiegati. Con sceneggiature perfino imperfette. La mia idea è che accumulino davvero latenze e non detto, e costruiscano misteri non necessariamente provvisti di scioglimento, perché nascono da (e sostengono) una idea non tutto-assertiva e non pienamente dichiarativa della scrittura, del dire, dell’immaginare, dunque dell’immaginario.

Un’idea aperta (e aperta all’ombra) della scrittura comporta una fiducia nell’energia e nell’iniziativa interpretativa del lettore. Una apertura di credito verso il leggente. Questa apertura è politica: considera il leggente non bloccato, e giudica che egli sia lettore in qualche modo scrivente=sovrascrivente, interpretante, e che non senta dunque necessità di sottotitoli, didascalie). Questo è il lato affermativo, semantico, politico, ma non dichiarativo, non retorico, non dittatoriale, dell’ombra.

È o penso possa esser considerato in qualche modo anche qualcosa di non narcisistico, fra l’altro (prevede due soggetti sfrangiati e in rapporto complesso, non di tipo duale, non prevede cioè un binomio limitato a un emittente spettacolare + un destinatario spettatore).

C’era — sì, d’accordo — in quegli stessi anni un’ombra che (in tutto politica, solo politica) invece opacizzava le vicende italiane attraverso passi e prassi destabilizzanti dell’ordine democratico: politici, faccendieri, corrotti e corruttori, padroncini futuri padroni di televisioni e holding, non solo venivano dal buio e gettavano nel buio la Repubblica, ma facevano di tutto perché nulla del loro operato e apparato trasparisse.

L’ombra semantica a cui invece faccio riferimento a proposito di scrittura e arte, per me, è tutt’altra cosa. È l’esatto contrario, addirittura. È quella assenza di esplicitazione, di smaccata dichiaratività, che ha e chiede e vuole — proprio all’opposto — sguardo ermeneutico, azione del lettore. È dunque una latenza che chiede che si stabiliscano microluci, connessioni, che si attivi quella sensibilità all’oggetto (estetico e non solo) che fa in definitiva già la storia dell’intero Novecento in arte, indagine filosofica, scientifica, critica. L’ombra di cui parlo è proprio quella che significa e determina e chiede e implica un carattere indagante e attivo nello sguardo dell’osservatore: può accadere che addirittura lo esiga.

c. ombra

Gli sceneggiati degli anni Ottanta cambiano registro. Una stanza, vuota. entra lui, entra lei, si parlano, succede qualcosa. Musica soft. Possono baciarsi, o scoprire un tradimento, o tramare, o rivelare qualcosa, piangere, eccetera. Poi uno dei due o entrambi escono di scena. Entra un altro personaggio, per un altro segmentino aggiunto. Poi più nulla. Dissolvenza. Scena successiva (spesso identica alla precedente, ma con altri characters). Fine. È la sostituzione della novela allo sceneggiato. Oppure arriva il telefilm. Scazzottate, sgommate. Poco altro.

La segmentazione del tempo, ultralenta nella novela o ultraveloce nel telefilm, non chiede indagine. Non è — allora — come altre segmentazioni precedenti — significante, significativa. Non c’è indugio che non sia nella sceneggiatura: spiegato. Addirittura gli errori o terrori sono precisati, detti. I protagonisti, oltre a fare una cosa, annunciano che la faranno, ne parlano facendola, la ricordano a qualcuno dopo che l’hanno fatta.

È veramente la morte cerebrale. Sono gli anni Ottanta. Ti devono dire sempre tutto. Non ti è richiesto nulla. Arrivano a parlarti le parole in bocca; a metterti gli applausi nelle mani: non le devi nemmeno muovere: sono preregistrati. Questo fatto era gag già in Annie Hall [Io e Annie], di Woody Allen: la preregistrazione della reazione dello spettatore poteva venir irrisa — da Allen ossia dallo spettacolo stesso — già nel 1977, negli Stati Uniti). Chi — non più 6070 — forma il suo linguaggio con questo scenario negli occhi e nelle orecchie, reagisce fortemente, ma — di fatto — non può farlo secondo le ben altrimenti congegnate codificazioni di cui ha avuto modo di essere spettatrice-attrice la generazione precedente.

d. politica

Lo spazio dell’immaginario e quello della politica, dovendo entrambi contrattare il senso entro un campo di regole non in tutto definite, sono tra loro vicini più di altri campi. Così come estetica ed economia si assomigliano più di quanto siano disposte a credere. 6070, come persona, ha avuto il tempo di vivere lo spegnersi del motore politico come fatto collettivo continuando tuttavia a sentirne forte eco e senso e dunque calore. Se le generazioni successive vivono lo spettacolo della politica (le finte kefie, le tv moltiplicate, le risse d’arredamento dei talk show), oppure le sono indifferenti e sanno con energia ben altrimenti orientata centrare ogni attenzione sull’ego e sulla carriera, direi che al contrario 6070 conserva e avverte il senso dell’azione collettiva — spesso senza poterlo e saperlo praticare o riaffermare.

6070 lo percepisce perché cresce e spende il proprio percorso nel momento cruciale della scomparsa (parziale, momentanea, intermittente, ma reale) dei collettivi, della morte per droga di molti fratelli maggiori (ho avuto questa esperienza più volte, anche se non direttamente nella mia famiglia), della nascita ma anche normalizzazione di molti centri sociali autogestiti, della deriva confusionaria di troppe iniziative auto-organizzate, della costituzione ma anche limitazione dall’esterno dei sindacati indipendenti, nella nascita di un individualismo in parte comunque avvertito come ragionevole. Eccetera.

e. politica

Mi sono sentito dire che la nostra generazione non ha fatto, a differenza delle precedenti, attività politica. O non ha avuto «esperienza», non ne ha. Non ha «traumi». E che hanno semmai ripreso a fare politica i nati negli anni Ottanta, con l’Onda. È falso, semplicemente. Forse perdente, ma è esistito il movimento della Pantera. il 1990 è stato un anno nodale. Flettendo qui sul piano ancor più strettamente personale: non avevo idee politiche così precisamente delineate, prima.

Dopo i primi anni di università e una quantità non descrivibile di caos, dal 1987, per me il 1990 è stato un anno discriminante. Ho partecipato non alle occupazioni ma ad alcuni elementi ed eventi culturali legati alle occupazioni. Soprattutto in connessione con le riviste di gruppo indipendenti che erano all’università in quegli anni. Sono entrato alla «Sapienza» nell’inverno 1987–88. Ho vissuto gli anni tra 1988 e 1990 come crescita di una presa d’atto della situazione politica, delle minacce in corso: privatizzazione dei saperi, progressivo aumento della presenza di condizionamenti delle industrie negli atenei, innalzamento delle tasse, ingerenze in molti servizi delle correnti legate alla dc ciellina, saldatura tra potere democristiano e corruzione craxista, eccetera.

Vivere quel periodo ha avuto un senso che ora assume dimensioni non meramente memoriali-autocentrate, narcissiche, nostalgiche. C’era una dimensione, se non collettiva di fatto (non sempre da me vissuta come tale), certo sentita come figlia radicale e viva di un modo e moto collettivo di pensiero, azione, militanza culturale. C’era Radio Onda Rossa. C’erano reading, riviste, assemblee, sit-in, c’erano molte difficoltà anche personali legate a quel tempo. Mi sentivo all’opposizione anche nella vita privata, perché venivo criticato (non dai miei, va detto) aspramente e ingiustamente per le mie scelte anche politiche. Per varie ragioni è iniziato nel 1991 un lungo tratto di vita totalmente raminga: vivevo completamente fuori casa, tornavo solo per dormire. Pur non potendo prendere parte a collettivi. Anzi allontanandomene.

Una serie di difficoltà personali direi aspre mi ha — per fare un esempio — persuaso ad abbandonare la redazione di una rivista nata nel contesto della cattedra di Letterature Comparate, «I Quaderni di Gaia». Ero sicuramente il più giovane nella redazione ristretta. Ho — nonostante questo — preferito allontanarmi dal gruppo, non potendo tollerare la situazione personale inaccettabile e insieme gli impegni di collaborazione. Uno degli imperativi della comparatistica è — oltre che un precetto di buon senso culturale — un atto direttamente politico: tradurre, sì, ma prima e meglio ancora imparare la lingua dell’altro. Non attendere insomma di conoscere l’altro solo quando entra nel contesto e testo noto. Nel linguaggio già dato.

A questo stesso modo di vedere le cose si ispirava un’altra rivista, «Babele», a cui pure ho collaborato, in maniera continuativa perché di suo era una testata assolutamente irregolare. La facevano studentesse e studenti della Facoltà di Lingue, a Villa Mirafiori. Proponeva testi, prose e poesie (e saggi) in varie lingue, senza traduzione. Senza testo a fronte. Esempio diretto di alterità esibita. E provoc/azione al dispendio di sé nella lettura, invito all’indagine, allo studio.

f. passato

Non solo il nostro presente si riconnota e riconfigura in base al passato avuto (chi ha vissuto il tempo ossia il periodo delle Occupazioni [non solo o non tanto le Occupazioni in quanto tali] è giocoforza diverso da chi non lo ha vissuto), ma lo stesso passato assume rilievo e aspetto e nuova incidenza variata e variante quando un presente si sviluppa in un certo modo.

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[Questo testo è uscito su OperaViva nel luglio dello scorso anno: https://operavivamagazine.org/6070-2/]