Su “assertivo” / “non assertivo” (2013: intervento rivisto)

G — Giostra

Sull’idea (imprecisa e da verificare) di non assertività, legata a quanto oltrepassa la linea del cambio di paradigma, linkerei daccapo il testo Riambientarsi (ma anche difendersi), in https://slowforward.wordpress.com/2012/09/29/riambientarsi-ma-anche-difendersi (e qui), nel quale forse in modo prolisso — ma proprio per questo estesamente — è esplicitato cosa si può intendere per scritture nuove, non assertive, appunto. (Traendo esempi, in particolare, da Corrado Costa, Christophe Tarkos, Ida Börjel). (Con ciò relativizzando, giocoforza, l’aggettivo “nuove”, come più volte spiegato in varie sedi).

E aggiungo: c’è un’assertività su cui si può (diciamo così) concordare, di cui si può prendere anche felicemente atto, pur facendo essa riferimento a un “prima” del cambio di paradigma. È l’assertività di chi scrive egregiamente in modo “modernista”, tutt’ora, a cambio di paradigma avvenuto. Cioè è l’assertività di una qualche lirica o antilirica o meglio ancora (seguendo Zublena et alii) “postlirica” che funziona, che lavora in direzioni note ma con acquisizioni interessanti e ben più che semplicemente interessanti. (Per dire: alcune cose di Giuliano Mesa, principalmente il Tiresia). (Mentre già Quattro quaderni è assai poco modernista, è evidentemente oltre e dopo il paradigma, in un modo del tutto inedito e isolato rispetto ad esperienze di altri autori). A me sembra percorso affascinante e produttivo; talvolta, sicuramente, rischioso (nel senso che è facile, percorrendo una strada simile, non spostarsi da una determinata linea di preorientamento o previsione dell’assenso del lettore). (Attraverso la struttura e l’architettura complessiva del testo, se non attraverso i meccanismi interni, microtestuali, consueti: rima, omofonie, a-capo significativi, isotopie, ..).

C’è poi, invece, un’assertività kitsch e inconsciamente prona al lavoro iperlirico o pulp o confessional di certe aree di scrittura epigonali. Su questa non mi pronuncio, per non intristirmi e intristire. (È il tipo di scrittura di quei pessimi pittori — per stare all’esempio che faccio in Riambientarsi — che vogliono rifare Géricault tale e quale, chiedendo a me osservatore di persuadermi che le zampe del cavallo al galoppo sono dritte e parallele; chiedendomi in sostanza di non vedere ciò che invece so, e che la fotografia mi dimostra).

Sull’altro fronte, venendo cioè al versante del “dopo”, ossia al campo della non-assertività (e della presa d’atto del cambio di paradigma avvenuto o sempre in fieri), ci sono materiali per cui entusiasmarsi e materiali per cui deprimersi, ovviamente. Tra i materiali da guardare con favore anzi entusiasmo metto daccapo e insistentemente al vertice (ma proprio nel senso di un’origine storica, anche) il lavoro di Corrado Costa.

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A mio avviso il passaggio del paradigma (per Ponge, direi particolarmente nelle opere successive al Partito preso delle cose; ma già il Partito preso in effetti è un discrimine) mette parzialmente fuori campo le categorie del poetico-nonpoetico. Tanto è vero che riferirsi a “prosa” o “prosa in prosa” è soluzione quasi didascalica, ma non più (o non completamente) riferibile al ‘genere’. Perché probabilmente il cambiamento avvenuto mette fuori gioco i generi noti, o semplicemente non è interessato a una loro permanenza in campo. [In questo avevo una posizione diversa rispetto ad Andrea Inglese, che più che a una presa di distanza dai generi noti pensa si debba parlare di una rimodulazione degli stessi: ricordo che ne discutemmo in un thread in Nazione indiana]. [Vero è che forse l’idea di entrambi, su questo, è poi cambiata ancora].

La situazione è fluida-liquida ma…

Mi sembra di poter dire che quel che spicca sempre e comunque è il differire forte del lavoro di chi scrive avendo presente un [=dall’interno di un] cambiamento avvenuto, e chi invece scrive riportando del tutto l’intera stanza ambiente semiosfera della propria scrittura a un periodo in cui un determinato tipo di contratto col lettore era stipulato invariabilmente secondo certi patti, pacifici e dati.

Tra queste due modalità di emissione di segni (che con grezza discutibilissima semplificazione ho pensato appunto di etichettare “non assertiva” o “assertiva”) le connessioni sono rade e i contatti si sfilacciano. Le differenze saltano all’occhio.

È come (tornando all’esempio del 1839 in Riambientarsi) guardare un dipinto e guardare una foto. Il volto ritratto è lo stesso, ma qualcosa di radicale è cambiato irreversibilmente (perché era cambiato da prima, nelle percezioni di tutti), tra ritratto e foto.

E (restando all’esempio della nascita della fotografia) non si tratta affatto — seguendo uno storicismo e un formalismo ingenui — di mettere a paragone delle ‘qualità’ dei due oggetti. Ossia una foto “più” precisa a fronte di un dipinto “meno” fedele. Non è questo. Non è assolutamente questo. Anzi: noi avremmo la stessa identica impressione di differenza, di cambiamento di paradigma, osservando la foto sfocata o malriuscita di un viso a paragone di un invece dettagliatissimo e somigliantissimo ritratto a olio del medesimo viso.

Non si tratta di precisione ma di un mutamento più radicale. Una foto è radicalmente diversa da un dipinto anche laddove risulti meno fedele al “vero” rispetto a quest’ultimo. (“Noi novecenteschi” vediamo chiaramente tutto ciò. Ma agli uomini del 1839 questo era allo stesso tempo altrettanto evidente ed energicamente indefinibile).

Ebbene: potremmo forse dire che la fotografia è — rispetto alla pittura — semplicemente un modo diverso di fare pittura? Certo che no. Non è una variazione del ‘genere’ pittura. È proprio un’altra cosa.

Bon. Come con il 1839 in fotografia, a mio avviso a metà Novecento è successo qualcosa di simile nelle arti, e in particolare nella scrittura. Con colpi e avanzamenti e scartamenti laterali di codice ancora più possenti man mano che si avanzava nei decenni, fino alle ulteriori esplosioni determinate dall’avvento pieno del digitale. (Nb: il digitale realizza qualcosa che la percezione di tutti, la più comune e diffusa, in qualche modo già diceva; altrimenti non sarebbe stato nemmeno possibile pensarlo, strutturarne le tecniche, l’orizzonte [di] immaginario).

Il problema è (se problema è) che noi siamo dentro questo cambiamento. (Anche in poesia o più in generale nei campi delle scritture). Ed è quindi estremamente complicato osservarlo, perché vi siamo coinvolti in prima persona.

Nonostante ciò, è evidente, palese, palmare. Solo chi si ostina a non leggere (e soprattutto a non considerare le valanghe di scritture nuove — anche non cartacee — che vengono da paesi non italofoni) può sostenere serenamente che non esiste una novità radicale, o meglio una diversità profonda (e non riportabile a meri connotati linguistici e formali) tra materiali prima e dopo il paradigm shift.

Una fotografia può non differire da un dipinto per tratti formali, linee, colori: è di suo un’altra cosa. Una cosa diversa. (Non fissiamoci a osservare cosa rappresenta o come è fatta: non è lì la diversità. Un dipinto astratto può far scattare l’etichetta “avanguardia” e una fotografia da album privato l’etichetta “kitsch”. Non sta lì la differenza, è evidente, deve essere evidente).

Un testo che nasce dopo il paradigma può non essere differente dalle modalità (p.es.) moderniste di scrittura in termini di diversità di poetiche, di temi, di metri, di sintassi, di linguaggio. È però, e allo stesso tempo, proprio un’altra cosa. Una cosa diversa. Alla quale gli occhi possono abituarsi. (In altri momenti avrei scritto “devono”, “dovrebbero”).

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[su assertivo / non assertivo cfr. anche la Nota critica informale di Alessandro Broggi]