marzo 2004

domenica, 28 marzo 2004   [link]
 

Sintassi

Il fatto che in tv rarissimi politici razionali battaglino in bella disperazione, a suon di nessi tra frasi e analisi e ragionamento, contro loro sodali o nemici comunque più numerosi e rumorosi e monocordi nel prediligere l’iterazione come modello di esistenza (prima che di discorso), mette addosso lo sconforto che sempre viene vedendo l’organismo complesso soccombere davanti al caterpillar monocellulare.
Il pugile, che non ragiona, abbatte il corpo che ha di fronte, con tutte le ragioni che contiene. (È, del resto, la storia della politica italiana, dal 1994 in avanti).
Un unico minimo virus ‘fatto solo di se stesso’ compromette macchine animali giganti, miliardi di cellule. Lo stato è attaccato alla radice. Era debole; ora debolissimo. Gli italiani hanno ceduto perfino prima.
Venti o trent’anni di isosillabismo, di alfabeto morse per neuroni nani, di raggi x, su una nazioncina relativamente giovane (stato che non è mai stato stato), distruggono spessori e labirinti della sintassi.
La stessa percezione del tempo sospeso, incantato, che è essenziale per attendere e volere la conclusione di un ponte sintattico, è revocata, messa in scacco, impercorribile. (La parola è atto, e atto semplice, o non è: questo ora è l’implicito/scontato in ogni esordio di discussione; in ogni rapporto; e nel lavoro; e comporta distruzione del tempo).
Ma le pubblicità, fino a buona parte degli anni Ottanta, erano pur fatte di frasi. Le ricordo. Esistevano. Poi più nulla.

Da queste linee iniziali di constatazione deriverei il valore anche politico delle ARTI DELLA SINTASSI.
Diverso tassello di una resistenza (parecchio più vasta).


giovedì, 25 marzo 2004   [link]

 

Kitsch come meta_stile

Non avrei voluto aggiornare la pagina prima della fine della settimana. Ma la casella di posta elettronica e quella di posta ‘cartacea’ e le cose sentite e lette obbligano a volte a un piccolo ‘sommovimento’ (reattivo). C’è insomma un’insofferenza che chiede di essere espressa. (È assai meno importante del brano sull’allegoria, che segue; ma ha forse più urgenza).
Di che si tratta? È presto detto:
Tutti conoscono quella frase di Debord che dice che lo Spettacolo è il Capitale a un grado così elevato di accumulazione da diventare immagine. Il kitsch rappresenta l’accumulo di segni di secondo e terzo grado, deviati e disturbati (da assenza assoluta di storia e di coscienza dell’esistenza della storia): accumulo portato(si) a dimensioni tali da configurarsi come meta-stile.
Copre ed anzi è un amplissimo ventaglio di forme dell’esperire in generale, del ‘percepire il passaggio del senso’ (in arte, nel tratto di storia che chiamiamo indicativamente “contemporanea”). Mai viste così tante copertine di libri di poesia, e (cover di) canzoni, e abbigliamento, e libri e romanzi e poemi interi configurabili come “pacchiani”. E la cosa stupefacente – a parziale critica delle certezze di Debord – è che tanto trash non fa nemmeno vendere di più.
Tuttavia anche questo (come la new slavery evidente nel mondo) può essere cifrato daccapo grazie a un ulteriore riferimento a Debord (dal Panegirico): così come «la schiavitù vuole essere amata ormai esattamente per se stessa» e non in vista di alcun guadagno da parte dell’asservito, altrettanto diremmo che il kitsch non cresce esponenzialmente per raggiungere un assenso (una fortuna economica, un ‘piacere’, o ‘il fatto di piacere’). Semplicemente esiste come alone di questa fase di lusso perfetto del capitale transnazionale, delle città mondializzate, sequestrate. Dunque è meta-stile, e insieme meta, e insieme lo stile.
Questo non lo rende meno disprezzabile. E accresce le responsabilità e l’impegno di chi gli resiste.


domenica, 21 marzo 2004   [link]

 

Allegoria; sfondo di senso

Puerilmente e per necessità (comunque da non parlanti, da infantes, si inizia un discorso sul parlare) una base di partenza per degli elementi di poetica, o di ricostruzione di poetiche possibili, ha diritto e modo di darsi come ripensamento e critica frontale al post-human; ma prima ancora, e direi in parallelo, come riferimento alle strutture e precondizioni di linguaggio che legano le società.

L’argomento stesso del discorso è ambizioso. Segno che merita affrontarlo.

Una emblematica con riferimenti rigidi, a enigma, con strutture predefinite da una ideologia o religione, ha non solo perso senso, ma probabilmente non l’ha mai effettivamente avuto (nel cuore dei parlanti, nella storia). Tuttavia il castone di senso, l’involucro-fondazione entro cui nasce (e che è per paradosso generato da) qualsiasi parlare, fa pur riferimento a emblemi come minimi segnali di uno sfondo di senso possibile, condiviso. Pensabile proprio in quanto non già pensato, non pre/definito.
Il porre un enigma innesca – tra varie forme di eco – l’allusione a uno scioglimento possibile. Dunque a un passaggio di consegne tra non senso e senso.

L’occorrenza di allegorie in poesia, anche ‘vuote’, se pure non rinvia a elementi di decodifica certa, ha a che vedere precisamente con il più generale, necessario, riferimento a ‘un’ dar senso, atto specifico dei linguaggi complessi.

È forse questo il residuo di pietà [tracciato neurale plausibile: non ‘umidore’ neoromantico] nelle arti – già offerto non come resto o scarto ma proprio come corrente di materiali in tutto il Novecento. Pensiamo ai muri segnati e graffiti di Tàpies, al personalissimo fayyum di Boltanski, e – retrocedendo – alle esperienze del gruppo Cobra, o a Mirò, soprattutto a Klee.

Un riferimento – perfino diretto – agli stessi fondamenti di possibilità dell’esperienza del senso in accezione umana.

*

D’altro canto, è pur vero che questa esperienza è strettamente legata (sa di esserlo) al “dar senso individuale”, in scala 1:1, che sembra aver preso possesso della scena artistica in maniera assoluta e incontrovertibile giusto nel XX secolo, così ‘compiendo’ (dopo i laboratori già postumani dei nazisti) quel progressivo avvicinamento o sovrapposizione di “senso” e “condizione di possibilità del senso” che aveva avuto origine con la nascita del “senso estetico moderno”.
Nel momento in cui un sentimento di produzione e un sentimento di fruizione, investitore e investimento, vanno a legarsi fino a coincidere, vediamo oggettivata quella ‘estetizzazione dell’esperienza’ di cui fin troppo si parla.
Questo estremo riferimento al carattere individuale dell’arte come “esperienza estetica” (perché tutti e ciascuno individualmente, in tutte le esperienze e in ciascuna, esperiamo il senso, esperiamo l’esperire) rischia così radicalizzandosi di escludere il fatto che il suo circuito è reale e attivo in quanto socialmente fondato o fondabile; in quanto – appunto – umano, condivisibile (anche per punti minimi, per minime superfici di contatto) con una attenzione altrui.

Se ‘estetica’ riguarda in potenza ogni evento incontrato, ecco che la possibilità di verificare ovunque fondata l’esperienza del senso, sposta quest’ultimo nell’ovunque, e in ciascuno, così dissipandone i contorni socialmente riconoscibili (marcati per distacco). E offrendo resistenza zero all’eccezionalità/crudeltà delle “esperienze estreme”. Al loro attestarsi.

*

Per certi aspetti, dunque, il lavoro sugli emblemi e il riferimento alle “allegorie vuote” è ben interno a (non svincolato da) quello stesso senso estetico moderno che registra la de/umanizzazione, il post-human. Per altro, sa o vorrebbe saper fare risuonare – nel sollecitare precisamente il valore “sociale” del produrre senso in emblemi – quello sfondo di relazioni, quella materiale condivisibilità dell’esperienza di senso, che una estetica tutta catturata da se stessa e dal “nouveau” ha progressivamente fatto impallidire, se non distrutto.

Un cranio cavo, esibito in allegoria, opacizza o elide quella prepotenza di mappatura 1:1 della realtà che un cranio cavo vero, prelevato ed esposto, possiede e impone con violenza.

È implicito nel discorso culturale limitare con strumenti immateriali (nello stesso linguaggio) il non-discorso della violenza.


lunedì, 15 marzo 2004   [link]

 

Un primo paragrafo sul sottrarre

Proviamo a pensare a una fotografia come a un’esasperata sottrazione di alternative.
Diciamo: quella è (la) fotografia riuscita, entro quei termini e confini. O: non è le infinite altre – le non riuscite, le non (così) tessute di connotazioni.
Questo, volendo, spiegherebbe perché avvertiamo il mezzo fotografico – in quanto modello – così incline alla registrazione del dolore, altra forma di riduzione a zero di alternative.

[ Lo scatto di un dolore, prima ancora di (e con il) ritrarlo, dà un’eco della modalità generale di rapporto con il soffrire ].

[ Fuori dalla fotografia: è poi il tema che inaugura e innerva – variamente articolato – tutto il saggio di Genet sull’opera di Giacometti ].

Ma se è vero che pensiamo alla fotografia come ad una riduzione drastica di sentieri nel giardino borgesiano, lo facciamo rispetto a quale (altro) mezzo che invece ne addizionerebbe? Probabilmente rispetto al cinema. Sembriamo ritenere che il cinema sia l’esposizione dell’evento intero, in tutte le sue mancanze e i suoi pieni. Di cui la fotografia sarebbe, anzi è (o di cui un certo tipo di fotografia fino a oggi è stata) il fermo-immagine non casuale.

[ È quel che Barthes sta per dire nel § 23 della Camera chiara, parlando di «pensosità» del fotogramma. È quello che forse adombra Cocteau nel Mistero laico, nel brano che inizia con «Una casa fotografata e una casa filmata non si rassomigliano affatto». È quanto suggerisce, per via inesplicita, Susan Sontag – nel testo Nella grotta di Platone – parlando di una fotografia come di una «trasparenza strettamente selettiva». È ciò che McLuhan sfiora e pure schiva al principio del cap. XX de Gli strumenti del comunicare. ]

Ossia. Se vuole darsi titoli di cacciatrice del senso, la fotografia deve – sì – aver l’aria di una sottrazione di alternative, ma sempre (e in quanto) comunica insieme la certezza-sfondo che tutte le alternative abolite per arrivare a quell’unica particola sovrastante un cumulo annerito siano state quelle giuste; siano state sensatamente azzerate, secondo un esatto quanto imprescrittibile profilo di sparizioni.


domenica, 14 marzo 2004   [link]

 

Pianeta deperibile

I limiti del conoscere, del significare e dell’usare (il mondo) sono esterni a noi. Se il linguaggio è innamorato delle proprie gallerie (specchianti), ciò non toglie che il mondo esperito non si pieghi a una simile indifferenza verso il limite. Il barocco, per statuto, manca di umiltà.
Il pianeta ci ‘interrompe’, di fatto. Il misconoscimento del margine ha prodotto (sul versante in apparenza più immateriale) il Mercato e lo Spettacolo contemporanei come tematizzazioni del nodo estetica/economia; e ha escogitato (sul versante più fisico) l’energia nucleare: la distruzione dell’ecosistema.
Le armi nucleari aggirano irreversibilmente il nemico. Lo cancellano. Attengono alla stessa possibilità del conflitto, radicalizzandolo a un punto tale da renderne vuoto il concetto. Le testate nucleari non iniziano né concludono uno scontro, ma puramente annientano tutte le parti in causa – e perfino quelle non in causa. Qui si ha a che fare con l’illimite fatto arma. Anche questo è ‘umano’, ovviamente, ma dell’umano rappresenta il confine esterno, oltre il quale inizia la scomparsa della specie dal pianeta.
Al momento questo non accade o non è ancora accaduto. Tuttavia l’istituzione di una eventualità del genere non era inevitabile. Ora lo è. Ne ha responsabilità una definita classe sociale, che come sempre è cosciente di sé solo fin dove fa comodo ai propri interessi (economici). La ‘classe imprenditoriale’ nemmeno ha voluto osservare la prossimità di economia ed estetica. Ha puramente sposato il loro sposarsi. Ha stampato l’homo faber come istituzione comodamente perenne, incoronando così l’homo ludens in forma di asservibile già asservito utens.


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MG’s Biblio_upgrade: sono usciti in questi giorni

> un poemetto e alcune poesie su «Smerilliana», n.3, febbraio 2004,
> sette poesie da Alter su «Il Segnale», n.67, febbraio 2004,
> otto poesie su Matità n.4, feb. 2004,
> due prose e una poesia nelle pagine del progetto Klandestini del British Council.


domenica, 07 marzo 2004   [link]

 

Qui di séguito ripropongo una pagina già pubblicata tempo fa, ma adesso (ri)pensata e quasi riscritta, come possibile dialogo con i vari interventi che in questi giorni sono comparsi su «L’Unità» (specie quello condivisibilissimo di Margherita Ganeri, il 5 marzo), sul sito di Lello Voce, e sul settimanale «Stilos» (p.es. il pezzo di Elio Paoloni, uscito il 2 marzo).

Parola spostata

Scrittura, interpretazione e prassi (anche nel senso elementare di comportamento quotidiano) cospirano a risalire verso la complessità e indecidibilità delle percezioni. In arte e scienza e riflessione filosofica sembra che il Novecento abbia stilato un unico regesto sull’indeterminabile, quindi sul rinvio continuo (link, rimando, nuova rima, frequentativa). Fino a spingere – non insensatamente – perfino alcuni filosofi postmoderni a dubitare del dubbio, e a interrogare le linee di resistenza del reale, osservando che comunque qualcosa nel cerchio dei segni fa spessore, bordo, ostacolo, e così crea o prefigura sintassi, gerarchie di senso, ovvero limita o recide la deriva interminabile di connessioni che la realtà percepita e ritradotta sembra formare.

Dallo specchio barocco si avvista già la fibra di vetro. Ora la perplessità non ha compiutamente modo di venerare una sua propria poetica, o di insultarla; non ha teschi da veder posare sul tavolo della natura di fatto morta, né stagioni da dissipare mento in mano contemplando fiamma. Migliaia di miliardi di “materiali” (info) si torcono de/formati perché perfetti all’interno dei prismi-specchio, da un cavo all’altro, senza passaggio di tempo; in un momento. (In parallelo e coerentemente, il tempo individuale tende a zero: abolito dal tempo enorme e collettivo delle cataste di informazione, e dello sfruttamento tollerato).

È configurata allora una contraddizione tra la struttura seriale del pensiero-scritto che conosciamo, e la natura parallela dei files che il mondo informato genera (o: che noi bene o male rubrichiamo come quella cosa a cui diamo nome di Mondo).

Per seguire e capire e intervenire anche in senso politico sulla realtà ‘servirebbe’ un iter lineare o più trame di un tessuto (textus) serialmente affrontabile. I files, i percetti, concrescono invece aperti in parallelo, nonché virtualmente senza numero: frattali. Non si può metterli in sintagma. Sono pressoché negazione del concetto di sintagma. Disporli in tracce verticali, gerarchizzate, non ramificate, è chiamarsi fuori gioco, o antieconomico, stante anche il fatto che tale loro articolazione ‘in parallelo’ riproduce quel medesimo sistema complessivo-complesso di organizzazione mentale dei dati percepiti che l’uomo europeo e in parte statunitense ha formato in sé, almeno dal Settecento a oggi (via via più scientemente).

In questo planetario è perfino funzionale e implicito lo spiraglio joyciano (joy), con uno stream (parola fortunata) of consciousness congegnato per abbassare la temperatura e i picchi delle sensazioni, digerire le res estraendone il nulla, facendone narrazione orizzontale, o narrazione-orizzonte, talvolta perfino parola critica, concertando di séguito blob tra maschere (personae) politiche o blog apolitici strettamente separati e autocentrati.

In sostanza: è capitato al XX secolo di essere il luogo esemplare di una doppia irraggiungibilità: del reale e della parola contemporaneamente. Come una freccia che punta allo stesso tempo in due direzioni, e che precisamente in questo modo cerca di dire entrambe. Non toccandone alcuna. Così per paradosso fondante arrivando precisamente a esprimerle. (Dimostrandole legate; accusandole implicate).

Non si deve forse guardare al XX secolo come a un’unica messa in scacco della parola; bensì come al tempo in cui la parola-scacco ha tematizzato sé. Così facendo, ha in parallelo reso o dimostrato più fragili le proprie vie, complici o complanari – in potenza – di quel sistema di paratassi blande, di slittamenti di responsabilità, di elusione dei costi del possesso dei piaceri, di smaterializzazione irreversibile del valore dei corpi e delle vite individuali, che può essere in sintesi chiamato ancora capitalismo.

In un quadro simile, la parola-scacco occupa una casella che solo contraddittoriamente entra nel punto cieco abitato dai lessici politici. (E questo ne fa parola di conoscenza differente, cifrata e cifrante, spostata: ben poco ‘utile’, almeno in prossimità della sua nascita sul foglio). E tuttavia sembra essere ancora il primo luogo di conoscenza che abbiamo. Non è poco.

[ nuova variazione dell’articolo comparso con il titolo di Afasia di settembre su «Il Segnale», a.XXI, n.62, giugno 2002 ]