domenica, 30 ottobre 2005
Alcune schede di lavoro e questioni
sui cinque nodi tematici proposti per RomaPoesia 2005
Propongo qui di séguito alcune annotazioni da/per i cinque appuntamenti di Poesia ultima, la serie di incontri con autori e critici che si è svolta all’Auditorium di Roma il 21 e 22 ottobre, in occasione di RomaPoesia 2005.
I.
Corpo gelo tempo oggetti
in scritture di autori nati negli anni Sessanta e Settanta
Elisa Biagini, Florinda Fusco, Laura Pugno, Massimo Sannelli
Il primo nodo tematico ha affrontato e posto l’accento su una modalità di scrittura (da ciascuno dei quattro autori declinata in maniera diversa) che fa perno precisamente sugli elementi del titolo:
– il corpo come immagine e distanza, visto e sezionato nella sua materialità ma anche nella sua infinita e indefinita riproducibilità (di merce, di prodotto-riprodotto, appunto). Si direbbe un corpo fortemente e ossessivamente visto-nominato, più (e più precisamente) che vissuto-nominato. [E: è corpo ‘non organico’, bensì accumulo e catasta di fatti / oggetti / attraversamenti: come scrive A.Cortellessa nell’introduzione alla poesia di Elisa Biagini, in Parola plurale]
– Il gelo inteso come intenzionale distanziamento dalla materia, raffreddamento della forma; ma anche come collocazione del corpo nello spazio ostile dell’architettura contemporanea, e in una pagina resa essa stessa nonluogo.
– Il tempo coincide con frammentazione e percorso biografico nel gelo, nei detti spazi ostili, e nelle nuove o non nuove soluzioni metriche (e performative) messe in atto dagli autori. Il tempo parlato affiora in Biagini e Sannelli come linea che esplode. Gli autori procedono attraverso strumenti di frammentazione molecolare del testo. Fusco e Pugno usano invece modalità che all’apparenza riprendono un flusso poematico, in verità eludendo qualsiasi ipotetica natura ‘unitaria’ della forma-poemetto. (Il flusso nella loro scrittura è tale solo come valanga di schegge).
– Gli oggetti sono il termine estremo che come per chiasmo dà modo di ritornare a parlare daccapo del corpo, perché del corpo sono segni e segnanti, ferite e feritoie, non allegorie ma segnature, tracce, materia di discorso per un ego disintegrato in queste.
Si può parlare di scrittura ‘fredda’, estranea al realismo (anche se tutt’altro che “anti”realista), e nettamente non-sentimentale. Semmai capace di riassorbire una selezione imprevedibile di dati emotivi all’interno di apparenti allegorie o meglio ancora gruppi oggettuali. Li chiamerei precisamente così: più che ‘correlativi oggettivi’. (Si direbbe configurata così una opposizione: molti postmodernismi versus il ‘grande stile’ del Modernismo).
E dunque: c’è un materialismo (che non esclude impronte religiose: vedi il caso di Sannelli) che si incarica di flettere i versi su dati e materiali e immaginario assolutamente riconoscibili/familiari e tuttavia fotografati o registrati quasi come ‘ostili’. (Interni vuoti, come nelle fotografie di Luisa Lambri e Alessandra Tesi; case-nidi-minacce, come in Nan Goldin, nei set di David Lynch, nei videoclip di Apex Twin, nei neri di Francesca Woodman: l’Unheimlich è una categoria-ponte, allora, tra modernismo e postmoderno? … e post-human?).
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II.
Linee della scrittura di ricerca (1):
Il lavoro nelle arti: performance e (ri)definizione della vocalità
Esse Zeta Atona, Sparajurij, Sara Ventroni
Con la partecipazione di Tommaso Ottonieri
Questo nodo tematico è stato il primo di una coppia il cui intento era affrontare alcuni aspetti e definizioni interne a/di una possibile ‘scrittura di ricerca’ all’altezza dei primi anni del nuovo secolo. Il primo termine della coppia riguarda la vocalità, nel senso della performance. Il secondo termine riguarda (vedi anche il punto IV) una possibile scelta installativa della scrittura.
La performance richiede presenza, soggetto enunciante, lavoro attoriale; l’installazione al contrario può avvenire senza autore (pensiamo alle ur-installazioni delle poesie scritte da pc, di Nanni Balestrini), cioè in assenza di soggetto parlante: l’azione vocale può essere – non paradossalmente ma logicamente – affidata anche a una macchina. A un lettore digitale, a un traduttore automatico, a un nastro, a un estraneo scelto casualmente… Nel nodo dedicato alla performance, non si fa allora cenno alla assenza autoriale.
In ogni caso, invece che attraverso affermazioni il tema può essere delimitato per mezzo di domande:
– In generale, di cosa parliamo quando parliamo di scrittura di ricerca?
– Il lavoro della voce e con la voce sposta ormai definitivamente l’asse dell’opera dalla pagina, o lo ricolloca diversamente nel campo del testo, che esce dalla presenza grafica su foglio ma vi fa continuamente ritorno?
– Performance e vocalità, antispettacolari in anni passati, ora sembrano intrecciare un diverso rapporto con lo spettacolo: e attraverso lo spettacolo: il ‘nemico’ allora qual è?
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III.
Visibilità e dicibilità del mondo
Scrivere luoghi e storia, esserne scritti. Per una poesia civile? E: senza o con “io lirico”?
Mario Desiati, Massimo Gezzi, Fabrizio Lombardo, Andrea Ponso, Lidia Riviello
Questa lettura/discussione chiama in causa direttamente due aree ‘pericolose’ per la retorica del secondo Novecento: la poesia civile, e l’io. La poesia civile è stata declinata in molte forme, e quasi condotta dallo stile inatteso dell’ultimo Pasolini, con Trasumanar e organizzar, a mosse o modi di sperimentalismo; mentre molti autori proprio in quegli stessi anni revocavano in dubbio ogni dicibilità diretta del mondo. (Pensiamo che una rivista come «Anterem» nasce precisamente nel 1978).
Oggi sembra piuttosto complesso riprendere una qualsiasi dicibilità immediata/lineare delle cose: ma appartiene veramente all’io la scrittura civile di questi anni, se pure se ne registra una?
Alla domanda si è cercato di rispondere grazie a cinque scrittori molto diversi tra loro, e anche molto diversi dagli autori dei precedenti e successivi nodi tematici; chiamando in causa quella che appunto è per loro una costante stilistica non meno difficile da affrontare della poesia civile: il ritorno frontale e talvolta sfrontato del soggetto – lirico o meno – nel verso.
Allo stesso tempo, parlare di inclinazione civile della scrittura poetica non intendeva offuscare il tema o momento che in verità – a mio modo di vedere – la precede e la determina: il tema della visibilità del mondo, e della sua emersione in codici, parola.
Il peso del reale non è mai eluso dalle scritture sperimentali, d’avanguardia, di ricerca (a torto accusate di fuga nei significanti: ed è polemica sterile e vecchia). Qui possiamo osservare come questa mancata elusione, ossia l’immersione del/nel mondo, sia in gioco in autori che non si definiscono sperimentali. In che modo, accedendo al visibile e al dicibile del reale, pur non sperimentando con il linguaggio, le loro sono scritture nuove? Quale senso danno alla loro ricerca?
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IV.
Linee della scrittura di ricerca (2)
Un dialogo con Francia e Stati Uniti
Gherardo Bortolotti, Andrea Inglese, Andrea Raos, Michele Zaffarano
Con la partecipazione di Damiano Abeni
Questo è stato forse il nodo tematico più arduo da presentare, volendo e dovendo legare insieme esattezza e brevità.
Il dialogo con gli autori qui presenti dura da molti anni, ed è complesso sintetizzare i temi affrontati in questo tratto di tempo.
Si può dire innanzitutto che Andrea Inglese e Andrea Raos da anni si occupano di scrittura di ricerca, vivono entrambi tra Parigi e l’Italia, e sono due autori ‘di connessione’ preziosissimi per intendere il panorama della poesia francese. Andrea Raos ha curato per «Action Poétique» un cahier di poeti italiani contemporanei, e ha tradotto diversi francesi in italiano, in più occasioni e sedi (senza contare che è sua un’interessantissima e finora credo unica antologia bilingue che lega la poesia contemporanea giapponese e quella italiana). Sia Inglese che Raos, con il sito di NazioneIndiana, stanno facendo moltissimo per tradurre autori francofoni. Un esempio recente è quello di Liliane Giraudon. In Francia molto lavoro di ricerca e sperimentazione si deve ad autori come Christophe Tarkos, Jean-Michel Espitallier, Pierre Alferi, e moltissimi altri, di cui sono traduttori e conoscitori Michele Zaffarano e Gherardo Bortolotti, che hanno avviato (presso le edizioni milanesi Arcipelago) una collana di autori anglofoni e francofoni.
A Damiano Abeni si deve una pluriennale e attentissima opera di traduzione dall’inglese, di autori a volte introdotti da lui per la prima volta in Italia. (È il caso di Markson, uscito pochi mesi fa su «Nuovi Argomenti»; ma pensiamo anche a Strand, Simic, Ashbery…).
Quello che Inglese, Raos, Bortolotti e Zaffarano come scrittori e come traduttori portano alla mappatura di Poesia ultima è – per un’Italia avvinghiata alla non conoscenza dell’altro – un’occasione essenziale di apertura, preziosa. Sul piano della loro poesia, Inglese e Raos intrattengono un fitto dialogo con le cose, con il mondo nominato, addirittura talvolta riversandolo in forme ‘chiuse’ (come certi sonetti di Raos). Stessa cosa fanno Zaffarano e Bortolotti, ma con un diverso impiego di mezzi: se per Raos e Inglese la nominazione è diretta, per Zaffarano e Bortolotti questa non si dà mai se non per campionamento, prelievo, cut-up, ricorso a logiche random, o a elencazioni. Se un modello di riferimento per i primi due potrebbe senza troppo arbitrio essere individuato in Pagliarani; è sicuramente Balestrini la voce ‘dittante’ degli altri due.
Per Zaffarano e Bortolotti – ma anche per Alessandro Broggi – valgono inoltre le osservazioni fatte in tema di ‘freddo’ (per distanziamento stilistico dallo stile stesso) e soprattutto in tema di ‘installazione’. Le loro pagine sono oggetti disposti in uno spazio grafico (pagina) o sonoro (voce/lettura): spazio da immaginare assolutamente estraneo alla presenza fisica autoriale. Anzi, in alcuni loro progetti questa scompare per esser sostituita da meccanismi. In ciò i due seguono varie esperienze francesi e statunitensi o canadesi, che precisamente a un’idea di poesia come disposizione di materiali fanno riferimento.
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V.
Edipo Antiedipo
Ricerca in prosa e in poesia: il rapporto con i ‘padri’ = stili del Novecento.
Alessandro Broggi, Giovanna Frene, Christian Raimo, Luigi Severi
Concludono gli incontri di Poesia ultima quattro autori che permettono non solo di ricapitolare i momenti e nodi tematici affrontati fin qui, ma di impostarne alcuni cruciali, toccati solo in parte negli incontri precedenti.
Di scrittura fredda si può parlare sicuramente per Broggi e Frene, di (ri)definizione della vocalità per Raimo (attivo in molti poetry-slam), di tensione civile si parla sia per alcune cose di Frene, sia per molte pagine di Raimo e di Severi. Così come l’io (lirico o meno) compare qua e là in tutti gli autori (tranne forse in Broggi). Influenze di letteratura e sperimentazioni di area inglese sono senz’altro in Broggi e Raimo, come per Severi (anche in virtù della sua continua rilettura del Modernismo, in particolare di Pound: e dunque di un maestro assoluto del plurilinguismo).
Per Frene si deve far riferimento anche alla sua attività artistica, nel campo dell’incisione. Per Broggi, all’intreccio costante di varie arti, specie musica elettronica e arti visive, nei codici della sperimentazione. A un’arte combinatoria fa riferimento il laboratorio di Broggi, mentre per Frene verrebbe, ma entro limiti ormai da descrivere bene, immediato il nome di Zanzotto, suo maestro dichiarato (e ‘metabolizzato’). Ecco allora il tema dei maestri, degli stili-guida, stiletti e stilemi.
I quattro sono prosatori e poeti, Broggi lavora con frammenti di prosa quasi-narrativa, e in versi; Frene è autrice di un breve epistolario; Raimo ha praticato sia il codice poetico che – forse più frequentemente – quello del racconto; Severi è sia poeta sia narratore.
piccola rassegna stampa
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