domenica, 29 febbraio 2004 [link]
Joyce vs Rilke
Da Il mezzo è l’aria, di Enrico Ghezzi (Bompiani): «Credo che il dovere di chi lavora nell’ambito della comunicazione sia, non dico di opporsi, ma in qualche modo di porre come dei freni, degli intralci, delle complicazioni, delle deviazioni, proprio alla immediatezza (insormontabile, invece) della comunicazione cinetelevisiva. E c’è poco da dire: ci eccede. Ogni immagine ci convoglia, ci butta addosso informazioni che non avremo mai il tempo di leggere, di mettere in sintagma, di selezionare, di gerarchizzare».
È il tema del “rumore di fondo”, in rete come ovunque. Ma è poi così strano che la comunicazione ci ecceda? Non fa così ‘anche’ il linguaggio? Il parlare stesso? Il percepire, prima ancora. (Il primo assoluto).
[Suggerirei: non la comunicazione ci eccede: questo sempre è accaduto. Semmai: cresce la nostra percezione dell’excessus, dato che i meccanismi che in se stessi tematizzano il nostro medesimo esperire, sempre più ci danno occasioni di delibare frontalmente l’eccesso, l’eccedere dei segni].
È allora una ‘soluzione’ pensare di «porre come dei freni, degli intralci» o «deviazioni»?
Si tratta forse, come l’Ewald Tragy di Rilke, di «dire una parola enorme», scagliare in faccia alla ‘borghesia’ quell’insulto da cui essa non potrà riaversi? La parola enorme è qualcosa che dobbiamo forse “dire”?
Se osserviamo bene, nel campo del “dire”, sul principio del Novecento l’avanguardia andava – come insegnano i saggi di Franco Moretti – proprio in direzione opposta: con lo stream of consciousness, si produceva – proprio all’opposto – una netta eliminazione di intralci complicazioni tragedie. Cesure e interruzioni sparivano sullo sfondo di un orizzonte di eventi freddo-tiepido: l’orizzonte del monologo interiore, banale basso continuo, che permette al dublinese medio di sopravvivere alla catena di shock e piani sequenza della città in accelerazione.
Nella coscienza tutto è complanare con tutto, e ‘fluente’ (“stream”: nome fortunato): per sopravvivere, per non soccombere all’impatto della molteplicità. (Del cinema, si direbbe).
E cosa ha fatto lo stesso Ghezzi, se non escogitare, con Blob, l’equivalente televisivo dello stream? Non ha reso, così, tutto più fluido, più corrente, più digeribile-digerito? No. Forse no. E tuttavia: lui per primo (in tv) ha “semplicemente” mostrato allo spettatore postmoderno che cosa è e come effettivamente funziona l’immaginario schiacciasassi dello spettatore postmoderno. Ha reso trasmissione televisiva quello che era già per tutti e per ciascuno un banale e irriflesso daily (mental) zapping – spesso produttore casuale di senso.
Le avanguardie non sono all’avanguardia di qualcosa di ontologicamente dato grazie a loro, bensì di qualcosa che ha sempre a che vedere con l’autocoscienza, con la percezione riflessa di un certo stato di cose e di caos; e con la significazione di tale presa d’atto.
Il primo che formalizza un metalinguaggio (Joyce con lo stream dei dublinesi d’inizio secolo, Ghezzi con il blob dello spettatore mondiale medio mediale degli anni ’80) appare “all’avanguardia” – e in effetti lo è. Ma è all’avanguardia in termini di percezione di un evento che già si è dato socialmente, è già in atto. Non viene istituito da loro. Loro ne sono i primi (attivi) sismografi. Sono i legislatori di un buon (= funzionante; e spendibile infine) codice di autocoscienza.
Se Ulisse vuole sopravvivere dentro Dublino, dentro la città-linguaggio (e dentro la borghesia, nell’industria, nell'”esteticità diffusa” = “senso estetico moderno”), parlando da dentro quel linguaggio, essendone parte, allora la “parola enorme” di Ewald Tragy non è una soluzione.
domenica, 22 febbraio 2004 [link]
“Un’editoria che non cura le opere di qualità e di sperimentazione è come un’industria che non investe in ricerca di nuove tecnologie. Che è precisamente quello che accade in Italia da decenni, in entrambi i campi. Infatti non siamo, né letterariamente né economicamente, competitivi”. (Lello Voce)
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Tutto è politico? Anche questa citazione di altri anni, certo.
E allo stesso tempo: niente è politico; dato che il contesto (‘mondiale’) è blindato. Niente che un ‘comunicatore’ (dov’è non dico la figura, ma proprio la parola “Intellettuale”?) possa raggiungere.
Se il blog è la forma estrema di isolamento nella rete, attraverso la rete, è pur vero che le stesse comunicazioni ‘classiche’ ad alto grado di formalizzazione (poesia, narrativa breve, saggio) scontano un abbassamento di visibilità, in Italia più che altrove ma nel Novecento e ora più che mai, sensazionale.
La scomparsa o trasformazione (non letteraria) della parola pubblica coincide con la crescita del potere di chi sa comprarla. Quanto più è alto l’investimento non mediatamente economico, tanto più forte è la presenza sulla scena della parola. Su temi legati, si può leggere una riflessione nel blog di Biagio Cepollaro.
domenica, 15 febbraio 2004 [link]
A fuoco è fuori fuoco
(2)
Una fotografia che osservo, carica di un certo alto o basso numero di connotazioni, parrebbe oggetto definito. È così? Quale oggetto è – in generale – finito, definito (definitivo)?
La foto X, in quelle strutture comunicata, esattamente per via dell’esattezza e inaggirabilità delle linee e isotopie percettibili che la compongono, rende sfondo eluso e cancellato una massa di possibilità altre. Possibilità che in qualche modo sono avvertite o presentite come sfondo eluso e cancellato giustamente.
L’oggetto infinito, il prodotto infinito, insomma, tematizza proprio con il suo “infinirsi” l’atto generalissimo del giudicare. La possibilità, anzi, di giudicare.
Attenzione: questa non è “deriva (solo) storica” – se non in quanto si è estesa e sta crescendo di fatto in un arco di decenni. Non ci troviamo del tutto in un territorio storico. Avendo a che vedere con una indeterminata e generalissima facoltà di giudicare, abbiamo allo stesso tempo a che fare con qualcosa che ci riguarda in maniera profonda: che riguarda cioè l’esperire in generale; e, anche, il darsi di una storicità delle esperienze di arte.
sabato, 07 febbraio 2004 [link]
La molteplicità delle lingue – l’includerne varie all’interno di un testo – non è segno di “uso” di una lingua sentita altra, né l’espressione di (una parte di) indagine attraverso una madre seconda, né moda, né nodo di tutto questo.
È semmai semplicemente l’emersione dell’esattezza (imprescrittibile) da/in altri suoni da quelli della lingua madre. E notiamo: un testo può “compiersi” anche non includendo solo lingue altre, ma – il ’900 insegna – brani musicali, grafica, variazione della stessa forma-libro, inserzione di oggetti (pensiamo per l’ennesima volta agli esperimenti di Kolař, o all’opera-mondo di Pound). La poesia visiva è appena uno dei raggi di questa ruota. I suddetti non sono “strumenti”, come non lo è in sé la stessa lingua (madre), il codice primo (quando accade sia quello, ossia la scrittura in madrelingua, il primo). Sono i diversi luoghi entro cui l’indagare del segno sul segno oscilla interrogando sé, il mondo.
L’”uso” delle lingue altre può allora essere così disinvolto in molti autori degli anni recenti proprio perché non è un uso (come una parte del Novecento ha spesso inteso), un agire cioè di A su B attraverso C. Non esiste strumentalismo, dualismo, ruolo. Semmai, il parlare esperisce sé (cresce) entro una continua tematizzazione del proprio lavoro, che il linguaggio concreta in lingue e sovrapposizioni e segni moltiplicati.
L’impasto complessivo e complesso dato dall’esperienza degli anni recenti è formalizzazione – ma accesa, non quieta – di questo preciso “riflettere su sé” del segno linguistico moltiplicato nei segni in generale.
Un riflettersi che va semplicemente (almeno da chi scrive) esperito/agìto.
D’altro canto, un maestro (non il solo, forse però il maggiore) in ciò è stato e sarà Emilio Villa. Annotava, tra altri, Stelio Maria Martini: «ma Villa dovrà accorgersi che la lingua non è fungibile solo nell’uso delle singole parole, bensì anche rispetto a qualsiasi altro mezzo impiegabile nella pratica del sensibile. L’uso della lingua prima o poi porta ad aprire all’extraverbale, se non si desidera girare in tondo perpetuamente, cioè ripetersi all’infinito» (Scrittura totale, in «il verri», a.XLIII, n.7-8, nov. 1998, p.152).
La «pratica del sensibile» (l’estetica in sostanza, il non-campo dell’esperibile) ha tra i suoi fenomeni rubricabili la lingua, una lingua storica, “maggiore”, e tutte le infinite (anche impercettibili) variazioni e deviazioni da quella. Come i libri della biblioteca di Babele. Ogni testo poetico, ogni libro, è in fondo una nuova grammatica, più o meno percettibilmente deviante, più o meno avviata a essere altra lingua, minore all’interno di quella che appunto aveva preso come luogo (già poi smarginato, inafferrabile) di avvio.
domenica, 01 febbraio 2004 [link]
A fuoco è fuori fuoco
Riprendendo Estetica. Uno sguardo-attraverso, di Emilio Garroni.
L’esperienza ampia e indeterminabile del senso-non-senso, fatta attraverso particolari e determinati eventi, registra sé nei meccanismi che ne accumulano occasioni.
Più occasioni abbiamo, più (frequenti) occorrenze di esperienza del senso registriamo. Il moltiplicare le occasioni all’infinito, avvicina sé all’indeterminabile.
Quanto più le occasioni diventano x che tende a infinito (e si vede e vende come tendente a infinito), tanto più costeggiano quell’imponderabile che abita nella condizione di possibilità della facoltà di giudizio.
Dunque l’accumulo, puntando a infinito per statuto, è modello e descrizione – tendenzialmente – della stessa possibilità dell’emersione del senso.
Ecco spiegato come il prodotto contemporaneo non sia più (non possa nemmeno saper essere) finito.
Indefinizione e infinità allacciano rapporti. Siamo ancora nel campo del senso estetico moderno.
Sul prodotto (in)finito, esercitare nelle forme note un giudizio non è del tutto legittimo, essendo il suo sfondo un moltiplicatore di possibilità di essere altro da sé.
Il giudizio determinato sul prodotto infinito rischia di farsi inaccessibile perché il prodotto, proprio come infinito, non tanto è oggetto di giudizio, quanto si avvia a confondersi con l’iter mentale che realizza o addirittura fonda il giudicare.
Quando l’oggetto tende in via esplicita e per statuto a infinito (relativamente alla propria identità), tende parallelamente a risalire il giudicare. (Movimento che a sua volta si dà come modello del giudicare stesso, del giudicare anche solo possibile).