venerdì, 27 agosto 2004 [link]
L’incipit dei Cantos e quello dei Sonetti a Orfeo sono speculari e opposti. Nei Cantos un “noi” va e “scende” alle navi, ai ‘legni’. Nei Sonetti un albero ascende, “sale”, è il ‘canto’ stesso, Orfeo, un “puro trascendere”.
In Pound: la storia di tutti e di nessuno (non c’è soggetto grammaticalmente espresso: la prima parola è il temporale/atemporale “Then”), il viaggio, la materialità del viaggio, il precipitare verso l’acqua.
In Rilke: il raffinarsi della voce stessa, un soggetto assoluto che è Orfeo-canto, e l’ascesa ascesi verso l’aria, senza quasi materia (l’albero è segno, non cosa).
venerdì, 20 agosto 2004 [link]
Nell’azoto
Non mancano esempi recentissimi di eccellente critica testuale, di rigore filologico. Non so, pensiamo a Isella su Finisterre. Allora perché mai sulle riviste (chiamiamole così) ‘militanti’ la poesia contemporanea riceve attenzione solo improvvisata, veline a valanga? Plausi e botte ma senza indagine, citazione, osservazione minuta del testo. Perché tutto ‘all’impronta’? Tutti impressionisti a replicare narcisi e girasoli: e colonnine soddisfatte, i corrivi sottocorsivi. O semplicemente guizzano e si riproducono i regesti ‘tematici’. Molta finta flussione critica rampa e rampolla fuori da ex liceali imbarcati a spinte e calci dentro aule solo qualche metro più larghe. Che succede? Nessuno sa vedere se un testo ora riverito ‘rifà il verso’ agli anni Quaranta (del Novecento? o più indietro?)? Tutti i plagi e il kitsch e l’epigonismo sembrano godere di un grado di impunità che sfiora l’invisibilità, ‘o miracolo.
Come mai non c’è analisi serrata dei libri belli? (I brutti e laidi li lasciamo al silenzio). Per quale motivo mancano sensate indagini su isotopie e metrica dei nuovissimi autori, comparazioni di lessici? Niente da dire sulla ‘retorica dei laici’ versi? Che requiesca pacifico lo strutturalismo; ma pare che grammatica e sintassi siano pianeti spenti. Se potete, prendete il file word di una rivista che ovviamente non sia «il verri» e «Testuale» (meritori e non unici) e provate a cercare [control+shift+T] le parole «ipotassi» o «paratassi» ma anche i nomi dei tempi dei verbi. Qualcuno li nomina? «Nominare»?
Si leggono in periodici quotati & accigliati colonne intere di recensioni capaci di non citare una sola parola (non dico un verso, due versi, un titolo di sezione) dell’opera che dicono di star affrontando. Sembra che i libri non siano fatti di verbi, nomi, complementi, proposizioni, rapporti tra queste. Al centro del saggio, al posto dell’oggetto, ecco l’idea che l’elzevirista ha dell’oggetto. Ma di cosa è fatto questo libro? Quali materiali lo formano? Disposti come? Cosa è vivo e cosa no? Mistero. Insomma. È come comprare una ricca coppa di gelato e uscire felici mangiando lo scontrino e i tovaglioli.
C’è stato un periodo in cui le parole erano interrogate. Faceva anzi piacere agli scrittori che nascessero esegesi puntuali, interpretazioni, a volte conflitto, conoscenza per attrito.
Impossibile sia tutto dietro il cartone che si vede innalzato in giro. Non si può pensare che si tratti di malafede onniestesa. Dov’è il trucco? Ragazzi, venite fuori… Dev’esserci un’altra ragione, poi, accanto alla protervia. Alleata alla protervia. Già. Ci si domanda: ma l’economia esiste davvero? Barrare una delle tre caselle. Sì; no; non so.
Se avete barrato sì, continuate a leggere.
L’analisi costa. La filologia è maledettamente impegnativa. La classe intellettuale, grazie all’opera sagace di recenti ministeri, o è demolita oppure è ricattata e poi demolita lo stesso. E comunque:
Aspirare a un dottorato è insania piena, roba da curare con l’elettroshock. Cercare un assegno di post-dottorato non sembra mira più savia. Accettare una ‘cattedra a contratto’ (quand’anche venga effata dalle Autorità Logofore) è uno sport di lusso, il salto dei pasti con 24 avvitamenti finali e riverenza iocundissima. I gradi successivi della carriera accademica competono poi alle truppe di esseri che stanno (avete notato?) sostituendosi alla specie umana.
Non c’è e forse non ci sarà una filologia per la poesia contemporanea, perché costa. La selezione di classe è rigidissima. Altro che «a room»; qui è imprescindibile «a loft & cadillac of one’s own». E: non si danno ‘partiti di opposizione’ a questo stato di cose. (Partiti? Opposizione? Presto! un vocabolario!).
I dolenti docenti delendi che imbambolati congegnano convegni sul callifugo Carducci e passano le acque in loop nell’anno sabbatico sono giusto con un piede e mezzo nella fossa. Perituri. Gli organismi mutanti che in loro hanno da tempo deposto le uova, e di cui già si vedono scintillare i gagliardi molari molati, hanno interesse ad altro. Altri loghi.
Cosa saranno le facoltà universitarie tra vent’anni? Piano bar? Magari. Sale di proiezione endopsichica? Megaciclamini ayurvedici con la cupolotta in plexiglass? Microchip? Solo il potere non cambia né cambierà, si direbbe.
È la situazione ideale per scrivere, questa, diciamocelo. Si può fare sul serio. Il rigore del lavoro di ricerca può crescere, in un ambiente così ostile, invaso di azoto.
Chi resiste adesso, non essendo un mutante, un alieno-killer, ha qualche merito. Resta da vedere se rimarrà una storiografia o futura critica capace di prendere atto di questa resistenza.
Facilmente no.
(O no?)
[ Sul tema, vedi anche: Massimo Sannelli, Shelter from the Storm. Frammento di politica ]
domenica, 15 agosto 2004 [link]
Il freddo e il caldo
Nel 1944, quando Alfonso Gatto pubblica La spiaggia dei poveri1, esiste ancora quell’Italia contadina e ferocemente ingenua che nel giro di due-tre decenni di attività politica e di distruttivo “miracolo economico” sarà spazzata via, incenerita. Per sopravvivere solo in forma di museo.
Roberto Roversi, intervistato nel 1990:
«Il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo… dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina. In brevissimo tempo fu spazzato via, al riparo di una indifferenza quasi generale, un mondo che rappresentava l’unica montagna contro l’invadenza del nuovo capitalismo. Arraffone spietato e cialtrone. Non ci fu pietà per nessuno. Alla fine restarono solo le ruote dei carri, gli alari dei camini e i gioghi dei buoi appesi nei musei-cimiteri allestiti in fretta per raccogliere le spoglie ramazzate sul campo di battaglia. Anche qualche scodella di latta. E il filatoio della nonna. Sembrava un film di Ford, con il settimo cavalleria, quando gli eroi superstiti si aggiravano fra i morti indiani e fra i carri che ancora bruciavano… dentro l’enorme pianura secca e senza alberi… Chi vince e opprime con la prepotenza versa sempre, dopo i genocidi, queste lacrime di coccodrillo. Tutto sta a non lasciarsi incastrare, almeno nei sentimenti.
«“La raccolta del fieno” è già, per me, una piccola personale finestra aperta, direttamente, su quel mondo che cercherò in seguito di intendere ancora meglio e di partecipare con più coordinazione in “Dopo Campoformio”. Era una scelta, sia di campo che di vita […] Partecipare con chi era calpestato, che è molto di più che essere oppresso. L’oppressione è politica, coinvolge la società intera, presuppone un nemico con gli occhi di brace che tu vedi e affronti, secondo la norma… mentre un piede sul collo lo sente il singolo come se avesse per sé solo il peso del mondo addosso, senza poter contare su qualcuno. Io, per me, facevo conto e cercavo di fare conto, esclusivamente delle cose e dei fatti che vedevo. Per esempio, sembrava sul serio di poter ascoltare durante la notte, a notte fonda, attraverso le finestre socchiuse, il passaggio dei carri, nella trasumanza dal sud al nord, di questo popolo di migratori senza terra, spinto a risalire lo stivale per cercare lavoro. Non cento, non mille, non centomila ma milioni di persone che camminavano i mille chilometri per entrare in periferie ossessive, in dormitori da quarto mondo… Durante il giorno avevo in testa perfino il suono di questo passaggio, un battere di gavette contro le stanghe dei carri che passavano. E questa migrazione epocale stabiliva anche la fine di una civiltà dentro alla quale anch’io ero nato qua in Emilia e che non si sarebbe più ricomposta. Così addio anche all’Emilia, non verso Milano ma verso Ferrara; il grande paesaggio padano spolpato ogni giorno di qualcosa; masticato, aggredito, vomitato, sconciato, sopraffatto; macchina fredda di ferro per produrre soldi, senza più acque e cielo. … Questi pellegrini così inermi e sbandati erano poi sottoposti a qualsiasi ricatto sociale. Unico atto immediato, venivano risucchiati in fabbrica. Ingoiati alla mattina risputati alla sera»2
Quando Edoardo Sanguineti colloca Laborintus all’interno dell’intenzione di «fare dell’avanguardia un’arte da museo», chiaramente arriva in ritardo su quell’operazione di distruzione, incendio e successiva museificazione – di ben diversa entità ma anche maggiore gravità (ed estensione anche linguistica) – che Roversi precisamente descrive.
Prima della collocazione di Duchamp tra le salme da esposizione (gabbia per altro assai stretta) e i materiali da costruzione, ben altri oggetti e linguaggi diversi e di comune uso erano stati arsi – e le loro spoglie affisse nelle teche, a disposizione dell’antropologia. (Senza considerare quel che mafia e neocapitalismo stavano alacremente costruendo e decostruendo, al sud come al nord).
E tuttavia non può avere ragione chi dice che un confronto con la distruzione delle forme, con l’espressionismo astratto (tutta l’avanguardia europea e americana), negli anni Cinquanta e Sessanta, avrebbe dovuto o potuto trovare solo vie diverse da quelle dei Novissimi. Le altre vie, anche violentemente individuali (‘separate’), erano esse stesse non troppo distanti da quelli. (Si può anche pensare a Emilio Villa, Amelia Rosselli, Edoardo Cacciatore).
Dunque non aveva torto Sanguineti nel 1961 a dire (tacendo il suo obiettivo, che chiaramente era Pasolini) che «negli anni ’50, chi voleva gettarsi con felice ottimismo su un terreno “costruttivo”, rifiutando le vie dell’informale» rischiava di scambiare «per soluzione “progressiva” la regressione verso il decadentismo, scavalcando à rebours il terreno “franco” dell’avanguardia europea»3 o – che è l’identico – rifiutandosi di attraversarlo.
Questo per suggerire che, ‘a informale attraversato’ (e in realtà sempre attraversabile, e sempre codice aperto), sia Pasolini sia Sanguineti sono chiavi utili?
Riprendiamo il filo del ‘pretesto’ Alfonso Gatto.
Nel ’44, s’è detto, esisteva ancora quella Italia di “spiagge dei poveri” su cui sembrava che solo un lirismo stanco si esercitasse (e non, anche, un discorso a modo suo obiettivo). Nel giro di pochi anni tutto viene raschiato via. I poveri non mutano condizione, ma non hanno più l’orto accanto alla baracca. Viaggiano per ore verso la città, per nutrire chi li inchioda. È evidente che su una realtà in bilico tra pianto pre e post-industriale, la prosa lirica e i bozzetti di Gatto appaiano (ora) tracce di referti su quanto scompare. Mentre poco dopo la loro stesura (agli occhi – che so – di chi inizi a scrivere Laborintus già a ridosso del 1951) spiccavano principalmente i caratteri, intollerabili, di anacronismo – di elegia.
A metà degli anni Cinquanta, poi, gli scrittori di «Officina» tentano – sperimentando con quel che resta delle retoriche d’anteguerra e degli anni Quaranta – di dare regesto del disastro avvenuto, il conflitto mondiale, e di quello in corso, la «trasformazione antropologica». Due collassi visti come ‘esterni’ e ‘obiettivi’: il precipitare di una pietra storica.
(La neoavanguardia, con altri strumenti e per altre vie, avvertiva per prima – forse – la pietra psichica).
Gli autori di «Officina» scontano i tre vizi della lirica italiana, dunque: 1, l’attrazione per il realismo (ma virato verso) 2, la prosa d’arte di eredità ermetica (condannata da accentuati debiti verso) 3, Pascoli.
Allo stesso tempo, nonostante ed anzi entro questi limiti, «Officina» è il luogo di incubazione – direi – del Pasolini saggista e regista; e del Roversi de I diecimila cavalli. Del Fortini de I cani del Sinai (poi film di Straub e Huillet).
Ma è necessario spostarsi oltre le note su questi autori: note che non vogliono ‘giustificare’ le scelte di stile, ma nemmeno spiegarle.
C’è semmai una riflessione da fare sul campo di ‘riduzione dell’umano’ che la neoavanguardia sa osservare e denunciare – ma di cui pure (e ambiguamente, per dichiarato statuto) vive. Dissociazione e schizofrenia, essendo i loro riflessi disattesi dalla lingua pasoliniana, trovano casa nell’avanguardia. E presto la parola non-mimetica si fa strada sulle pagine importanti, per l’Italia, di una rivista come «Anterem», che nasce nel 1976.
Di qui uno ‘schemino’?
Neoavanguardia – banda stretta/fredda: esatta ma crudele, antiumana talvolta (più che ragionevolmente antiumanistica) – Postmodernismo (critico) VERSUS «Officina»: banda larga/calda: inesatta ma ‘umana’, ingenua e fuori tempo talvolta (più che scientemente ‘arcaizzante’) – Tardo modernismo (critico)
? ? ?
A non essere accettabile, trascorsi i primi anni di un secolo “addirittura XXI”, è precisamente questo ‘dualismo’. (Eppure: alcuni mesi fa un convegno tra tanti lo riproponeva. E: tuttora è, va ammesso, un possibile, non unico ma possibile, strumento di conoscenza).
Già Massimo Sannelli, in un intervento su «Smerilliana» (n.3, febbraio 2004), fa i conti con un certo modo di ragionare per codici binari, prassi all’apparenza ineliminabile da una certa mentalità letteraria italiana. E sembra che tuttora, attraverso le eredità della ‘coppia storica’ (storicamente in conflitto) Parola innamorata / Scrittura materialistica, diversi sciami di microconflitti covino in una comunità letteraria che, a specchio delle correnti del golfo della sinistra.it, va scindendosi in piena schizomania.
La questione dei conflitti, spesso miserevoli, interni alla comunità degli scrittori italiani, se è interminabile, è anche noiosa; e intralcia spesso il lavoro di chi, sperimentando e volendo semplicemente mettere in comune conoscenze, acquisizioni, scritture, laboratorio, ricerca, si vede interdetto da deviazioni forzate, highways & sottopassi diplomatici, precedenze da rispettare, botole, bon ton di sapore baronale, e via e via. La situazione si trascina nel ridicolo.
Anche perché altre tradizioni letterarie hanno affrontato – e risolto in testi di fatto – queste stesse questioni (e la stessa poesia italiana; tanto che molti autori delle ultime generazioni prenderanno questo intero scritto come un rovistare puerilmente il fondo vuoto di una conserva scaduta).
Penso ai versi di John Ashbery, al suo ego poetico circondato da ritagli di giornale, post-it, cattive informazioni, ‘risultati parziali’, assemblati insieme con una coscienza fluttuante che assume la propria provvisorietà non solo come stiletto per attraversare i materiali, ma come strategia metapoetica. Il provvisorio che descrive il provvisorio.
O a Robin Robertson, Charles Simic, Simon Armitage.
O a Thomas Pynchon (per la prosa). Leggiamo una parte della postfazione di R.Cagliero a Entropia: «l’alternativa sta nello scegliere tra la creazione (modernista) di un’identità, ricucita attraverso il tessuto di altri testi, e l’accettazione (postmodernista) della precarietà di quell’identità – e dunque in un’affermazione della frammentarietà e del dubbio come modelli della conoscenza»4. In realtà, suggerisce Cagliero, Pynchon non ‘sceglie’, bensì lavora – nei suoi pastiches – in entrambe le direzioni.
Che mi sembra una buona indicazione di prassi. Identità ricucita da altri testi + dubbio sulla stessa (ma uso di questo dubbio come ulteriore strumento di indagine).
_________________________
1 Ed. Rosa e Ballo, Milano. Rist.: Ripostes, Firenze 1996.
2 Gianni D’Elia (a c. di), Conversazione in atto, intervista a R.Roversi, in «lengua», n.10, luglio 1990, pp.39-40.
3 I Novissimi, cfr. la nuova edizione Einaudi, Torino 2003, p.204.
4 Roberto Cagliero, Thomas Pynchon e le integrazioni segrete, postfazione a T.Pynchon, Entropia, cit., p.246.
domenica, 08 agosto 2004 [link]
Si può scrivere in (altra) prosa
Circa un quarto di secolo fa Ivos Margoni e Cesare Colletta scrivono il saggio Sull’oscurità delle «Illuminazioni» (in A.Rimbaud, Illuminazioni, Rizzoli, Milano 1981), codificando esemplarmente la lettura di una delle opere ‘fondative’ del Moderno, ed inquadrandone il valore. Fissano l’attenzione su un’oscurità che non è «di tipo enigmistico», tale cioè che «una chiave di lettura [ne] decripti» senza ombre il significato definito e pre-scritto «palesando il senso recondito». Il libro delle Illuminations porta «bensì il peculiare spessore semantico di un’opera volutamente eccedente nei significati potenziali e che fa di questa eccedenza il proprio centro» (Op.cit., p.23).
Nel 1981 il percorso di una linea di scrittura enigmatica in Italia e in Francia è ancora in fervore. Linee (ma spesso esauste) raggiungono i nostri anni.
Tuttavia è non meno vero che negli anni Novanta tornano a rotolare pietre anzi sciami e presto valanghe di ‘narratività’ imposta-ritrovata-risanata, e di ‘trama’, ‘chiarezza’, e resuscitato romanzo (spesso: feuilleton in frac da Letteratura).
Che l’arte della prosa, senza essere prosa d’arte, possa evitarsi però di commerciare con il mondo nel linguaggio (tutto-schiavo) del mondo, lo pensava Amelia Rosselli nel 1954 già con le acquisizioni delle Prime Prose Italiane: e vedine poi il Diario Ottuso (del 1968).
Questa linea di scrittura in prosa, antilirica e razionale ma non arida e ‘algebrica’, non oulipiana, non ha sempre interlocutori francesi, e certo non ne ha che rarissimi in Italia.
domenica, 01 agosto 2004 [link]
D’altro canto: «se l’opera è riuscita, ha lo strano potere di insegnarsi da sé» (Merleau-Ponty)
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Quanto dista?
Uno dei problemi della letteratura consiste in questo: che ci si mette sempre a portata di voce. Per futili (=insuperabili) ragioni.
Così la raggiungibilità dell’autore sembra mimare una raggiungibilità della sua scrittura, o perfino (che è peggio) dello scrivere in generale.
Dunque l’auctor (che fa sul serio) felicemente dovrà volere e fabbricare pagine – e sé – come sogni: come sono i sogni: perentori e astratti.