mercoledì, 04 maggio 2005 [link]
Freddezza e persistenza del senso
[ intervento su «L’Almanacco del Ramo d’Oro»,
a. II, n.5/6, nov.-dic.2004, pp.57-60. Ora anche
su Italianistica OnLine ]
1.
Una permanenza e persistenza di senso, nella forma di senso-non-senso, ossia come eco familiare dell’enigma che chiamiamo ‘oggetto estetico’, può attuarsi ancora attraverso strumenti retorici e tematici che il Novecento ha variato e rinnovato, non raso al suolo.
La visione di una Storia che avanza come macchina e incendia le proprie orme è eredità di quel positivismo che giusto il XX secolo ha fatto saltare. La realtà del gliommero gaddiano, dei labirinti di Joyce, del tempo recursivo in Kafka, dei compiti incompìbili dei personaggi di Bernhard, dei sogni concentrici di Borges e Cortàzar, dei tagli immedicabili e sempre medicati nelle scene di Beckett, non fanno altro che disegnare un modello di quel che la percezione (l’esperire) opera già normalmente in ciascuno di noi. Almeno nella variante dell’anthropos che sembra comparsa sul pianeta nell’arco di tempo delle ‘rivoluzioni originarie’ della modernità.
[Ossia: la rivoluzione industriale e la rivoluzione filosofica (Kant, Critica della facoltà di giudizio, 1790): che ricevono prestissimo unione e sigillo, traduzione, ‘attuazione’ anzi addirittura tematizzazione in meccanismo, in virtù di un evento ‘enorme’, una callidissima inventio: la fotografia, 1839]
2.
Lungo l’intero arco del secolo XX, l’arte – anche in qualità di forma possibile di conoscenza – ha esibito o sondato inquietanti e coerenti/utili modelli di indagine e relazione con la materia e la percezione, insomma con il reale. Diffratte nei prismi delle opere, le cose si scoprono meno ‘semplici’, meno immediatamente e sommariamente ‘gestibili’, commerciabili. Si avvicinano cioè, come immagini, a quanto di fatto già sono: complessità, tessuto-testo ulteriore.
La violenza, l’economia di puro profitto, il potere politico, lo Spettacolo, hanno al contrario rispettato – e imposto – ben diversi modelli di realtà, di azione, rodati da millenni di sfruttamento impunito. Per esempio quel dualismo radicale di mondo e lettura del mondo che assomiglia non poco alla nuda e semplice separazione – puerilmente data per insanabile – del senso dal non-senso. Come se il reale si costituisse e nominasse solo per scacchiere.
Appunto al persistere del senso, ma nella forma complessa e sempre interrogativa opaca e inafferrabile del senso-non-senso, alludono moltissime scritture recenti: ciascuna nella propria specifica prassi. Si tratta di pagine che, come puntatori, vettori – e mai semplici ‘oggetti’ – sanno fare saggio scialo e gioco e uso delle molte ricchezze del Novecento.
Una simile chiave di lettura permette di indagare eventi tanto diffusi quanto – altrimenti – inspiegabili. Ad esempio il ritorno e la coesistenza – talvolta in uno stesso autore – di tensioni di ricerca, di classicismo, di poesia ludica, di scrittura ‘al grado zero’, di narrazione, di lirica; in un tempo che – secondo uno storicismo ingenuo – dovrebbe al contrario aver smarrito e ‘superato’ simili modi di inabissamento au fond de l’inconnu.
Tra questi è ben visibile un rinnovarsi della scrittura – e modalità di conoscenza – fredda.
3.
Una (nuova?) freddezza è percettibile in esperimenti di autori contemporanei giovani e non giovani. Senza dare al termine un connotato negativo. Al contrario. Ci sono lavori di maestri alla radice dell’ipotesi: la scrittura metaforica-metamorfica di Valerio Magrelli; le intermittenze di autoanalisi, e riferimenti ipercolti, di un autore come Giuliano Gramigna (si veda il notevole Quello che resta, Mondadori, 2003); il controllo assoluto del testo – anche nel muovere dichiarazioni addirittura ‘politiche’ e civili – attuato da Franco Buffoni; lo sguardo distaccato che viene dai ritratti a penna di Valentino Zeichen; ma pensiamo alla ricerca (al vasto laboratorio) di Amelia Rosselli, Nanni Cagnone, Giuliano Mesa (specie nei Quattro quaderni, Ed. Zona, 2000).
Si tratta di una scrittura capace di semantizzare le aree fredde della sintassi, le singole unità grammaticali, l’inusualità delle situazioni fotografiche catturate.
È area o àmbito di ricerca in cui non tutti gli autori nominati (o non in ogni parte del loro lavoro) possono riconoscersi. Ma si direbbe innegabile il loro influsso sull’esistenza e sul diffondersi positivo, recente, di opere orientate al freddo, con forti basi di ossessione dell’osservazione (referto, scatto b/n da morgue, o accensione cromatica) che può nascere tanto da scelte e studio rigorosi, al limite dell’ascesi, quanto – per ossimoro – dall’incandescenza di storie individuali, oppressione, lutto. Dalle linee della tradizione della ‘misura’ (Beckett, Ponge, e gli autori del segno) e da quelle indiscutibilmente ‘debordanti’ (beat, Burroughs, Artaud): questo, dovendo elencare sommariamente filiazioni solo letterarie.
Ma è un errore: si dovrebbe semmai – o in parallelo – indagare nella direzione della musica, nel jazz, nella fotografia e negli oltraggi di Matthew Barney, di Nan Goldin, fino al gelo puro di Boltanski, agli interni ostili di Luisa Lambri, di Alessandra Tesi, ai set di David Lynch.
4.
Quali i nomi? Mi limito solo ad alcune delle numerose e interessanti voci femminili: Giovanna Frene, Elisa Biagini, Florinda Fusco, S/z Mary, Sara Ventroni, Paola Zallio, Francesca Genti, Alessandra Greco, Laura Pugno.
Non c’è forse una prossimità spiccata (come in fotografia diresti tra Lambri e Tesi) fra le pagine di Biagini e quelle di Pugno e Fusco? Non parlano un linguaggio simile, i corpi esposti nel freddo/bianco autoptico della pagina? E nel calore (ancora bianco, assoluto) che nei loro testi sillaba rapporti, sesso, cibo, dolore?
Ha o non ha senso leggere L’ospite, di Biagini, il poemetto Spostamento, di Giovanna Frene, o i racconti di Sleepwalking, di Pugno, avvertendo il medesimo ronzio albino ostile sottile e penetrante (necessario come un nuovo lessico), che viene dagli spazi cavi limpidi – o ‘sparati’ in cybachrome – di Lambri e Tesi?
Se questa traccia minima di ipotesi di lettura è pertinente, è desiderabile che la critica letteraria inizi o riprenda a progettare studi in grado di legare con decisione i linguaggi della poesia e delle arti contemporanee. Se la poesia – ma la letteratura in generale – ha uno spazio di ascolto e incidenza ristrettissimo, ciò è in parte dovuto anche al sonno in cui è caduta precisamente la critica (non solo quella letteraria). Non è fuori luogo pensare che solo da un suo accrescimento drastico possa venire una (ri)costruzione di ruolo incisivo – ovviamente sul piano gnoseologico – della ricerca artistica.
All’opposto, ogni diverso strumento di indagine, creativo come analitico, ogni linguaggio che ceda alla deriva semplificatoria che profitto, potere e spettacolo chiedono, accentua la debolezza (genetica, ineliminabile) della parola articolata, e rende in più volgare e straordinariamente falso e dilettantesco ogni percorso che senza mai revocarsi in dubbio pretenda di lavorare su un piano di alta formalizzazione linguistica: ossia, in definitiva, sul piano letterario ampio: critico e creativo.
lunedì, 02 maggio 2005 [link]
Mi scuso con chi non ha (ancora) ricevuto Double click. Ne ho alcune copie, nei prossimi giorni saranno inviate.
Due importanti lezioni di laicismo, con proposte che meriterebbero seri
interlocutori politici, vengono da Franco Buffoni : link a Nazione Indiana :
http://www.nazioneindiana.com/archives/001161.html#more
http://www.nazioneindiana.com/archives/001163.html#more
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Una nota di lavoro, 2004
[pensata per i coordinatori del progetto ‘Klandestini’]
Ho scritto Double click tra 2001 e 2002, ma solo negli ultimi due anni ho potuto mettere a fuoco con precisione alcuni testi che lo formano, e percepire le linee del libretto, sentirlo – diciamo così – risolto. In questo è stato assai utile il fatto di legare la sua architettura (la progettazione della struttura, e la scelta di cosa accogliere e cosa no) al pensiero dei temi di fondo di «Klandestini».
L’esperimento ampio che vado seguendo dal 1996 è quello di Delle restrizioni: una opera-di-opere, ancora in scrittura, che di fatto mi impegna da (e mi impegnerà per) parecchi anni. Lateralmente rispetto a questo percorso maggiore, si creano talvolta degli spazi e testi-identità a cui mi lego, e che posso facilmente sentire in grado – più di qualsiasi altra pagina – di portare e trasmettere il segno della ricerca generale che in altre opere vado svolgendo.
Double click ha tale caratteristica. E si connette quindi a Shelter, serie ancora inedita di poesie dedicate al ‘riparo’, al luogo di difesa dal dolore e però di prigionia, alla chiusura in ospedali, recinzioni, spazi bianchi. Vorrei dire che Double click e Shelter formano idealmente un dittico, di cui il primo testo offre la dimensione dell’ampiezza, orizzontale, e il secondo la dimensione della profondità, verticale. Il primo è dedicato alla città, ai luoghi della violenza, al viaggio imposto, all’ingiustizia del tempo sequestrato. Il secondo è invece centrato su figure specifiche, singoli ritratti di malattie circoscritte, casi, individui feriti.
*
Nato come voce anarchica, a suo modo perfino ‘politicamente connotata’ (ironia nel sottotitolo: «Addressed to English Crowds»), Double click ha forse il pregio di tenere insieme più fili del tessuto generale di tutte le scritture che nel tempo mi impegnano:
– il tema della doppiezza delle percezioni (impossibile percepire oggetti se non raddoppiandoli, moltiplicandoli: in specchi progressivi: è poi la logica che presiede al doppio click che fa funzionare i mouse che normalmente usiamo);
– il tema del dolore e della fuga e viaggio, dell’abbandono e del disfarsi delle cose, dei rapporti umani, soprattutto dei rapporti con i luoghi, che si dissolvono prima nel tracciato biografico (dover lasciare un’abitazione, non poter contare su alcune persone care, non avere sostegno economico) e poi in quello memoriale (iniziare a dimenticare una casa d’origine, e a esserne dimenticato);
– il tema della violenza, di una certa quantità di energia resistente, come indispensabile per non soccombere;
– il tema dei supporti o strumenti (fotocopie, immagini virtuali, specchi, fotografie) che si imprimono e si cancellano; che aiutano e fermano e smentiscono e tradiscono i gesti della memoria.
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L’ultimo testo della raccolta, Dentro il peso del mondo, è una sequenza onirica in parte dettata dall’immagine della morte di Pasolini. Chiusa com’è tra una citazione da Char e una da Ashbery, la raccolta Double click ha necessariamente a che vedere con il peso del reale: non con il realismo però. Semmai con l’identità originariamente deformante dello sguardo. Del suo doppio tocco sulle cose.
domenica, 01 maggio 2005 [link]
Massimo Sannelli
Lettera su Double click (da www.microcritica.splinder.com, 29-5-2005)
caro Marco, non avrei mai pensato ad una lettera in forma di saggio, come le lettere – bellissime – di Gio Ferri o quella (un capolavoro) di Marzio Pieri in coda all’antologia ákusma, ma per Double click[1] faccio un’eccezione (alla regola; e a me!). Il microcritico e la microcritica potrebbero essere accusati di lavorare per amicizia: allora ho pensato di dichiarare sùbito l’amicizia e di scrivere una lettera, che sarà pubblica. E non voglio avere un filo logico. Non voglio essere ‘intelligente’; né ideologo. Non voglio preludere a nulla. Ti scrivo da quello che dovrebbe essere, se Dio vuole, il penultimo giorno di lavoro, e l’ultimo pomeriggio, di lavoro nell’Azienda – qui non vorrei nominarla – prima di rientrare a tempo pieno nell’Università. E così voglio: lì si portano i panni curiali, qui si sentono i dipendenti – metà operai metà impiegati – dire “schizzo!”, con accenti genovesi pesanti. Tra i curiali, anche se “di sinistra”, non c’è molta comprensione per questo tipo di lavoro: per loro si vive cresce muore all’interno dell’Accademia, e se io ne sono fuori è un limite – io stesso sono a me un limite. Nell’Azienda gli uomini ostentano la propria virilità, e ne soffro; la frase “sono ignorante” è pronunciata con dignità, quasi con orgoglio. Qui si incontra bene il popolo, ed è una delusione vederlo non o pochissimo ‘popolare’; anzi feroce, contro altri pezzi di popolo. Il denaro è un veleno e lottare per averlo è un dramma e una rovina: in questo siamo tutti uguali, contemporaneamente homines e lupi. Quasi tutto il tempo è dedicato alla sopravvivenza: tu lo sai bene, e scrivi che “Quaranta minuti non sono molti / per l’immortalità dell’anima prima / del lavoro” (p. 20; dopo i primi tre versi, che costituiscono una strofa, ed è un’isola di sensi sull’immortalità dell’anima, appaiono molti versi sul molto che manca e il poco che c’è, e che non è sacro). Infatti la precarietà di “atipico” del figlio di p. 22[2] è tua, mia, di quasi tutti: e questa precarietà aspetta, dal punto di vista della critica letteraria, una contestualizzazione seria. Qual è il rapporto – se esiste – tra l’insicurezza biologica e gli stili? Ipotizzo che questo rapporto esista[3]; e che produca più chiusura intra moenia che apertura, più rapporto con la musica e il dolore che con la cronaca e la prosa prosaica. Eppure il linguaggio ‘duro’ non è una fuga: qui sta il gioco. E qui sta, per te, un itinerario mistico (pensa all’etimologia di mistica): “ha una curvatura ovvero non / inizia, non è iniziato, non / c’è – dice – / creazione, ma solo l’arco – ripreso / daccapo e più // piegato critico a sguardo / chiusa, cripta / che alla fine fonda, lo fonda, eppure o perciò / non rimargina” (p. 23). Mark Strand, che hai studiato bene, scrive: “I have a key / so I open the door and walk in. / It is dark and I walk in. / It is darker and I walk in” (Seven Poems). Hai scritto un libro che ha una sua voce particolare, e che contrasta con la levità fonico-ritmica di Curvature e del Segno meno. Per te, come per me, il Medioevo è un punto di riferimento forte (per me, addirittura, è una specie di scenario su cui si proietta tutto o quasi il non-Medioevo); e nel Medioevo la scrittura è anche, automaticamente, un’interpretazione dei fatti da dire: a un tipo di fatto corrisponde un tipo di dire. Ogni enunciato sta in una Tradizione e in una Metalingua, esplicita o implicita. Se “mai non vo’ più cantar” come ero solito, è perché il mio rapporto con Amore cambia; e se Amore sono io, per il mio sentimento – il cap. XXV della Vita Nova docet, insegnerà sempre – ‘io’ sono la radice delle lingue letterarie che sperimenterò. Potrò costruire piccoli sistemi, che sono analisi e descrizioni della realtà: “(Voce che dice di mancare)” (p. 15). Quindi testi, ma poi libri, ovvero descrizioni. Da un altro maestro, che non a caso compare in Double click, impariamo che la recensione di un libro è la descrizione di una descrizione. Non alludo per caso a Pasolini. L’ultima riga del tuo testo è per lui: in nota, a p. 46, scrivi che le due poesie conclusive “chiudono la figura – che l’intero Double click sottintende e non ‘svolge’ – del viaggio, sullo sfocarsi dell’immagine (su tutte) della morte di Pasolini”. Perché Pasolini è importante? E’ importante perché ha avuto un cuore, prima di tutto, e non un muscolo. Sai a chi mi riferisco. Ma per noi, per l’anno 2005, i testi delle Ceneri di Gramsci o di Poesia in forma di rosa non sono più così fondamentali. Lo sono altri testi, invece: per me, e credo anche per te, Trasumanar e organizzar (anche dal punto di vista delle soluzioni formali) e quella costellazione di inediti o semiediti (le poesie per Medea, ad esempio) che testimoniano che qualcosa stava accadendo, nel senso del nuovo: proprio nel momento in cui l’autore capiva che il mondo non lo voleva più. La morte di Pasolini è commovente; ma a me sembra sempre uno scandalo intellettuale: nel senso che è difficile capirla, e chiede di essere capìta; e nel senso che è una specie di performance totale, che aspetta ancora la sua ermeneutica (che non dovrà essere né completamente giudiziaria, né completamente metapoetica; né agiografica). C’è stata una ‘poesia’ di Pelosi? Proprio nel momento in cui forse obbediva ai Poteri o, inconsapevolmente, agiva anche a loro vantaggio, meritandone la copertura? Forse sì. E questo omicidio è un testo, non a caso preceduto da autoprofezie. Uomini e donne come Pasolini non hanno né idee né veri e propri progetti: i progetti sono concepiti e abbandonati, e a volte realizzati; ma questi autori non credono, letteralmente, in nulla, e non sperano nulla. Sono pieni e vuoti. Solo la carità li seduce, e di carità muoiono. “Replicano, riapplicano” (p. 18). In effetti la descrizione è un argomento fondamentale, quanto i sensi e la lingua. “Vieni a vedere il / vedere” (p. 16) è quasi un motto logico, e (apparentemente) tautologico. E che cosa si veda è importante, e la stessa poesia che inizia, significativamente, con Double click, lo descrive e lo testimonia: una violenza che ha come origine la violenza, come risultato la violenza, come sviluppo la violenza. Ci sono argomenti che possono essere trattati solo anaforicamente e martellando: l’ho fatto ora, e lo fa Florinda Fusco nell’ultimo capoverso della sua postfazione, dove dice (e martella, giustamente): “Violento è il non ascolto. Violento è il muto controllo socio-politico su tutto. I ritmi imposti. Violenta è l’inarrestabile compravendita di oggetti e persone, il trading divenuto tradizione. Violenta è la perenne lotta per il possesso…”). Ci sono argomenti, dunque, che ‘invocano’ l’enfasi: l’enfasi stessa è, da un lato, una bestia nera, e, dall’altro, un modo come un altro. Dunque “l’ombra è coperta dalla propria ombra” (p. 18). E anche i testi sono ombre, concrezioni ad altissima tensione, con versi-massa, plurilinguistici, oppure direttamente in inglese, se è vero che tutto il libro è “addressed to English Crowds”. L’inglese è una lingua neoimperiale (ricordo un’intervista in cui Boff si rifiutava di parlarlo, in quanto tale; mi dispiace di non poterla citare con più precisione). Nella lingua in cui si uccide si ricordano gli uccisi, come a p. 33: “Consider that enormous stack of shells’ / ashes […]. / Billions of bodies – kids women men – down / eyeless”. L’epigrafe di Char, all’inizio, è un marchio, che ‘segna’, se il lettore è sensibile, tutta la comprensione che verrà. Il reale è devastato ma l’irreale (gli ideali? le virtù? sì, forse proprio le virtù) è intatto. Una situazione alternativa costituisce un desiderio, da appagare: “Essere lontani dalla realtà, in riva al mare, per esempio” (p. 29; interessante, tra l’altro, la non-realtà del mare: un’altra allusione a Pasolini, al suo volersi ritrovare sul mare-madre, come in Una disperata vitalità?). E di questa sopravvivenza dell’irreale si soffre, immancabilmente. Auschwitz, e le sue infinite repliche, uccidono uomini, ma non la humanitas. I segni e i sensi possono continuare – ma lo scandalo è qui. Dover ancora vedere pensare parlare – e farlo con tanta precisione da poter produrre anche metavisione metapensiero metalinguaggio –: è questo che forma la speranza, ma anche il dramma. Edipo avrebbe preferito non sapere… Eppure non si uccide. La vista scompare, ma la storia è nota. Esiste, ed esisterà con forza, un nuovo filisteismo contro il quale non varranno le reazioni satiriche di Heine. La prima obiezione filistea sarà: “Non si capisce”; la seconda: “La poesia non deve essere un muro, ma una porta”; la terza: “La poesia è fatta di cose poetiche”; la quarta: “La poesia deve essere per tutti”. Non si può rispondere: chi non capisce non può. E tu conosci bene questa disperazione, l’hai provata, ne abbiamo parlato e scritto, pubblicamente e no. Per capire servono una chiave (quella di Strand nel dark) e molta carità. Ma anche così non si capirà mai del tutto; soprattutto se si identifica la comprensione con il controllo (del testo)… Ho paura, lo sai, di quella finta ingenuità che cerca cose chiare nei testi e in tutto, e reclama la Ragione. Il fatto è che le famose “radici cristiane dell’Europa”, ad esempio, non sono un patrimonio ‘razionale’. Il Cristianesimo è infinitamente approfondibile dal punto di vista culturale, ma vuole, nello stesso tempo, un’estrema umiltà nell’uso del sapere e nel comportamento quotidiano. Da un lato ci chiede di capire l’impossibile (il parto della Vergine, la transustanziazione del pane e del vino, la resurrezione del Cristo e dei morti, l’effusione dello Spirito Santo, la Trinità); dall’altro ti ricorda che devi essere umile, (come) un bambino: studiare teologicamente ciò che adori e non sapere nulla, nello stesso istante. Assumere contemporaneamente la coscienza dei sapienti, l’ingenuità dei più piccoli, la miseria dei più poveri, ha molti punti in comune con il ruolo del poeta e con il suo difficile, ma bellissimo se si realizza, interpolarsi con tutti e con tutto. Mi chiedo, e ti chiedo: il particolare otium delle humanae litterae, poesia compresa, è solo un sabato da santificare? O è tutto? E’ lecito dedicare ad esso tutta la vita, come in un sacerdozio? E’ lecito, sapendo che la forma di Double click e di altri libri che gli sono fratelli potrebbe essere non capìta? Dico: violentemente non capìta… Oppure la dedizione chiede elasticità? Se sì, fino a che punto? Con citazioni: “La poesia – è forse così poco nella mia vita? Senza poesia io non esisterei”[4], “Amo e capisco una cosa sola al mondo, ed è la poesia”[5]. Tu sai che cosa vorrei per me… Sai a che cosa credo quando non credo a nulla. E di che cosa vivo, “dopo tanti schiamazzi in rottami di sanscrito, / e chilometri cubi di sangue” (p. 35).
Le cose si stanno rivelando ossimoricamente, dentro e fuori; in un certo senso, la nostra vita, nonostante tutti gli scompensi e gli sforzi, ha un suo “fondo dell’anima” assolutamente sereno, perché “chi è, ha fatto” e si stampano “little signs, snowy filth, squares or – or – / mere circles, mere / tiny circles in the air” (p. 33; e si pubblica nella lingua dell’Imperium!); nello stesso tempo, ci sono “al portone i magri colpi, aritmici. / Non esce nessuno. L’angoscia (nome / ridicolo, iridato) sale. Sa che / vale”, come tu scrivi (p. 31). Hai scritto anche, per Mark Strand e per tutto/tutti, che “per fedeltà a Eraclito” bisogna precisare: “fissità derisa e mutamento umbratile non sono che due versanti dell’unica realtà”[6]. E lo stesso Strand: “If I say it, it cannot be. / If I said it, I didn’t” (The Sargentville notebook). Tutto è (in) tutto; eppure non ci si capisce ancora. Ma la sfida è proprio questa…
(Genova, 29 aprile 2005, Santa Caterina da Siena)
[1] Marco Giovenale, Double click, Cantarena, Genova, s.d. [ma 2005], con una postfazione di Florinda Fusco e due opere di Fulvio Leoncini. I testi sono stati scritti tra il 2002 e il 2003.
[2] “Il figlio che li assisteva ha preso i mesi di aspettativa. / Al trenta per cento di stipendio. / Stanno adesso sotto terra, può tornare a lavorare. / Ma, fino a fine agosto, non a tempo pieno. / A quella data scade l’accordo. // L’accordo è tutto in queste cose”. Sul brutto August – “the worst / month to die” – v. anche la poesia, in inglese, di p. 38, quasi un rovesciamento dell’April cruellest month.
[3] Le citazioni adatte non mancherebbero. Cfr. la quarta di copertina del Mare a destra di Massimo Gezzi (Atelier, Borgomanero 2004), in cui sembra di intuire una storia di difficoltà nel lavoro e di dignità, sempre: “E’ dottorando di ricerca (senza borsa) in Filologia Moderna all’Università di Pavia, città in cui vive lavorando in una libreria-copisteria”.
[4] Marina Cvetaeva, lettera del 25 settembre 1923 a A.V. Bachrach, da Parigi: in Il paese dell’anima, a c. di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1988, p. 253.
[5] Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1974, p. 53, nella prima pagina del racconto Lui e io (1962).
[6] Mark Strand, La linea di coscienza dello sguardo, a c. di Damiano Abeni e Marco Giovenale, “Poesia”, 192 (2005), pp. 2-22: p. 3.