domenica, 21 settembre 2003 [link]
Parola spostata
Scrittura, interpretazione e prassi (anche nel senso elementare di comportamento quotidiano) cospirano a risalire verso la complessità e indecidibilità delle percezioni. In arte e scienza e riflessione filosofica, sembra che il Novecento abbia stilato un unico regesto sull’indeterminabile, quindi sul rinvio continuo (link, rimando, nuova rima, frequentativa). Fino a spingere – non insensatamente – perfino alcuni filosofi postmoderni a dubitare del dubbio, e a interrogare le linee di resistenza del reale, osservando che comunque qualcosa nel cerchio dei segni fa spessore, bordo, ostacolo, e così crea o prefigura sintassi, gerarchie di senso, ovvero limita o recide la deriva interminabile di connessioni che la realtà percepita e ritradotta sembra formare.
Dallo specchio barocco si avvista già la fibra di vetro. Ora la perplessità non ha compiutamente modo di venerare una sua propria poetica, o di insultarla; non ha teschi da veder posare sul tavolo della natura di fatto morta, né stagioni da dissipare mento in mano contemplando fiamma. Migliaia di miliardi di “materiali” (info) si torcono de/formati perché perfetti all’interno dei prismi-specchio, da un cavo all’altro, senza passaggio di tempo. In un momento.
È configurata allora una contraddizione tra la struttura seriale del pensiero-scritto che conosciamo, e la natura parallela dei files che il mondo informato genera (o: che noi bene o male rubrichiamo come quella cosa a cui diamo nome di Mondo).
Per seguire e capire e intervenire anche in senso politico sulla realtà ‘servirebbe’ un iter lineare o più trame di un tessuto (textus) serialmente affrontabile. I files, i percetti, concrescono invece aperti in parallelo, nonché virtualmente senza numero: frattali. Non si può metterli in sintagma. Sono pressoché negazione del concetto di sintagma. Disporli in tracce verticali, gerarchizzate, non ramificate, è chiamarsi fuori gioco, o antieconomico, stante anche il fatto che tale loro articolazione ‘in parallelo’ riproduce quel medesimo sistema complessivo-complesso di organizzazione mentale dei dati percepiti che l’uomo europeo e in parte statunitense ha formato in sé, almeno dal Settecento a oggi (via via più scientemente).
In questo planetario è perfino funzionale e implicito lo spiraglio joyciano (joy), con uno stream (parola fortunata) of consciousness congegnato per abbassare la temperatura e i picchi delle sensazioni, digerire le res estraendone il nulla, facendone narrazione orizzontale, o narrazione-orizzonte, talvolta perfino parola critica, concertando di séguito blob tra maschere (personae).
In sostanza: è capitato al XX secolo di essere il luogo esemplare di una doppia irraggiungibilità: del reale e della parola contemporaneamente. Come una freccia che punta allo stesso tempo in due direzioni, e che precisamente in questo modo cerca di dire entrambe. Non toccandone alcuna. Così per paradosso fondante arrivando precisamente a esprimerle. (Dimostrandole legate; accusandole implicate).
Non si deve forse guardare al XX secolo come a un’unica messa in scacco della parola; bensì come al tempo in cui la parola-scacco ha tematizzato sé. Così facendo, ha in parallelo reso o dimostrato più fragili le proprie vie, complici o complanari – in potenza – di quel sistema di paratassi blande, di slittamenti di responsabilità, di elusione dei costi del possesso dei piaceri, di smaterializzazione irreversibile del valore dei corpi e delle vite individuali, che può essere in sintesi chiamato ancora capitalismo.
In un quadro simile, la parola-scacco occupa una casella che solo contraddittoriamente entra nel punto cieco abitato dai lessici politici. (Questo ne fa parola di conoscenza differente, cifrata e cifrante, spostata: ben poco ‘utile’, almeno in prossimità della sua nascita sul foglio). E tuttavia sembra essere ancora il primo luogo di conoscenza che abbiamo. Non è poco.
[ variazione dell’articolo comparso con il titolo di Afasia di settembre su «Il Segnale», a.XXI, n.62, giugno 2002 ]
sabato, 13 settembre 2003 [link]
Di conoscenza
Un obiettivo e valore del testo poetico – o delle strutture (nome amabile) che desiderano la conoscenza – può essere in una «leggerezza pensata all’interno della materia, prima dell’unità e prima delle separazioni» (Emilio Villa, su Burri, in Attributi dell’arte odierna, Feltrinelli, Milano 1970).
La scrittura solo-materica ha il limite di farsi “versione integrale” delle cose (non richiesta tuttavia dal tempo: ora la realtà ha già i suoi relatori e storiografi, nella politica e nella comunicazione, e nella politica-comunicazione, come nella prosa del mondo di troppa narrativa). (Vedi le recenti annotazioni di Biagio Cepollaro sul realismo, nel suo blog).
Diversamente, la scrittura “solo-inafferrabile” è esercizio calligrafico, curve su carta.
Una scrittura di conoscenza ha ancora altro statuto, e diversa mira. Ma è una fabbrica di reincisioni, sovraincisioni. Così – e per questo – non elude il pieno peso del mondo/messaggio, il male di cui dice Ashbery.
lunedì, 08 settembre 2003 [link]
Rhymes / Ashbery
Un passo di John Ashbery, dalla poesia Friends (in Houseboat days, 1977):
I feel as though I had been carrying the message for years
On my shoulders like Atlas, never feeling it
Because of never having known anything else. In another way
I am involved with the message.
Sento come avessi portato per anni il messaggio
sulle spalle, come Atlante, senza mai
sentirlo: non avendo avuto mai
conoscenza di altro. In altri termini
io sono coinvolto nel messaggio.
Secondo la nota interpretazione di Kafka, Atlante avrebbe potuto in ogni istante deporre il peso del mondo e andarsene; nulla però oltre questa coscienza gli era concesso avere. In realtà Atlante è – come suggerisce Ashbery – non semplicemente coinvolto (traduzione italiana a cui siamo forzati) ma addirittura tessuto dal suo peso, dal mondo-messaggio. Ne è costruito. Implicato, involved with. E la sua coscienza forma messaggio.
Le parole articolano la bocca che le parla.
Lo stesso Ashbery in epigrafe cita queste parole di Nijinsky: «I like to speak in rhymes, / because I am a rhyme myself».