domenica, 31 luglio 2005 [link]
la chimica grafica di Hans Bellmer spiega dispiega l’indistinzione delle parti del corpo femminile come modello dell’indistinzione tra corpo e mondo. modi del mondo. chi vive in un’immagine di Bellmer, per quanto dolorosa indecorosa questa sia, constata dialogo – compresenza dei solidi. ecco: non ha problemi con l’urgenza del mondo. come dicesse: «se acconsenti a essere ridisposto e ridiscusso dal corpo che ti fonda, dalla geometria perfino, non avrai difficoltà di relazione con nulla. senza per questo essere nulla, né oggetto». puoi toccare e essere toccato. coscienza e luogo compresenti. non è solo un teatro crudele, né interamente – certo – abitabile.
domenica, 24 luglio 2005 [link]
[ variazione da una lettera ]
C’è forse da ripensare e rifare un discorso sul trobar clus paradossalmente tuttora penalizzato in un paese che già di suo non conta su fasce di ‘lettori forti’ di poesia, in generale.
Non si deve essere necessariamente insoddisfatti del ‘cono d’ombra’, di invisibilità e non diffusione (non distribuzione dei libri) in cui sono talvolta catturate e bloccate alcune scritture di ricerca; molto si dovrebbe semmai esser preoccupati per il tipo di lettura o mislettura o non-lettura che di fatto orienta i percorsi editoriali.
A me sembra normale (o necessario proprio perché inquietante, perché è sfida) leggere opere di ricerca. O, se vogliamo lasciare da parte il tema della “ricerca”, direi: leggere scritture produttrici di senso-non-senso, di senso non ‘garantito’ da codici pienamente noti ai leggenti.
(Per intenderci: che motivo abbiamo di cercare forme e testi che ci dicano soltanto, nel modo che già conosciamo, quello che già sappiamo?).
A un numero alto (o basso ma potente) di editori o redattori – o lettori ‘forti’ – sembra invece pacifico e definitivamente acquisito confrontarsi solo e sempre con pagine ready to eat. (Ready made?). Prosa liscia, poesia piana.
In questo contesto va perfino ricacciata indietro e mitigata la tentazione di dire che la scrittura clus non è un problema primario (perché di fatto non lo è: molta scrittura è eminentemente di ricerca senza essere clus). Si vorrebbe pensare a indagini e sottili distinzioni fra varie aree di scritture che (diciamo così) fanno del linguaggio un problema e una sfida e non uno strumento o uno schedario aristotelico che ignora Wittgenstein.
MA di fatto non si può. L’italofono colto medio non ci è mica mai arrivato al secondo Wittgenstein…
Diamogli tempo, che diamine. Deve ancora attraversare tutto il Novecento, forse perfino un pezzo di Ottocento (francese). È ancora in trincea: e con Ungaretti; non ha idea del fatto che il Mauberley è del 1919 (si sorvoli su arti visive e musica). Montale devono proprio spiegarglielo. Dopo la spiegazione allarga le braccia e ghigna di sospetto.
domenica, 17 luglio 2005 [link]
Continuiamo
di Andrea Inglese
su www.nazioneindiana.com dal 12.7.2005
Cominciamo da questo. Nazione Indiana non sarà più la stessa, questo credo lo si sia capito subito, dopo che Antonio Moresco, Tiziano Scarpa e Carla Benedetti hanno annunciato la loro dipartita. Ma questo blog collettivo di scrittori, intellettuali, artisti continuerà ad esistere. Non sappiamo ancora dire in che forma, non sappiamo neppure dire fino a quando. Eppure ci siamo incontrati in tanti. Ci siamo incontrati con coloro che hanno deciso di andarsene e con coloro che hanno manifestato un forte desiderio di continuare. Continuare non sarà facile, non è indolore e costringe quelli che restano ad un’assunzione di responsabilità maggiore. Tutto ciò implica una ferita, implica lo stare nella ferita, nella consapevolezza di ciò che si perde e, nello stesso tempo, nella percezione di qualcosa di vivo, di nuovo e di imprevedibile che può nascere da questo dolore.
Quanto qui sto cercando di scrivere, è una forma di risposta elementare, ma necessaria, a quei lettori e commentatori di NI che hanno provato, anche loro, un minimo strappo, un dolore percepibile, in un angolo anche remoto del loro essere. Un fatto culturale, se esiste, se non è morta ripetizione dell’identico o grado ulteriore di assuefazione al mondo, è anche affetto, getta radici nelle pieghe emotive dei pensieri, irradia di sé le aspettative di un domani più felice e giusto. Questa mia risposta, e le altre che verranno dagli “indiani superstiti”, vogliono ribadire una possibile fiducia, un patto di ascolto reciproco, proprio attraverso un condiviso sentimento di rottura, di dolorosa rottura, che le recenti vicende del sito hanno suscitato.
Per altri lettori-commentatori, il perdurare, pur nell’inevitabile metamorfosi, di questo blog collettivo sarà un’allegra occasione di nuove scorribande, un feticcio telematico tra gli altri da dissacrare, ronzandoci intorno con maniacale insistenza. (Verrà un giorno in cui si studieranno le patologie “leggere” di alcuni utenti della Rete, la cui identità segreta o palese dipende in modo parassitario da qualche totem da bersagliare con puntualità quotidiana.) Altri ancora non troveranno più ragione di anatemi, andando via le personalità più “celebri”. In ogni caso, tutte le difficoltà, le velleità, gli incidenti, gli equivoci dell’asimmetrico, a volte fecondo, dialogo telematico ci attendono nuovamente.
Per articolare questa prima, provvisoria risposta, userò la mia voce combinata con quella di altri indiani rimasti, procederò per montaggio, prelevando dalla fitta corrispondenza che è nata fra di noi in questi ultimi tempi. Lascerò probabilmente fuori qualcosa di molto importante. Ma ognuno degli indiani superstiti potrà colmare la lacuna e la dimenticanza. Ed esprimere anche il suo accento più particolare.
1. La ferita
Helena Janeczek:
“Zeige deine Wunde, < > è il titolo di un’istallazione di Joseph Beuys (…). Credo che per noi che restiamo e che di giorno in giorno decideremo di restare sia bene, sia segno partire dalla ferita, non cercando di nasconderla.”
(La ferita, lo stiamo sperimentando, non implica solo una postura fetale-depressiva, ma anche l’agitazione sghignazzante dell’infebbrato, che corre in avanti verso un’improbabile salute.)
2. Un incontro di commiato e di progetto
C’è stato l’1 luglio a Milano un incontro al “Teatro I”, che ha coinvolto ventitre persone, alcune delle quali non si erano neppure mai viste prima di persona. Persone che venivano anche da lontano: Firenze, Roma, Napoli, Parigi. C’erano: Helena Janeczek, Andrea Raos, Gianni Biondillo, Tiziano Scarpa, Sergio Nelli, Carla Benedetti, Sergio Baratto, Benedetta Centovalli, Andrea Bajani, Giovanni Maderna, Renzo Martinelli, Federica Fracassi, Antonello Spartani, Michele Rossi, Giorgio Vasta, Franz Krauspenhaar, Roberto Saviano, Gabriella Fuschini, Jacopo Guerriero, Giulio Mozzi, Antonio Moresco e il sottoscritto. C’era anche Jan Reister, che ha donato la sua intelligenza, il suo sapere e il suo tempo per far sì che, materialmente, il blog potesse nuovamente esistere. E credo sarà costretto, anche in futuro, a vegliare sull’analfabetismo telematico di alcuni di noi.
Non proporrò qui un resoconto della discussione che c’è stata tra di noi. Due ore fitte, in cui ognuno ha preso la parola, e ha espresso senza rabbia ma senza neppure eufemismi le sue ragioni e le sue critiche. La ragioni del commiato e delle critiche a ciò che NI era diventato, espresse da Moresco, Scarpa e Benedetti, a cui si sono aggiunte quelle di Sergio Nelli, Sergio Baratto e Benedetta Centovalli. La ragioni di continuare e, a volte, le critiche ai fuoriusciti sulle modalità di affrontare i conflitti interni, espresse da chi ha deciso di restare. C’è poi un piccolo numero di persone che, pur non condividendo le ragioni della fuoriuscita, ha manifestato l’intenzione di prendersi tempo per giudicare l’opportunità o meno di continuare una tale avventura dopo l’abbandono dei tre fondatori-ideatori.
Helena Janeczek:
“Su venerdì [1 luglio] vorrei aggiungere solo questo: c’era un clima di forte affetto e rispetto (molto più che di incazzatura) e secondo me di enorme onestà. L’onestà prima di tutto di non defilarsi dal conflitto, di non smussare furbescamente le posizioni.”
Ciò che di questo incontro vorrei sottolineare è la consapevolezza di tutte le ventidue persone presenti, che il funzionamento del blog non era l’unica ragione che ci teneva o ci aveva tenuti assieme, e questo è valso sia per i fuoriusciti sia per i superstiti. Il blog, insomma, non è stata né sarà per noi una semplice “vetrina” strumentale, attraverso la quale agire in perfetta noncuranza di quanto un altro membro fa o scrive. Questo credo sia la differenza fondamentale tra un blog individuale e un blog collettivo. Non si tratta di passare semplicemente da una forma monologica ad una forma polifonica. Lo abbiamo forse in certi momenti dimenticato, ma Nazioneindiana voleva essere associazione di individui oltre la rete. Non solo traiettorie parallele, ma anche nodi empatici, incontri di persone vive, che combinano le loro energie per azioni comuni, nel mondo. E mi auguro che sia veramente questo, il nostro blog, anche in virtù dei tanti progetti che stanno nascendo: non solo l’esito di attività solitarie, ma un punto di passaggio, un crocevia di gesti e di voci, dal quale poter ritornare al mondo come gruppo, modificando le nostre solitudini, moltiplicando le nostre forze d’azione sul contesto culturale che ci circonda.
Roberto Saviano (in una mail di maggio, poco dopo la lettera di abbandono di Moresco):
“E non vale l’ipotesi che ognuno ora potrà aprirsi il suo blog. Quel che io scrivevo poteva avere valore nella rete del progetto, solo invece diventa un lacerto specialistico. Che un pezzo sulla guerra di Secondigliano poteva non essere differente da una recensione d’arte, che una riflessione su Coltrane non è diversa dall’analisi sull’editoria. Questa è stata la nostra battaglia. Militare culturalmente, intelligere, unire il molteplice in un canale unico di forza e potenza dove la parola ha un imperativo nel reale, nel tempo che viviamo senza dover scadere nella cronaca o nell’immediato. Una strana e rara alchimia. Ma non saprete mai quanto si è innescato e quante tracce siamo riusciti a lasciare. Era la forza d’insieme. Il progetto molteplice, corposo, diversificato. Il Teatro I per molti di voi parrà una delle possibilità, una delle tante. Per chi, qui a sud, è malato di assenza di spazio e di possibilità il Teatro I era una forza straordinaria.”
3. La rottura
“Non ha più senso andare avanti assieme: i dissensi frenavano la radicalità del progetto.”
“Non ha senso separarci: i dissensi imponevano al progetto di articolarsi ulteriormente, senza perdere di radicalità.”
Una chiave di lettura di questa contrapposizione, fornita dai noi che rimaniamo mi sembra offerta da queste parole di Giorgio Vasta:
“Per quanto mi riguarda venerdì (1 luglio) si è generato e consumato un paradosso, qualcosa che ha in sé elementi tragici ed elementi comici. Quello che mi è sembrato di constatare in pressoché tutti gli interventi è un’unanimità che non riguarda specificamente gli intenti, le azioni particolari, le strategie e prima ancora la formazione e l’orientamento intellettuale (ambito nel quale credo continui a esserci una forte eterogeneità – e non penso che questo sia un male, per niente) ma che è un’unanimità di sentimento, di percezione, mi verrebbe da dire di intensità.
Che l’esito di questa unanimità sia la scissione mi sembra per certi versi una forma di autolesionismo, dall’altro il risultato dell’intrecciarsi di tante e troppe variabili che a un certo punto sono diventate incontrollabili e hanno fatto venire meno quella fiducia istintiva e inverificabile che mi sembra sia sempre stata il denominatore comune del rapporto tra i diversi indiani.
Come ho detto durante la riunione io non ho avvertito le obiezioni poste in occasione del convegno (sull’editoria) come una forma di negazione del progetto nazione indiana e come una corruzione del medesimo, ma al contrario come una sua ulteriore articolazione. Pensare di ripercorrere a ritroso la strada che ha portato all’equivoco e alla forzatura non è servito e non servirebbe neanche adesso. C’è un momento nel quale un processo diventa irreversibile e, pur con tutta la sofferenza che questo comporta, continuare a opporsi non ha senso.”
4. Chi saremo ora?
Helena Janeczek:
“Noi superstiti ci troviamo ora su un piano di maggiore parità, senza che in questo ci sia alcun merito. Ci sarebbe invece se riuscissimo a trasformarla in quello a cui credo mirasse Andrea Raos, usando la parola ‘fratellanza’.”
Andrea Raos:
“Vicinanze, non ne accetto (non è questo che intendevo con ‘fratellanza’): ma solo distanze – fortificanti, intensive. E queste distanze le desidero fra di noi (…) Nella mia vita di scrittore ed intellettuale sono sempre andato ad istinto, a prossimità fisica, per ricerche di accordi e disaccordi comuni che comunque apportavano qualcosa al dialogo.”
Helena Janeczek:
“Non siamo – sembrerebbe – pochissimi, almeno al momento, ma siamo senz’altro molto più deboli. Però credo che dovremo cercare di rovesciare questa debolezza, perché questa contiene per ciascuno di noi una grande possibilità di crescere, di rilanciare, di creare insieme. Perché ci chiama a impegnarci e a rimetterci in gioco di più, a confrontarci più apertamente. Tutto questo però assolutamente non in un’opposizione infantile a ciò che faranno i fuoriusciti: che per me restano compagni di strada su vie, in questo momento, divergenti.”
Cos’è che fa esistere un gruppo? Cos’è che fa esistere un gruppo di scrittori, intellettuali e artisti, oggi, provenienti da città, ambienti, formazioni tanto diverse?
Voltiamoci un attimo indietro. Che cosa ci ha fatto esistere fino ad ora?
Roberto Saviano (mail di maggio):
“La forza libertaria del sito e del gruppo risiedeva nella costruzione multiforme, non regolamentata, nella garanzia della libera scrittura. L’essere così realmente molteplice, non come un quotidiano liberale o come una trasmissione televisiva che garantisce il confronto di diverse voci per meglio far emergere vincente la propria. Non si trattava di dibattiti e confronti. Le idee e i pensieri si almanaccavano con la propria forza senza avere altra garanzia che il proprio impegno e l’articolazione delle riflessioni. Il valore aggiunto era questa capacità di seguire, di raccontare, di citare, di riversare nel vaso del sito. Attraverso le volontà e le sensibilità dei partecipanti, senza un canovaccio che garantisse tutti i tracciati ma lasciando che le scorribande, o i certosini orpelli, o le disciplinate riflessioni, o i frammenti più impuri, rappresentassero il nostro tempo e non solo. Un presente caotico che riusciva ad essere più completo dei più rigorosi composti giornalistici e dei più regolamentati luoghi di riflessione.”
Ora, è importante qui riconoscere i propri debiti. Colui che, fin dall’inizio, ha impresso all’esperienza di Nazioneindiana questo carattere libertario è stato senza dubbio Antonio Moresco. È stato lui il gran catalizzatore delle nostre solitudini. Lui per primo a scommesso sulle “distanze intensive”. Ed è stato così che, in NI, ci siamo trovati non in virtù delle nostre comuni e condivise appartenenze, ma in virtù delle nostre inappartenenze, delle nostre solitudini, del nostro statuto di orfani, disertori, infedeli. Incontrandoci in NI è come se ognuno avesse un po’ tradito il proprio gruppo d’appartenenza: editoriale, accademico, di genere letterario, di dottrina politica, ecc. Ognuno ha tradito un po’ la sua tribù, per ritrovarsi in NI con altri “barbari”, dal vocabolario e dai percorsi molto diversi. Spesso, poi, i tradimenti si erano già consumati da tempo. Come ha detto Giorgio Vasta:
“Non ho mai fatto parte di un gruppo, neppure di quello delle Giovani Marmotte quando ero bambino”.
Un gruppo di “cani sciolti”, dunque. In quest’ossimoro starebbe la nostra forza? Non solo. Io non ho mai vissuto, ad esempio, l’identità di “indiano” come qualcosa di esclusivo. Pur avendo fin da subito, e con passione partecipato alla vita di questo blog, non ho mai creduto che potesse conferirmi un’identità specifica. Ma questo non era per me un limite di NI, né un mio volermi tenere un passo indietro. Credo che sia stata la sua impronta libertaria a caratterizzare NI come un luogo d’incontro e di attraversamento, piuttosto che come un luogo di posizione e radicamento. Questa modalità di fare gruppo non è ovviamente priva di limiti evidenti, ma su questo tornerò più avanti.
(Un’esperienza simile a quella di NI, nata anch’essa con un’impronta fortemente libertaria, ha portato ad un volume collettivo uscito nel 2000, Ákusma. Forme della poesia contemporanea, per la Metauro Edizioni. Io e Raos vi partecipammo, assieme ad altri 49 poeti. Ci incontrammo tutti quanti, raccogliemmo una gran quantità di materiale teorico e critico, e completammo il lavoro con un’autoantologia di testi. In seguito organizzammo a Roma e a Milano una serie di incontri e di letture con il pubblico. Allora il gran catalizzatore di solitudini, nonché l’ispiratore “libertario”, fu il poeta Giuliano Mesa. Ricordo questo avvenimento, perché nel mondo della poesia fu davvero uno spostamento notevole, rispetto alle attitudini prevalenti nel campo (cordate compatte, intorno a qualche critico-faro, a qualche manifesto di poetica, a qualche rivista o a qualche poeta-maestro). L’anomalia delle iniziative “akusmatiche” fu punita con un meticoloso silenzio da parte degli altri addetti ai lavori. Ma questo non intaccò più di tanto la nostra convinzione che la strada era comunque giusta e che, nonostante limiti e debolezze del progetto, andava battuta. Ákusma, infatti, rinascerà presto come sito in Rete. Rispetto ad Ákusma, NI presenta comunque un ulteriore e importante punto di forza. Lo spirito libertario coinvolge e intreccia qui percorsi che vanno al di là dell’ambito ristretto della poesia. Il che, sia detto chiaramente, non è un vantaggio solamente per il poeta, che ritorna a dialogare quotidianamente, come dovrebbe essere normale, con narratori, romanzieri, registi, attori, ecc. Il vantaggio, infatti, credo sia davvero reciproco, e più in generale tocca chiunque esca dal suo campo culturale specifico, dal suo vocabolario, dal suo punto di vista di genere.)
Riprendiamo la domanda iniziale. Cos’è che fa esistere un gruppo? Un gruppo potrebbe essere tenuto assieme e rafforzato da una comune visione del mondo, un’ideologia, un’insieme di idee e valori forti intorno ai quali organizzare la propria esperienza della realtà.
Ma oggi siamo enormemente timidi, rispetto a questo. Enormemente diffidenti. Davvero pare di sentire insofferenza e scetticismo nei confronti di tutto ciò che concorre a definire statuti, principi, categorie conoscitive. Nessuno di noi ha voglia di solidificare l’identità del gruppo: essa deve rimanere fluida (per utilizzare un termine di Zygmunt Bauman), e non solo in questa fase di passaggio e metamorfosi. (D’altra parte, così è stato per NI anche in passato: il blog ha funzionato, in crescendo, per due anni, senza piattaforma dottrinaria preordinata.)
Antonello Sparzani:
“Ho spesso constatato come, /in presenza di troppa metateoria, è opportuno dedicarsi alla teoria/. Frase naturalmente troppo recisa, che però vuole proporre di parlare di e su NI lo stretto indispensabile (che non vuol dire non parlarne, sono abbastanza consapevole della situazione) e però, d’altra parte, per capire cos’è ora NI, fare delle cose, ognuno nella propria specificità. Quelli di NI che sono scrittori scrivano, postino, riportino, dicano cose riguardanti la scrittura, così come quelli che praticano altre arti, diano contributi in queste arti eccetera.”
“Chi saremo, ora?”
“Saremo quello che riusciamo a fare,che sappiamo fare, saremo il nostro fare.”
Questa risposta wittgensteiniana mi sembra la migliore. E però vorrei aggiungere qualcosa, frutto di riflessione assolutamente personale.
Il fatto che ci manchi un’articolata, esplicita, visione del mondo attuale è una debolezza, un limite. Non un punto di forza. L’analisi di Antonio Moresco e di Carla Benedetti sull’universo dell’editoria è stata da alcuni di noi percepita non come eccessivamente radicale, ma come insufficientemente articolata e approfondita. Questo non è certo imputabile agli inevitabili limiti delle analisi proposte, ma ci segnala, semmai, l’esigenza di compiere ogni volta, assieme alla denuncia polemica, un enorme lavoro di raccolta dei dati, di riflessione collettiva e interdisciplinare.
Rispetto a quanto dice Sparzani (e che mi sembra da noi tutti ampiamente condiviso), io aggiungerei questo: il fare non può essere sufficiente a definire compiutamente la nostra identità di intellettuali, scrittori e artisti. Per capire, infatti, cosa davvero abbiamo fatto, dobbiamo anche capire il destino più ampio a cui è sottoposto il nostro operare, come portatori di un progetto culturale, all’interno dell’attuale stadio di mercificazione della parola scritta e di “gratuita” diffusione della parola telematica. Detto in termini brutali: per capire chi siamo, e il senso di quanto facciamo, dobbiamo capire come viene usato ciò che noi produciamo. Dobbiamo essere il più possibile consapevoli rispetto alle forme e agli effetti che la mercificazione impone alla letteratura, all’immagine, all’arte. Lavorare assieme all’esistenza di un blog, può significare allora allargare questa consapevolezza, sollecitando anche nei lettori – spesso nostri “simili” nel campo della cultura – una riflessione in questa direzione.
La letteratura non è un fenomeno atemporale né un’invariante antropologica, se crediamo in questo modo di metterla al riparo dall’evoluzione delle società. Essa esiste, per noi, all’interno di un’articolazione storicamente determinata di una certa organizzazione sociale, governata dal sistema di produzione capitalistico. Possiamo essere scettici finché vogliamo, ma ogni volta che ci mettiamo a scrivere, ogni volta che facciamo il nostro mestiere, agiamo dentro uno spazio di possibilità che sono già state in gran parte predeterminate. Non solo, ma l’evoluzione del rapporto tra produzione capitalistica e merce culturale è in tale continua evoluzione, che intorno a noi i confini di ciò che crediamo essere “la letteratura” o “l’arte” stanno già cambiando a nostra insaputa, assumendo inedite fisionomie, rischiando di depotenziarsi ulteriormente.
Per concludere, la risposta a ciò non è certo il Ritorno al Grande Artigianato. Ma il semplice rifiuto di scindere il proprio fare dalla riflessione costante sul fine, l’esito, lo statuto sociale in senso ampio di questo fare.
5. Che faremo ora?
I progetti e le proposte di noi indiani superstiti sono davvero tanti e diversi. Non mi metto qui ad elencarli, per il semplice fatto che sono di giorno in giorno in via di definizione. E soprattutto perché lascio la parola ad ognuno di noi, per integrare quanto io ho detto senz’altro in modo incompleto e parziale. E poi per proporre le iniziative che bollono nel nuovo crogiolo.
Anticipo solo due intenti. Uno in perfetta continuità con la vecchia NI. Continuare cioè ad essere – uso qui l’espressione di Franz Krauspenhaar – “editori autonomi per altri, per nuovi talenti non ancora espressi perché magari lontani dalle “conoscenze”, da certe logiche, da certi aumma aumma”. E io aggiungerei: per talenti tanto nuovi, quanto vecchi: ma meno conosciuti del dovuto.
L’altro intento, ribadito ultimamente da Giorgio Vasta, ma già da tempo nell’agenda di altri indiani, rendere il blog davvero vasocomunicante con l’esterno: ossia dotarlo finalmente di una serie di link che non lo renda più inspiegabilmente monadico.
Andrea Inglese
giovedì, 14 luglio 2005 [link]
Su Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com) in questi giorni: interventi di Andrea Inglese e Giuliano Mesa. Con argomenti e ipotesi nuove, itinerari possibil.