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ottobre 2004

sabato, 30 ottobre 2004   [link]
 

Sasso Marconi, lunedì 1 novembre:
presentazione de Il segno meno, di M.G.
e Il vincolo del volo, di Paola Turroni

Lunedì 1 novembre 2004, alle ore 16:00, presso la Sala del Consiglio della Città di Sasso Marconi (Piazza Martiri, 6), Gregorio Scalise e Matteo Fantuzzi presentano: Marco Giovenale, Il segno meno (Manni 2003); e Paola Turroni, Il vincolo del volo (Raffaelli 2003).

Intermezzi musicali di Roberto Bartoli

Interviene l’Assessore alla Cultura del Comune di Sasso Marconi Adriano Dallea. Presenta Cristiana Branchini, presidente del circolo Le Voci della Luna.

Info: vociluna@virgilio.it, www.levocidellaluna


lunedì, 25 ottobre 2004   [link]

 

Quattro poesie e un testo critico

Quattro poesie da Altre ombre sono ora sul sito di Nazione Indiana.
Invece nel sito di http://www.dissidenze.com/ è riproposto l’articolo Parola spostata.


venerdì, 22 ottobre 2004   [link]

 

Lettura al Forte Prenestino: per CriticalWine,
domenica 24 ottobre

Domenica 24 ottobre, dalle ore 17:30, nell’ambito dell’iniziativa CriticalWine, al c.s. Forte Prenestino (Roma, via Federico Delpino, zona Centocelle), lettura di poesie di Mario Desiati, Marco Giovenale, Francesco Leonetti, Tommaso Ottonieri, Laura Pugno, Sara Ventroni.

Info: www.criticalwine.org


domenica, 17 ottobre 2004   [link]

 

Shelter

In occasione della lettura di venerdì scorso coordinata da Aldo Mastropasqua al Macro (Museo di Arte Contemporanea di Roma) in cui eravamo ospiti M.Lefèvre V.Ostuni e io, ho letto una serie di poesie ancora inedite dedicate al luogo-parola «Shelter», riparo, rifugio, protezione e segregazione insieme.
Si può pensare alla ricerca fotografica di Giacomelli, ma sicuramente non soltanto a quella centrata sulle stanze dell’ospizio.
Numerose immagini di Giacomelli iterano, non meno ossessivamente del contrasto nettissimo fra i bianchi puri e i neri puri, un’attenzione maniacale alle grinze, alle rughe e fenditure e ondulazioni. Del terreno, delle lenzuola, delle vie, dei margini delle cose.
I vecchi, i coltivi, le arature, lo stesso ‘mosso’ (l’oscillare della macchina). Poi: l’una cosa fa (necessaria) l’altra. Il contrasto necessita delle ondulazioni, e viceversa. Si descrivono così, a vicenda usandosi come codice.
In gioco, nelle poesie di Shelter, è o vorrebbe essere tutto quello che dà ospitalità allo sguardo e lo minaccia. Nelle fotografie di G. è evidente che l’alternarsi di neri e bianchi marca aree assolutamente definite, e tuttavia dà – così – parola a quello che perde definizione e confini, a quello che si sbriciola in raschiamento, appunto in pieghe e piaghe. Quanto sparisce e si dissipa, ed è irregolare: frastagliato con metà inquadratura già fuori vita. Come l’identità ma come tutto.

Derrida cita questo passo da Minima moralia: «In una sera di tristezza incommensurabile, mi sono sorpreso ad adoperare il congiuntivo goffamente erroneo di un verbo che non è nemmeno propriamente altotedesco, una forma che appartiene al dialetto della mia città natale. Non mi era più accaduto di udire, e tanto meno di usare, quel solecismo familiare fin dal tempo dei primi anni di scuola. La malinconia, che mi trascinava irresistibilmente nell’abisso dell’infanzia, risvegliò quell’antica risonanza che attendeva, impotente, sul suo fondo. La lingua mi rimandava, come un’eco, l’umiliazione che mi ha inflitto la malasorte, dimenticandosi completamente di quello che sono» – e sùbito aggiunge (qui la voce di D.): «Sogno, idioma poetico, malinconia, abisso dell’infanzia, Abgrund der Kindheit che non è altro […] che la profondità di un fondo (Grund) musicale, la risonanza segreta della voce o di vocaboli che attendono in noi, come al fondo del primo nome proprio di Adorno, ma senza potere […]. Ohnmächtig, insisto su questo: senza potere, vulnerabili. […] Adorno […] cerca in modo quasi sistematico di sottrarre tutte queste debolezze, queste vulnerabilità, queste vittime senza difesa alla violenza o alla crudeltà dell’interpretazione tradizionale, cioè all’accaparramento filosofico, metafisico, idealista, e anche dialettico e capitalistico. / L’esposizione di questo essere-senza-difesa, di questa privazione di potere, di questa vulnerabile Ohnmächtigkeit può essere tanto il sogno, la lingua, l’inconscio, quanto l’animale, il bambino, l’ebreo, lo straniero, la donna». (Jacques Derrida, Il sogno di Benjamin, Bompiani, Milano 2003, pp.25-26).

Ma il mio pianto, o piuttosto una stanchezza
che non può riportarsi nel rifugio

[ Amelia Rosselli, Serie ospedaliera ]


martedì, 12 ottobre 2004   [link]

 

Lettura al Macro, venerdì 15 ottobre

Nell’ambito di RomaPoesia 2004, venerdì 15 ottobre, ore 18:00, al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea (Roma, via Reggio Emilia 54 – Sala Conferenze), lettura di poesie di Marco Giovenale, Matteo Lefèvre, Vincenzo Ostuni.

Incontro a cura di Aldo Mastropasqua e Mia Lecomte. Coordinamento e ufficio stampa: Lidia Riviello. Info: www.romapoesia.it


sabato, 09 ottobre 2004   [link]

 

L’importanza di «Officina»

Segnalo nuovamente l’importanza di una ristampa recente: è ripubblicato dalla casa editrice bolognese Pendragon, al prezzo di 60 euro (non modico ma niente affatto alto se paragonato ai prezzi dei singoli fascicoli in antiquariato), il volume contenente le due serie della rivista «Officina» (Bologna, 1955-59): i fascicoli 1-12 della prima serie e gli unici due della nuova serie.
La stessa Pendragon aveva già riprodotto anastaticamente «Officina» nel 1993, in un’edizione a tiratura limitata (poco più di 500 esemplari). Questo volume torna a colmare un vuoto oggettivo. (La rivista è fra l’altro uno dei ‘pezzi’ più ambiti dai collezionisti di opere del Novecento).
Va riconosciuto: è impossibile studiare la poesia e la prosa e i dibattiti degli anni Cinquanta senza far riferimento costante e puntuale a quanto «Officina» ha significato, in sede di letteratura e di politica, di scontro e militanza, di confronto con le linee guida della cultura postbellica: la lezione gramsciana, Croce, il tentato superamento sia della stagione ermetica che dello stesso neorealismo.
Senza contare la miniera di materiali offerti per lo studio dei differenti percorsi dei redattori: Roversi, Leonetti, Pasolini, Fortini, Scalia, Romanò. Compaiono su quelle pagine prose di Calvino e Gadda, poesie di Bertolucci, Erba, Luzi, Volponi, Penna, Caproni, Ungaretti, Bassani, Pagliarani, testi critici di Sciascia, Garboli, il saggio pasoliniano su Pascoli, il ridimensionamento della visione della “lirica moderna” di Hugo Friedrich operata da Fortini; e infine l’”antologia neo-sperimentale” curata da Pasolini e la conseguente celeberrima Polemica in prosa di Sanguineti, con risposta di Leonetti, che furono gli scritti-motori del primo divaricarsi di sperimentalismo e avanguardia. Superfluo rammentare quanta parte – e quanto incisiva – avrebbero avuto le voci e i temi ospitati da «Officina» nell’iter successivo della letteratura del Novecento. Ad apertura di volume, da segnalare e sottolineare la presenza di una introduzione di taglio ‘letterario’ e ‘politico’, densissima e fortemente storicizzante, firmata dallo stesso Roversi.

Cfr. Italianistica OnLine.


Il n.2 de «L’Ulisse»

«È on-line il nuovo numero della rivista “L’Ulisse”, incentrato sul tema “Scritture al femminile”. Questa seconda uscita della pubblicazione web comprende interventi saggistici e contributi di Cristina Benussi, Maria Pia Quintavalla, Gabriela Fantato, Gabriella Sica, Martha Canfield, Annelisa Alleva, Gabriella Fiori, Ida Travi, Francesca Mazzuccato, Paola Febbraro, Gabriella Musetti, Maria Attanasio, Loredana Magazzeni, Andrea Ponso, Tiziano Fratus, Luisa Pianzola, Milena Nicolini, Monica Venturini, Stefano Donno, Stefania Gerevini, Mariella De Santis, Malisa Longo e interviste ad Antonella Anedda, Vivian Lamarque e Alda Merini.
«Chiude la rivista una ricca rassegna antologica di testi, molti dei quali inediti, di Maria Luisa Spaziani, Jolanda Insana, Biancamaria Frabotta, Alba Donati, Rosaria Lo Russo, Donatella Bisutti, Silvia Bre, Anna Maria Farabbi, Laura Pugno, Giovanna Frene, Isabella Vincentini, Florinda Fusco, Mary Barbara Tolusso, Isabella Leardini, Rosa Pierno, Francesca Serragnoli, Silvia Caratti, Giovanna Zoboli, Alida Airaghi, Daniela Cabrini, Nicoletta Bidoia.
«La pubblicazione, diretta da Alessandro Broggi, Carlo Dentali e Stefano Salvi, è consultabile per accesso diretto al link www.lietocolle.com/ulisse o dalla home page del sito www.lietocolle.com – cliccando sul logo in alto a destra».

Cfr. Italianistica OnLine.


Due link

Link a siti interessanti e utili: quello di LiberLiber ( http://www.liberliber.it/home/index.asp), per la digitalizzazione di testi; e quello di Antenati (http://www.girodivite.it/antenati/antenati.htm), con migliaia di schede su autori europei.


venerdì, 08 ottobre 2004   [link]

 

Il tempo sequestrato e bruciato dal lavoro non verrà restituito in alcuna forma. Il denaro: non è niente a fronte delle cose (vita).
Mentre. Il racconto può solo essere spezzato, come i versi: non essendo, i versi, racconto; e non essendo, il racconto, poesia.
Il percorso iniziato alcuni anni fa con il libro che ora è Altre ombre sottintende o implica entrambe le vie; fa poi di entrambe tema, struttura: e specchiante. O questo desidera.


domenica, 03 ottobre 2004   [link]

 

Nuova collana di e-book

Dal sito di Biagio Cepollaro, Poesia Italiana E-book:

«L’iniziativa editoriale Poesia Italiana E-book intende ristampare in formato pdf alcuni libri di poesia e narrativa che rischierebbero l’oblio, in mancanza di efficace supporto. Si tratta di libri importanti per la storia della poesia italiana, la cui memoria non può che essere affidata ai protagonisti e ai testimoni degli anni in cui sono nati. In particolare i testi che saranno ristampati dalla Biagio Cepollaro E-dizioni si collocano, per lo più, tra gli anni ’70 e i primi anni ’90.
Affianca tale collana, la pubblicazione di inediti: autori di poesia e di prosa che sono apparsi o hanno incrociato in qualche modo il flusso del blog Poesia da fare. È la poesia di questi anni, profondamente trasformata dalla Rete: ci si augura che le nuove possibilità tecnologiche possano contribuire a diffondere, ma anche a qualificare, la fruizione della letteratura».

Curano la collana: Biagio Cepollaro, Florinda Fusco, Francesca Genti, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Giuliano Mesa, Massimo Sannelli. Computergrafica: Biagio Cepollaro.

Le edizioni prendono avvio con questi testi:

Luigi Di Ruscio, Le streghe s’arrotano le dentiere (1966)

Massimo Sannelli, Le cose che non sono (inedito, 2004)

Marco Giovenale, Endoglosse (inedito, 2004)

Autori di prossima pubblicazione: Roberto Roversi, Mariano Baino, Giulia Niccolai, Giuliano Mesa, Francesco Forlani, Andrea Inglese, Florinda Fusco, Gherardo Bortolotti, Sergio La Chiusa.
Un articolo su Biagio Cepollaro E-dizioni è leggibile in http://www.romanzieri.com/. C’è poi una presentazione nel blog di B.C., con estratti di testi. Questa mia nota è riportata in Italianistica OnLine.
Sul sito la pagina dei testi è http://www.cepollaro.it/poesiaitaliana/E-book.htm. Schede in lingua inglese alla pagina http://www.cepollaro.it/ING.pdf.


Italianistica OnLine

Il sito di Italianistica OnLine (www.italianisticaonline.it), diretto da Luigi Maria Reale, è in rete con grafica e contenuti rinnovati. Sono accessibili alcuni miei articoli lì usciti (con link diverso rispetto alla prima pubblicazione), ora anche in http://biobiblio.splinder.com. Li elenco:

– Recensione al poemetto di Giovanna Frene, Spostamento
– Nota a Giuliano Mesa, I loro scritti
– Recensione alla monografia di F.Moliterni su Roberto Roversi
– Un’annotazione sulla poesia di Franco Buffoni
– Recensione alla raccolta di saggi di Amelia Rosselli
– Recensione a Valerio Magrelli, Nel condominio di carne
– Recensione a due libri di Roversi e alla ristampa anast. di «Officina»
– Segnalazione della rivista online «Ulisse»: n.1 e n.2
– Segnalazione dell’antologia Gli intemperanti
– Segnalazione di Biagio Cepollaro E-dizioni

[ N.b.: per una visualizzazione ideale degli articoli, impostare lo schermo a 1024×768 ]

settembre 2004

domenica, 26 settembre 2004   [link]
 

L’uscita di Altre ombre. Festa e incontro

Giovedì 23 settembre, presso la Camera Verde (Roma, via G. Miani 20) è stata presentata la mia raccolta Altre ombre, con poesie del periodo 1996-2000. In copertina una foto di Francesca Vitale. Postfazione di Roberto Roversi. L’incontro è stato un momento di dialogo con gli amici intervenuti, non una presentazione in senso classico. Graditissimi tutti gli ospiti; e particolarmente bello il ‘clima akusmatico’ che si è creato grazie alla presenza di Luigi Severi, Fiammetta Cirilli, Giancarlo Rossi, e il maestro Francesco Forlani (colpo di fulmine circolare tra lui, la Camera Verde, l’editore Andrea Semerano, la rivista «Sud»).

L’uscita di Altre ombre inaugura inoltre “Stalker”, una nuova collana di libri di versi e prose della Camera Verde.

Sarò di nuovo in Camera Verde la sera di giovedì 30 settembre, in occasione della presentazione di Vous oubliez votre cheval?, mostra e libro di Francesca Vitale. Nuova occasione di incontro e piccola festa. Chi vuole passare a trovarci è il benvenuto.

Chiunque volesse avere copie di Altre ombre può telefonare al numero 06.5745085 (dalle 17:30 fino a tarda sera tutti i giorni escluso il lunedì) e richiederle direttamente all’editore.

[ Di vari libri della Camera parla in un recente articolo Massimo Sannelli ]


sabato, 25 settembre 2004   [link]

 

Al parco di Aguzzano

Sabato 25 settembre, presso il Casale Alba 3 (Roma, Parco di Aguzzano, ingresso da Piazzale Hegel o via Schopenhauer, zona Talenti), lettura di poesie di Sara Ventroni e Marco Giovenale, in occasione di una serie di eventi organizzati dall’associazione Merzbau (http://www.merzbau.it).


mercoledì, 15 settembre 2004   [link]

 

«Action Poétique»

È uscito il n. 177 (sett. 2004) del trimestrale «Action Poétique», con una sezione ampia dedicata a «Nouveaux poètes italiens»: testi di Andrea Raos, Franco Buffoni, Gabriele Frasca, Giuliano Mesa, Biagio Cepollaro, Aldo Nove, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Florinda Fusco, Massimo Sannelli, Flavio Santi.
Il 18 settembre, presentazione del numero a Parigi.

Per richiedere la rivista o avere informazioni: «Action Poétique», 36 rue Raspail, 94200 Ivry-sur-Seine, France (actionpoetique@wanadoo.fr).


Alla Casa delle Letterature, sabato 18 settembre

Sabato 18, in occasione della Notte Bianca, No Stop Reading / New Poetry New Art:

Dalle 22:30, presso la Casa delle Letterature (Roma, piazza dell’Orologio 3), Letture di poeti / Opere di artisti / Sonorizzazioni.

Nel giardino della Casa delle Letterature, allestito con la mostra delle opere di otto giovani artisti realizzate appositamente per il luogo e per Notte Bianca, quindici giovani poeti leggono i loro testi inediti. La maratona di lettura ha inizio alle ore 22:30; le opere degli artisti sono esposte dalle ore 20:00 alle ore 6:00. La mostra proseguirà fino al 25 settembre.

Poeti

Fabrizio Bajec
Elisa Biagini
Carlo Carabba
Tiziana Cera Rosco
Andrea Di Consoli
Francesca Genti
Marco Giovenale
Marco Mantello
Matteo Marchesini
Alberto Pellegatta
Enrico Piergallini
Andrea Ponso
Jacopo Ricciardi
Flavio Santi
Sara Ventroni

Artisti

Jacopo Mattia Alegiani
Andrea Ambrogio
Roberto De Paolis Maino
Luca Guatelli (grazie alla coll. dello Studio Stefania Miscetti)
Michele Manfellotto
Caterina Nelli
Nicola Pecoraro
Giuseppe Ragazzini

Sonorizzazioni: Emanuele De Raymondi
Programma a cura di Maria Ida Gaeta. In collaborazione con Associazione culturale LED e con la rivista «Nuovi Argomenti».
Il programma New Poetry / New Art include “Cortilarte”, mostra dei giovani artisti Paolo Assenza, Massimo Attardi, Veronica Botticelli, Mauro Di Silvestre, Eugenia Lecca, Paolo Lecca, Nicolaj Pennestri, Luigi Puxeddu e Pietro Ruffo, inserita nell’ambito di “Arterie – La Notte Bianca di San Lorenzo”.


Casa delle Letterature, Piazza dell’Orologio 3, Roma
Informazioni: tel. 06.68134697, www.casadelleletterature.it
Ingresso libero. Ufficio stampa: No Zap. Tel. 06.6832740 fax 06.6832770



domenica, 12 settembre 2004   [link]

 

«Dissidenze»

Dal 7 settembre è on line il sito culturale «DISSIDENZE – critica letteratura civiltà»: http://www.dissidenze.com

Indice di questo numero:

MARIO PERNIOLA – Il neo-antico
WU MING – Giap!
MICHEL MAFFESOLI – Le tribù della rete
GIOVANNI SEMERANO – Le origini della cultura europea
NUOVI SCRITTORI ITALIANI: Massimo Sannelli e Marco Giovenale
FRANCO FORTINI – Parola chiave: conflitto
ANTONIO MORESCO – L’eterno nascere


mercoledì, 08 settembre 2004   [link]

 

«OFFICINA»

Viene ripubblicata dalle edizioni Pendragon, al prezzo di 60 euro (non modico ma niente affatto alto se paragonato ai prezzi dei singoli fascicoli in antiquariato), la ristampa anastatica delle due serie della rivista «Officina» (Bologna, 1955-59): i fascicoli 1-12 della prima serie e gli unici due della nuova serie.


venerdì, 03 settembre 2004   [link]

 

Due novità

Un ringraziamento a Nanni Cagnone, che ospita Massimo Sannelli e il sottoscritto nella pagina Guests del suo sito.

Vi sono inclusi (in formato pdf)

> Da voi deriva. Dieci omaggi (M.S.)
e
> a rhyme mirror (M.G.)

agosto 2004

venerdì, 27 agosto 2004   [link]
 

L’incipit dei Cantos e quello dei Sonetti a Orfeo sono speculari e opposti. Nei Cantos un “noi” va e “scende” alle navi, ai ‘legni’. Nei Sonetti un albero ascende, “sale”, è il ‘canto’ stesso, Orfeo, un “puro trascendere”.
In Pound: la storia di tutti e di nessuno (non c’è soggetto grammaticalmente espresso: la prima parola è il temporale/atemporale “Then”), il viaggio, la materialità del viaggio, il precipitare verso l’acqua.
In Rilke: il raffinarsi della voce stessa, un soggetto assoluto che è Orfeo-canto, e l’ascesa ascesi verso l’aria, senza quasi materia (l’albero è segno, non cosa).


venerdì, 20 agosto 2004   [link]

 

Nell’azoto

Non mancano esempi recentissimi di eccellente critica testuale, di rigore filologico. Non so, pensiamo a Isella su Finisterre. Allora perché mai sulle riviste (chiamiamole così) ‘militanti’ la poesia contemporanea riceve attenzione solo improvvisata, veline a valanga? Plausi e botte ma senza indagine, citazione, osservazione minuta del testo. Perché tutto ‘all’impronta’? Tutti impressionisti a replicare narcisi e girasoli: e colonnine soddisfatte, i corrivi sottocorsivi. O semplicemente guizzano e si riproducono i regesti ‘tematici’. Molta finta flussione critica rampa e rampolla fuori da ex liceali imbarcati a spinte e calci dentro aule solo qualche metro più larghe. Che succede? Nessuno sa vedere se un testo ora riverito ‘rifà il verso’ agli anni Quaranta (del Novecento? o più indietro?)? Tutti i plagi e il kitsch e l’epigonismo sembrano godere di un grado di impunità che sfiora l’invisibilità, ‘o miracolo.

Come mai non c’è analisi serrata dei libri belli? (I brutti e laidi li lasciamo al silenzio). Per quale motivo mancano sensate indagini su isotopie e metrica dei nuovissimi autori, comparazioni di lessici? Niente da dire sulla ‘retorica dei laici’ versi? Che requiesca pacifico lo strutturalismo; ma pare che grammatica e sintassi siano pianeti spenti. Se potete, prendete il file word di una rivista che ovviamente non sia «il verri» e «Testuale» (meritori e non unici) e provate a cercare [control+shift+T] le parole «ipotassi» o «paratassi» ma anche i nomi dei tempi dei verbi. Qualcuno li nomina? «Nominare»?

Si leggono in periodici quotati & accigliati colonne intere di recensioni capaci di non citare una sola parola (non dico un verso, due versi, un titolo di sezione) dell’opera che dicono di star affrontando. Sembra che i libri non siano fatti di verbi, nomi, complementi, proposizioni, rapporti tra queste. Al centro del saggio, al posto dell’oggetto, ecco l’idea che l’elzevirista ha dell’oggetto. Ma di cosa è fatto questo libro? Quali materiali lo formano? Disposti come? Cosa è vivo e cosa no? Mistero. Insomma. È come comprare una ricca coppa di gelato e uscire felici mangiando lo scontrino e i tovaglioli.

C’è stato un periodo in cui le parole erano interrogate. Faceva anzi piacere agli scrittori che nascessero esegesi puntuali, interpretazioni, a volte conflitto, conoscenza per attrito.

Impossibile sia tutto dietro il cartone che si vede innalzato in giro. Non si può pensare che si tratti di malafede onniestesa. Dov’è il trucco? Ragazzi, venite fuori… Dev’esserci un’altra ragione, poi, accanto alla protervia. Alleata alla protervia. Già. Ci si domanda: ma l’economia esiste davvero? Barrare una delle tre caselle. Sì; no; non so.

Se avete barrato sì, continuate a leggere.

L’analisi costa. La filologia è maledettamente impegnativa. La classe intellettuale, grazie all’opera sagace di recenti ministeri, o è demolita oppure è ricattata e poi demolita lo stesso. E comunque:

Aspirare a un dottorato è insania piena, roba da curare con l’elettroshock. Cercare un assegno di post-dottorato non sembra mira più savia. Accettare una ‘cattedra a contratto’ (quand’anche venga effata dalle Autorità Logofore) è uno sport di lusso, il salto dei pasti con 24 avvitamenti finali e riverenza iocundissima. I gradi successivi della carriera accademica competono poi alle truppe di esseri che stanno (avete notato?) sostituendosi alla specie umana.

Non c’è e forse non ci sarà una filologia per la poesia contemporanea, perché costa. La selezione di classe è rigidissima. Altro che «a room»; qui è imprescindibile «a loft & cadillac of one’s own». E: non si danno ‘partiti di opposizione’ a questo stato di cose. (Partiti? Opposizione? Presto! un vocabolario!).

I dolenti docenti delendi che imbambolati congegnano convegni sul callifugo Carducci e passano le acque in loop nell’anno sabbatico sono giusto con un piede e mezzo nella fossa. Perituri. Gli organismi mutanti che in loro hanno da tempo deposto le uova, e di cui già si vedono scintillare i gagliardi molari molati, hanno interesse ad altro. Altri loghi.

Cosa saranno le facoltà universitarie tra vent’anni? Piano bar? Magari. Sale di proiezione endopsichica? Megaciclamini ayurvedici con la cupolotta in plexiglass? Microchip? Solo il potere non cambia né cambierà, si direbbe.

È la situazione ideale per scrivere, questa, diciamocelo. Si può fare sul serio. Il rigore del lavoro di ricerca può crescere, in un ambiente così ostile, invaso di azoto.

Chi resiste adesso, non essendo un mutante, un alieno-killer, ha qualche merito. Resta da vedere se rimarrà una storiografia o futura critica capace di prendere atto di questa resistenza.

Facilmente no.

(O no?)

[ Sul tema, vedi anche: Massimo Sannelli, Shelter from the Storm. Frammento di politica ]


domenica, 15 agosto 2004   [link]

 

Il freddo e il caldo

Nel 1944, quando Alfonso Gatto pubblica La spiaggia dei poveri1, esiste ancora quell’Italia contadina e ferocemente ingenua che nel giro di due-tre decenni di attività politica e di distruttivo “miracolo economico” sarà spazzata via, incenerita. Per sopravvivere solo in forma di museo.

Roberto Roversi, intervistato nel 1990:

«Il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo… dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina. In brevissimo tempo fu spazzato via, al riparo di una indifferenza quasi generale, un mondo che rappresentava l’unica montagna contro l’invadenza del nuovo capitalismo. Arraffone spietato e cialtrone. Non ci fu pietà per nessuno. Alla fine restarono solo le ruote dei carri, gli alari dei camini e i gioghi dei buoi appesi nei musei-cimiteri allestiti in fretta per raccogliere le spoglie ramazzate sul campo di battaglia. Anche qualche scodella di latta. E il filatoio della nonna. Sembrava un film di Ford, con il settimo cavalleria, quando gli eroi superstiti si aggiravano fra i morti indiani e fra i carri che ancora bruciavano… dentro l’enorme pianura secca e senza alberi… Chi vince e opprime con la prepotenza versa sempre, dopo i genocidi, queste lacrime di coccodrillo. Tutto sta a non lasciarsi incastrare, almeno nei sentimenti.
«“La raccolta del fieno” è già, per me, una piccola personale finestra aperta, direttamente, su quel mondo che cercherò in seguito di intendere ancora meglio e di partecipare con più coordinazione in “Dopo Campoformio”. Era una scelta, sia di campo che di vita […] Partecipare con chi era calpestato, che è molto di più che essere oppresso. L’oppressione è politica, coinvolge la società intera, presuppone un nemico con gli occhi di brace che tu vedi e affronti, secondo la norma… mentre un piede sul collo lo sente il singolo come se avesse per sé solo il peso del mondo addosso, senza poter contare su qualcuno. Io, per me, facevo conto e cercavo di fare conto, esclusivamente delle cose e dei fatti che vedevo. Per esempio, sembrava sul serio di poter ascoltare durante la notte, a notte fonda, attraverso le finestre socchiuse, il passaggio dei carri, nella trasumanza dal sud al nord, di questo popolo di migratori senza terra, spinto a risalire lo stivale per cercare lavoro. Non cento, non mille, non centomila ma milioni di persone che camminavano i mille chilometri per entrare in periferie ossessive, in dormitori da quarto mondo… Durante il giorno avevo in testa perfino il suono di questo passaggio, un battere di gavette contro le stanghe dei carri che passavano. E questa migrazione epocale stabiliva anche la fine di una civiltà dentro alla quale anch’io ero nato qua in Emilia e che non si sarebbe più ricomposta. Così addio anche all’Emilia, non verso Milano ma verso Ferrara; il grande paesaggio padano spolpato ogni giorno di qualcosa; masticato, aggredito, vomitato, sconciato, sopraffatto; macchina fredda di ferro per produrre soldi, senza più acque e cielo. … Questi pellegrini così inermi e sbandati erano poi sottoposti a qualsiasi ricatto sociale. Unico atto immediato, venivano risucchiati in fabbrica. Ingoiati alla mattina risputati alla sera»2

Quando Edoardo Sanguineti colloca Laborintus all’interno dell’intenzione di «fare dell’avanguardia un’arte da museo», chiaramente arriva in ritardo su quell’operazione di distruzione, incendio e successiva museificazione – di ben diversa entità ma anche maggiore gravità (ed estensione anche linguistica) – che Roversi precisamente descrive.

Prima della collocazione di Duchamp tra le salme da esposizione (gabbia per altro assai stretta) e i materiali da costruzione, ben altri oggetti e linguaggi diversi e di comune uso erano stati arsi – e le loro spoglie affisse nelle teche, a disposizione dell’antropologia. (Senza considerare quel che mafia e neocapitalismo stavano alacremente costruendo e decostruendo, al sud come al nord).

E tuttavia non può avere ragione chi dice che un confronto con la distruzione delle forme, con l’espressionismo astratto (tutta l’avanguardia europea e americana), negli anni Cinquanta e Sessanta, avrebbe dovuto o potuto trovare solo vie diverse da quelle dei Novissimi. Le altre vie, anche violentemente individuali (‘separate’), erano esse stesse non troppo distanti da quelli. (Si può anche pensare a Emilio Villa, Amelia Rosselli, Edoardo Cacciatore).

Dunque non aveva torto Sanguineti nel 1961 a dire (tacendo il suo obiettivo, che chiaramente era Pasolini) che «negli anni ’50, chi voleva gettarsi con felice ottimismo su un terreno “costruttivo”, rifiutando le vie dell’informale» rischiava di scambiare «per soluzione “progressiva” la regressione verso il decadentismo, scavalcando à rebours il terreno “franco” dell’avanguardia europea»3 o – che è l’identico – rifiutandosi di attraversarlo.

Questo per suggerire che, ‘a informale attraversato’ (e in realtà sempre attraversabile, e sempre codice aperto), sia Pasolini sia Sanguineti sono chiavi utili?

Riprendiamo il filo del ‘pretesto’ Alfonso Gatto.

Nel ’44, s’è detto, esisteva ancora quella Italia di “spiagge dei poveri” su cui sembrava che solo un lirismo stanco si esercitasse (e non, anche, un discorso a modo suo obiettivo). Nel giro di pochi anni tutto viene raschiato via. I poveri non mutano condizione, ma non hanno più l’orto accanto alla baracca. Viaggiano per ore verso la città, per nutrire chi li inchioda. È evidente che su una realtà in bilico tra pianto pre e post-industriale, la prosa lirica e i bozzetti di Gatto appaiano (ora) tracce di referti su quanto scompare. Mentre poco dopo la loro stesura (agli occhi – che so – di chi inizi a scrivere Laborintus già a ridosso del 1951) spiccavano principalmente i caratteri, intollerabili, di anacronismo – di elegia.

A metà degli anni Cinquanta, poi, gli scrittori di «Officina» tentano – sperimentando con quel che resta delle retoriche d’anteguerra e degli anni Quaranta – di dare regesto del disastro avvenuto, il conflitto mondiale, e di quello in corso, la «trasformazione antropologica». Due collassi visti come ‘esterni’ e ‘obiettivi’: il precipitare di una pietra storica.

(La neoavanguardia, con altri strumenti e per altre vie, avvertiva per prima – forse – la pietra psichica).

Gli autori di «Officina» scontano i tre vizi della lirica italiana, dunque: 1, l’attrazione per il realismo (ma virato verso) 2, la prosa d’arte di eredità ermetica (condannata da accentuati debiti verso) 3, Pascoli.

Allo stesso tempo, nonostante ed anzi entro questi limiti, «Officina» è il luogo di incubazione – direi – del Pasolini saggista e regista; e del Roversi de I diecimila cavalli. Del Fortini de I cani del Sinai (poi film di Straub e Huillet).

Ma è necessario spostarsi oltre le note su questi autori: note che non vogliono ‘giustificare’ le scelte di stile, ma nemmeno spiegarle.

C’è semmai una riflessione da fare sul campo di ‘riduzione dell’umano’ che la neoavanguardia sa osservare e denunciare – ma di cui pure (e ambiguamente, per dichiarato statuto) vive. Dissociazione e schizofrenia, essendo i loro riflessi disattesi dalla lingua pasoliniana, trovano casa nell’avanguardia. E presto la parola non-mimetica si fa strada sulle pagine importanti, per l’Italia, di una rivista come «Anterem», che nasce nel 1976.

Di qui uno ‘schemino’?

Neoavanguardia – banda stretta/fredda: esatta ma crudele, antiumana talvolta (più che ragionevolmente antiumanistica) – Postmodernismo (critico) VERSUS «Officina»: banda larga/calda: inesatta ma ‘umana’, ingenua e fuori tempo talvolta (più che scientemente ‘arcaizzante’) – Tardo modernismo (critico)

? ? ?

A non essere accettabile, trascorsi i primi anni di un secolo “addirittura XXI”, è precisamente questo ‘dualismo’. (Eppure: alcuni mesi fa un convegno tra tanti lo riproponeva. E: tuttora è, va ammesso, un possibile, non unico ma possibile, strumento di conoscenza).

Già Massimo Sannelli, in un intervento su «Smerilliana» (n.3, febbraio 2004), fa i conti con un certo modo di ragionare per codici binari, prassi all’apparenza ineliminabile da una certa mentalità letteraria italiana. E sembra che tuttora, attraverso le eredità della ‘coppia storica’ (storicamente in conflitto) Parola innamorata / Scrittura materialistica, diversi sciami di microconflitti covino in una comunità letteraria che, a specchio delle correnti del golfo della sinistra.it, va scindendosi in piena schizomania.

La questione dei conflitti, spesso miserevoli, interni alla comunità degli scrittori italiani, se è interminabile, è anche noiosa; e intralcia spesso il lavoro di chi, sperimentando e volendo semplicemente mettere in comune conoscenze, acquisizioni, scritture, laboratorio, ricerca, si vede interdetto da deviazioni forzate, highways & sottopassi diplomatici, precedenze da rispettare, botole, bon ton di sapore baronale, e via e via. La situazione si trascina nel ridicolo.

Anche perché altre tradizioni letterarie hanno affrontato – e risolto in testi di fatto – queste stesse questioni (e la stessa poesia italiana; tanto che molti autori delle ultime generazioni prenderanno questo intero scritto come un rovistare puerilmente il fondo vuoto di una conserva scaduta).

Penso ai versi di John Ashbery, al suo ego poetico circondato da ritagli di giornale, post-it, cattive informazioni, ‘risultati parziali’, assemblati insieme con una coscienza fluttuante che assume la propria provvisorietà non solo come stiletto per attraversare i materiali, ma come strategia metapoetica. Il provvisorio che descrive il provvisorio.

O a Robin Robertson, Charles Simic, Simon Armitage.

O a Thomas Pynchon (per la prosa). Leggiamo una parte della postfazione di R.Cagliero a Entropia: «l’alternativa sta nello scegliere tra la creazione (modernista) di un’identità, ricucita attraverso il tessuto di altri testi, e l’accettazione (postmodernista) della precarietà di quell’identità – e dunque in un’affermazione della frammentarietà e del dubbio come modelli della conoscenza»4. In realtà, suggerisce Cagliero, Pynchon non ‘sceglie’, bensì lavora – nei suoi pastiches – in entrambe le direzioni.

Che mi sembra una buona indicazione di prassi. Identità ricucita da altri testi + dubbio sulla stessa (ma uso di questo dubbio come ulteriore strumento di indagine).

_________________________

1 Ed. Rosa e Ballo, Milano. Rist.: Ripostes, Firenze 1996.
2 Gianni D’Elia (a c. di), Conversazione in atto, intervista a R.Roversi, in «lengua», n.10, luglio 1990, pp.39-40.
3 I Novissimi, cfr. la nuova edizione Einaudi, Torino 2003, p.204.
4 Roberto Cagliero, Thomas Pynchon e le integrazioni segrete, postfazione a T.Pynchon, Entropia, cit., p.246.



domenica, 08 agosto 2004   [link]

 

Si può scrivere in (altra) prosa

Circa un quarto di secolo fa Ivos Margoni e Cesare Colletta scrivono il saggio Sull’oscurità delle «Illuminazioni» (in A.Rimbaud, Illuminazioni, Rizzoli, Milano 1981), codificando esemplarmente la lettura di una delle opere ‘fondative’ del Moderno, ed inquadrandone il valore. Fissano l’attenzione su un’oscurità che non è «di tipo enigmistico», tale cioè che «una chiave di lettura [ne] decripti» senza ombre il significato definito e pre-scritto «palesando il senso recondito». Il libro delle Illuminations porta «bensì il peculiare spessore semantico di un’opera volutamente eccedente nei significati potenziali e che fa di questa eccedenza il proprio centro» (Op.cit., p.23).
Nel 1981 il percorso di una linea di scrittura enigmatica in Italia e in Francia è ancora in fervore. Linee (ma spesso esauste) raggiungono i nostri anni.
Tuttavia è non meno vero che negli anni Novanta tornano a rotolare pietre anzi sciami e presto valanghe di ‘narratività’ imposta-ritrovata-risanata, e di ‘trama’, ‘chiarezza’, e resuscitato romanzo (spesso: feuilleton in frac da Letteratura).
Che l’arte della prosa, senza essere prosa d’arte, possa evitarsi però di commerciare con il mondo nel linguaggio (tutto-schiavo) del mondo, lo pensava Amelia Rosselli nel 1954 già con le acquisizioni delle Prime Prose Italiane: e vedine poi il Diario Ottuso (del 1968).
Questa linea di scrittura in prosa, antilirica e razionale ma non arida e ‘algebrica’, non oulipiana, non ha sempre interlocutori francesi, e certo non ne ha che rarissimi in Italia.


domenica, 01 agosto 2004   [link]

 

D’altro canto: «se l’opera è riuscita, ha lo strano potere di insegnarsi da sé» (Merleau-Ponty)


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Quanto dista?

Uno dei problemi della letteratura consiste in questo: che ci si mette sempre a portata di voce. Per futili (=insuperabili) ragioni.
Così la raggiungibilità dell’autore sembra mimare una raggiungibilità della sua scrittura, o perfino (che è peggio) dello scrivere in generale.
Dunque l’auctor (che fa sul serio) felicemente dovrà volere e fabbricare pagine – e sé – come sogni: come sono i sogni: perentori e astratti.

luglio 2004

domenica, 25 luglio 2004   [link]
 

Militanza, limite

Dal 1989 cioè dall’inizio e poi crescita di collaborazioni a una serie di riviste ed attività, qualcosa è cambiato. Per un certo numero di anni sembrava (a chi scrive è sembrato) che fosse possibile non la forma-gruppo, ma insomma una co/operazione artistica, un lavoro circoscritto ma costante – e costantemente riconfigurato. Che formava progetti e incontri e letture, pubblicazioni, mostre. Nei fatti qualcosa di simile si è attuato; ha avuto luoghi e modi e forme. Non è stato altrettanto (o altrettanto facile) in anni più recenti, in questi ultimi. (A eccezione dell’esperienza di Akusma, che per sua natura ‘resiste perché si trasforma’ – continuamente). Allora:
Una nota personale. (Excusez). Una forma di ‘limitazione della militanza’ è probabilmente (sempre a chi qui scrive) necessaria; non si può evitare nemmeno volendo. [Qui sotto, anche, si ripubblica in carattere ridotto un post di alcuni mesi fa, che spiega altro ancora].
A fronte di un dispendio e incendio puntuale, le risposte che arrivano sono aride e rare. Dopo parecchi mesi di attività, giocoforza ne vengono conseguenze precise (senza amarezza).
Tolta «bina» e pochi altri progetti che a ottobre si avvieranno, ci sarà uno stop non piccolo: finiranno le attività di connessione, creazione di iniziative, coordinamento, promozione, lettura, presentazione di libri, organizzazione di mostre e quant’altro. Non solo è necessario il tempo, ma anche riempirlo (quando e se c’è) di cose sensate, belle, serie e serene. Per qualche ragione, soprattutto nei mesi recenti si sono manifestate e tuttora si manifestano pagine invasive, aggressive e brutte, il dolore di leggere cattivi libri, ingenui, kitsch, e così una quantità insopportabile (poi alla fine sempre sopportata, e bruciante) di fatica nel rispondere e dialogare mediando, con una cortesia che evidentemente deve appartenere a un’altra stagione storica.
Allora: è importante limitarsi, in questa disponibilità al mondo. Limitare il mondo, limare la quantità di mondo che pretende di entrare, di avere regno in un regno che non è suo.


Sociologismo volgare

Molte ragioni di assenza dai luoghi dove si fa poesia (letta) risiedono in un’ipotesi da verificare (e, da chi scrive, già ora verificata): non ha più spazio di esistenza quello che anche poco tempo fa era definibile poeta operaio. (Si scusi la patina ‘vetero’).
Molti obietteranno che fitta/forte fatica comporta la vita di tutti, aujourd’hui. Contro-obiezione: la fatica fisica, unita a quella intellettuale, al contatto con il pubblico, all’assorbimento di tensioni altrui (ogni lavoratore dipendente sa di che si parla), per un tempo di oltre 8 ore al giorno (molto oltre le 8 ore), bloccano ogni attività. Bloccano le ‘partecipazioni’. Del resto, chi non ha altro che il lavoro per tenersi in piedi – non contando su nessuna altra ricchezza – deve dare precedenza alla partita doppia delle energie e del denaro. (Woolf versus Bataille). La classe sociale di appartenenza, lo si voglia o no, determina – non con forza ma proprio con violenza – una quantità di azioni e omissioni dell’auctor. A scrivere è sempre il corpo.
Traducendo: non me ne vogliate per le assenze. Forse è anche vero che la mia idea di letteratura contempla una presenza che è in primo luogo testuale. Ma molte concezioni (contemporanee, che solo in parte ‘sento’) della letteratura non guardano troppo di buon occhio il testo. O non vorrebbero ci fosse ‘solo’ quello.
Tuttavia: quando nessuno di noi esisterà più, resterà precisamente la carta, da sola, con le file delle parole. A difenderci (a diffonderci; diffondersi su quanto eravamo).


domenica, 18 luglio 2004   [link]

 

Su due brani di Ashbery

Alcune annotazioni su due passi di John Ashbery, entrambi dalla raccolta Houseboat days (1977). Il primo è preso dalla poesia Friends:

I feel as though I had been carrying the message for years
On my shoulders like Atlas, never feeling it
Because of never having known anything else. In another way
I am involved with the message.

Sento come avessi portato per anni il messaggio
sulle spalle, come Atlante, senza mai
sentirlo: non avendo avuto mai
conoscenza di altro. In altri termini
io sono coinvolto nel messaggio.

Stando alla nota interpretazione di Kafka, Atlante avrebbe potuto in ogni attimo deporre il peso del mondo e andarsene; nulla però oltre questa coscienza gli era concesso avere. In realtà Atlante è – come suggerisce Ashbery – non semplicemente coinvolto (traduzione italiana a cui siamo forzati) ma addirittura tessuto dal suo peso, dal mondo-messaggio. Ne è costruito. Implicato, involved with. E la sua coscienza forma messaggio.
Le parole articolano la bocca che le parla.
Lo stesso Ashbery in epigrafe cita queste parole di Nijinsky: «I like to speak in rhymes, / because I am a rhyme myself».

*

Il secondo passo è la conclusione della poesia And Ut Pictura Poesis Is Her Name:

                    …His head
Locked into mine. We were a seesaw. Something
Ought to be written about this affects
You when you write poetry:
The extreme austerity of an almost empty mind
Colliding with the lush, Rousseau-like foliage of its desire to communicate
Something between breaths, if only for the sake
Of other centers of communication, so that understanding
May begin, and in doing so be undone.

                    …La sua testa
serrata alla mia. Eravamo un’altalena. Qualcosa
andrebbe scritto su come questo ti
investa quando scrivi versi:
l’estrema austerità di una mente quasi vuota
in collisione con il ricco fogliame, alla Rousseau, del suo
desiderio di comunicare
qualcosa tra i respiri, fosse solo per il bene
di altri centri di comunicazione,
così che l’intendere possa
iniziare, e in tanto essere disfatto.

La direzione della freccia punta verso «other centers of communication», così che la comprensione, e il passaggio di senso, possano iniziare in virtù del fatto che coincidono con il proprio (sempre imminente e dato) dissolversi. Ogni percezione è un doppio scarto; salto di sensore e oscillazione fra too-high e too-low. Sullo sfondo della negazione di luce, cade luce.
La fitta rete di implicazioni delle cose, del mondo, non è altrove rispetto al cerchio del senso-non-senso. Anzi questo meccanismo generale è in evidenza solo se e quando avviato in virtù del mondo (e da questo però svincolato, come un giunto cardanico che lega e scioglie superfici, e sé con esse).


martedì, 13 luglio 2004   [link]

 

Alcune pubblicazioni online recenti:

_ 4 poesie sul sito de «L’Area di Broca»
_ 6 prose da Fotosfera nel sito di Nazione indiana
_ Quattro inverni senesi sul sito del Premio Castelfiorentino
_ un piccolo saggio su autori contemporanei nel n.1 di «Ulisse»
_ una generosissima intervista/conversazione condotta e ricostruita da L. La Rosa è nello Speaker’s Corner del sito Rizzoli RCS


lunedì, 12 luglio 2004   [link]

 

Delle specificazioni

La critica è, prima di qualsiasi posizione (delineata), il vagare della preposizione «di».

Il divagare della proprietà, del proprium, del possesso di cognizioni. (Processo). Delle specificazioni


sabato, 10 luglio 2004   [link]

 

Di una evidenza

Se la tecnologia tematizza in meccanismi l’esperienza del senso; e veramente nel tempo realizza o in sé (in oggetti) costituisce di fatto «un mondo a misura d’uomo», fabbrica un mondo orribile.
Il «se» è retorico. Quella espressa è una constatazione.
Sia i meccanismi di accelerazione immateriali (ma vissuti, verificabili) sia gli oggetti che in concreto ne sono origine o esito, rappresentano con fedeltà via via crescente, high-fidelity, quello che già siamo, e la rapidità dei tracciati mentali.
Globalmente questo non è né gestibile né – in quanto gestirlo è istanza sensata – umano.
Dove una società assomiglia e si fa anzi sosia di meccanismi interiori, abdica a quelle incongruenze e lacune entro le quali precisamente quei meccanismi amavano trovare (hanno sempre trovato) spazio di vita, valore, esistenza.
La mente può funzionare a velocità impressionanti proprio perché non funziona sempre a velocità impressionanti. Ergo, quando una struttura complessa come una società, o addirittura una intera civiltà (occidentale), che invece non può mai ‘spegnersi’ e deve assicurare continuità e coerenza di funzioni, assume nella propria veglia ininterrotta quelle velocità, quelle assenze di lacune fatte però sistema, quel desiderare (e) mutare che sono lo specifico della mente nei suoi picchi di attività, non può che rovesciarsi in macchina di tortura.
Una società a misura d’uomo è un inferno.


sabato, 03 luglio 2004   [link]

 

      cil qui sevent d’escriture
solent amer a demesure;
cil qui plus set
aime plus tost et plus tost [h]et
s’il voit chose qui li agret

      chi sa di scrittura
di solito ama a dismisura;
chi più sa
più in fretta ama e più in fretta odia
se vede cosa che gli piace

[ Richeut, 1159-70 ]           

giugno 2004

martedì, 29 giugno 2004   [link]
 

Tracce cave

Forse negli anni finali del Novecento – tra molte vicende – è successo anche qualcosa del genere: la carcassa carbonizzata o la scocca negativa del nome e dell’identità e consistenza del soggetto (e) del testo (di cui p.es. Carmelo Bene è stato formidabile eraser/promoter) ha lanciato e sprizzato, trascinando sé attorno alle mura della città, una scia di scintille che ha acceso non un ripristino ‘di primo grado’ cioè ingenuo di quell’io-frammento che (tardivo in Italia) con i vociani inaugurava giusto il secolo scorso; ma semmai la traccia cava di qualcosa che sta via via, da circa una decina d’anni, grazie a vari autori, riempiendosi di pagine di senso.

Questi autori scrivono e leggono – e si leggono (e si scrivono) tra loro, fabbricando insieme e separatamente senso-non-senso, a più livelli legati/distinti. Raccogliendo anzi avendo per crinale di riferimento gli oggetti enigmatici e le esitazioni che il secolo XX ha disegnato. Primo fra tutti l’enigma dell’oggetto estetico.

Attenzione: il Novecento non ha lasciato loro queste cose ‘in eredità’. Le ha semmai tessute in loro; come carne e sangue il feto prende dalla madre. Di fatto Rosselli e Villa e Zanzotto ma anche Campo e Sereni e Montale (rimanendo all’Italia), per i nati diciamo da inizio-metà anni Sessanta in poi, non sono “strumenti” ma linguaggio assorbito; parola materna. Che viene da testi avvertiti in gran parte come sciolti dai vincoli di lotte e correnti entro cui gli anni delle loro edizioni li collocavano. Così il loro è linguaggio “sovrascritto nel” corpo, e attraversato in parallelo da apporti dell’elettronica, della videoarte, della tv e pubblicità e spazzatura da – avanzata e attestata – trasformazione antropologica.

È impossibile scindere Nan Goldin da Boltanski. (Avrebbe poi gran senso dividere radicalmente Céline da Rilke?)

[ Dire che due o più autori tra loro virtualmente in ‘opposizione’ non sono scindibili non significa aver abbandonato la ‘conflittualità’ che è implicita nel darsi di poetiche connotate (o in via di connotazione). Ma il conflitto può variare forme. Questo per affermare un accordo parziale – entro limiti da definire altrove – con interventi come Il secolo del montaggio, di Edoardo Sanguineti: cfr. M.A.Bazzocchi, F.Curi (a c.di), La poesia italiana del Novecento. Modi e tecniche, Pendragon, Bologna 2003, pp. 251-257. Possiamo non ritenere storicizzate alcune esperienze (letterarie o meno); durante questo nostro “non ritenere”, tuttavia, quelle esperienze diventano comunque storia. Voltare le spalle ai fatti non li cancella ]


Esce oggi, 29 giugno, il n.1 di «Ulisse», la rivista online edita da Lietocolle. Interventi critici di Franco Buffoni, Maurizio Cucchi, Gianni Turchetta, Flavio Ermini, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Roberto Carifi, Vincenzo Bagnoli, Giampiero Marano, Mario Santagostini, Giovanna Frene, Ranieri Teti, Tiziano Fratus, Patty Aloisio, Angelo Rendo, Flavio Santi; e testi poetici di Fabrizio Bernini, Massimo Sannelli, Paolo Fichera, Patrizia Mari, Tiziana Cera Rosco, Italo Testa, Nicola Ponzio, Roberta Lentà, Marco Simonelli.


martedì, 22 giugno 2004   [link]

 

Da Fortini

Da Franco Fortini, Avanguardia e mediazione (1968, in Verifica dei poteri, Einaudi, Torino 1974, rist. 1989):

«due direzioni, quasi sempre presenti nello svolgimento delle letterature, [si sono] presentate anche nella letteratura di origine surrealista (e con questo termine implico […] gran parte delle motivazioni delle avanguardie). La prima, accentuando l’autosufficienza dell’operazione sul linguaggio, tende a concludere, e quindi a chiudersi su di sé, secondo un modo che presuppone già data, nella complessità storico-sociale circostante, l’integrabilità del proprio discorso, la collocazione del proprio microcosmo (fino all’immediato ieri l’abbiamo ritrovata, ad esempio, in certe poetiche del gruppo francese Tel Quel: la rivoluzione al livello del linguaggio è parallela a quella politica, ecc., ciascuno faccia il proprio mestiere, l’integrazione dei diversi momenti è demandata, infine, al potere). La seconda tende ad avvertire l’insufficienza ed i confini della propria “specialità”, rinvia ad altro da sé la propria interpretazione ed il proprio futuro, taglia trasversalmente i generi, ecc., esercitando una sorta di funzione vicaria nei confronti di quelle organiche d’una società in fieri, una società che si disegna in modo contraddittorio per entro il disfarsi della presente. […] Ebbene questo “aprirsi” di un’opera, non appena ad una pluralità di interpretazioni ma all’altro-da-sé, questa incompiutezza nonostante la conclusione formale – che è di tutti i capolavori – perché il discorso continui in filosofia, in scienza, in prassi, questa è la preziosa eredità, contraddittoria, che dal Romanticismo scende alle Avanguardie e a noi».

Si può muovere una critica alla descrizione della “prima direzione” fatta da Fortini. Ci sono senz’altro periodi storici in cui “autosufficienza” e “conclusione” del (o di un certo) linguaggio scritto valgono come segnali di inserimento aconflittuale di suoi scriventi in un contesto politico ‘già dato’, al quale si demanda un’integrazione (o implicita dissoluzione) del codice stesso negli itinerari e nelle prassi della vita ‘normale’ (o normalizzata: nel “sempreuguale”).
Ma il sospetto è che questo accada precisamente nei momenti di vertigine, di rivoluzione (sentita) imminente. Per esempio …nel 1968, anno di stesura – guarda caso – dell’articolo citato. È in quei momenti storici che un’area di scrittura clus può darsi (e forse giusto in quegli anni si è data) una percezione minore della necessità di “aprirsi all’altro-da-sé”, per – invece – lasciar fare al potere.
(E, questo, detto per inciso, vale sia che avesse ‘ragione’ Fortini, sia che avesse ‘ragione’ l’avanguardia da lui criticata: è la qualità in qualche modo ‘eterodiretta’ dell’azione degli scriventi a bloccarli).
Se la riflessione cade invece sul presente, su un pianeta letteralmente blindato da una superpotenza avviata all’incenerimento dell’ecosistema, e alla costruzione di un Impero che divora e si divora, dunque in uno dei momenti forse più lontani da qualsiasi rivoluzione che il mondo intero abbia conosciuto, ecco che è inaggirabile conferire un valore di resistenza al gesto di intrecciare, allacciare entrambe le linee di poetica descritte.
Da un lato, la coscienza di una impraticabile confusione di politica e scrittura poetica (se non in recuperi kitsch, a loro volta perfettamente assorbiti dall’omologazione); da un altro lato l’attraversamento dei generi, nella dialettica di compiuto/incompiuto che rilancia il discorso dell’opera verso l’ascolto e il riuso da parte di altre aree intellettuali, scientifiche o antropologiche o ancora di altro segno.

Questo è ovviamente un frammento di auspicio. La struttura della realtà degli scriventi è iridescenza: indocile, improgrammabile (per fortuna).


domenica, 13 giugno 2004   [link]

 

In versi

Se ancora adesso è pensabile esporre ed esperire il darsi-revocarsi del senso all’interno di una logica sottrattiva, come quella a cui fa o ha fatto per molto tempo riferimento un certo tipo di fotografia, è anche pensabile che ciò abbia qualche rapporto con ‘peculiarità di sottrazione’ che pertengono alla poesia, ai limiti e margini che le sono propri.
Se scattare una fotografia è ciò che è (o lo è stato fin qui) perché significa non scattarne infinite altre – e ‘far pesare’ in verticale sull’unica realizzata l’assenza violentissima di quelle fatte cenere – probabilmente anche in poesia il rifiutarsi di riempire ogni vano, e lo stagliare forme “sottrattive” ha una qualche ragione da far valere. O addirittura partecipa di una poetica. Ancora fruttuosa.

[ Dire «ancora fruttuosa» non significa tuttavia abbracciare in pieno quel che di Jakobson leggiamo in saggi come Il segno della poesia e il segno della prosa (in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985), di Umberto Eco (indispensabile per le riflessioni fin qui fatte e da fare). Le affermazioni secondo cui, p.es., in poesia il significato è un portato eccellente del suono e «le parole sono scelte dal ritmo» (diversamente da quanto accadrebbe nella prosa), sono da un lato messe in crisi da Eco stesso in conclusione di saggio, e d’altro lato semplicemente parziali. In verità, e ancora, una lettura addirittura trascendentale (non trascendente) del far poesia imporrebbe di dire che piani del suono e piani del senso (e loro complicazioni) non sono entità separate o “soltanto” intrecciate e virtualmente sempre isolabili come virus: sono invece corradicali, coinvolte in un paradosso. Sono implicate nel paradosso …di implicarsi vicendevolmente, e fondarsi l’una con l’altra in forme che, in poesia, si danno per invarianti, disposte a dar senso. Si tratta in definitiva di forme che di quel paradosso stagliano poi l’esser funzionale e funzionante proprio in virtù dei limiti (insieme fonici e semantici) che lo originano, entro i quali esso si è fatto esplicito, visibile, parlato ]

Se i versi sono una serie che nell’a-capo, per esempio, si autolimita; se il bianco della pagina è spazio per il riverbero di quanto non è interamente detto; se la disposizione delle parole sa rendersi necessaria quanto la disposizione dei vettori di senso nelle linee di una fotografia; se il rifiuto di ciò che continua (prorsus) fa del versus una ferita che chiede il contributo del lettore per essere non diciamo sanata ma perlomeno curata; se l’esattezza di alcune e solo alcune parole, e dei loro rapporti fonico-semantici, rende qualsiasi altra parola sfondo sottratto (che traspare …ma giusto come sfondo sottratto); se tutto questo è vero, allora ci sono affinità profonde tra un certo modo di intendere la fotografia e un certo modo di intendere la poesia.


sabato, 05 giugno 2004   [link]

 

Recensione a V.Magrelli


mercoledì, 02 giugno 2004   [link]

 

Breve nota sul lavoro di Massimo Sannelli

La scrittura di Massimo Sannelli, in questi anni e anche nei libri recentissimi (La giustizia e La posizione eretta), è in assoluto tra le più rigorose, fra quelle degli autori della sua generazione. (Ammesso che sia possibile parlare di generazioni in poesia).
In varie sedi lui stesso ha parlato della particolare connotazione clus di molta ricerca contemporanea, inclusa la propria.

È forse corretto parlare di una sorta di ascesi dell’impersonalità (non un petrarchismo, dunque), dove l’io narrante è – in sequenze testuali e ipercodifiche di eventi – fortemente ma non arbitrariamente velato da schermi.
Questo stile di distacco, in cui l’ego pur allontanato su sfondi opachi riaffiora parlante da/per frammenti, ha misura sorprendentemente classica, e costringe la materia (che è infine biografica) a nudità e secchezza.

Non potrebbe essere più netta la separazione da ogni realismo. Allo stesso tempo, non si attivano compensazioni, costruzioni di maschere, di personaggi. La lingua per prima – semmai – forma e sviluppa ‘apparizioni’, angeli sintattici, o fonico-ritmici, o grammaticali: parole-segno. La casa diventa «la bambina» o «la casa bambina». A volte Sannelli istituisce nomi complessi attraverso la chiusura di una intera frase (descrittiva ma non ‘aperta’) fra virgolette.

Ipotesi: la ricerca è di uno spessore semantico (compresenza e compressione di valori semantici) che la lingua italiana non sempre garantisce, e che compete semmai all’ebraico, all’arabo, in certi casi al francese (pensiamo alla densità di un vocabolo come «lumière»..).


  [link]

 

Altri paragrafi e parentesi per la fotografia

[ L’arte ‘in senso estetico moderno’ ha esemplarità o modellizza/espone il darsi del senso come condizione di possibilità dei significati di qualsiasi esperienza, di qualsiasi atto o conoscenza… finché non accade, dal 1839 in poi, un fatto o processo nuovo, un evento ‘inconsciamente filosofico’, una sorta di rivoluzione kantiana operata dalla tecnica. Ovvero: tutto l’esperibile diventa arte nella fotografia. Nell’esperienza del riprodurre a sua volta riprodotto. Nell’esperienza del cinema, dopo. Succede che uno specchio ulteriore venga posto tra soggetto e azioni, le più banali, quelle davvero qualsiasi, di cui già una visione trascendentale dell’esperire aveva detto che racchiudevano in potenza senso e bellezza. Questo specchio ulteriore ritrasforma la destra in destra, la sinistra in sinistra, dunque riporta – o dà l’illusione di riportare – la realtà integralmente a se stessa, nello spazio e nel tempo; lasciando però la traccia o permanenza o impressione di capovolgimento. Come se d’improvviso il corpo riflesso a cui eravamo abituati fosse stato precipitato nel suo negativo, dunque riacquisito a una corrispondenza esatta, punto per punto. E un confronto o conflitto rimanesse appunto davvero aperto e irrisolto: confronto con le impressioni e abitudini percettive precedenti, speculari, entro cui la destra “sembrava” sinistra e viceversa. Ma attenzione: tutto questo effetto non è ciò che “i film” o “le foto” ottengono: si tratta piuttosto del risultato dello scatto in avanti, dell’impatto di autocoscienza, ricevuto dal nostro già configurato (in senso estetico moderno) modello di esperienza: impatto che la fotografia e il cinema hanno innescato col loro apparire esattamente come esperienza del riprodurre, e dell’essere riprodotto ]

[ È pur vero che i dagherrotipi restituivano precisamente una visione speculare, con la destra voltata in sinistra e viceversa. Ma già con Wolcott (1840) si ha l’esigenza della riproduzione non-speculare e una soluzione a quello che appunto era avvertito come «problema» dell’inversione. Così come già nel Settecento si sentì la necessità (e si trovò il modo) di ‘raddrizzare’ l’immagine proiettata nelle camere oscure ]

[ C’è una dissimmetria tra nascita del sentimento ‘del fotografico’ e nascita del sentimento ‘del digitale’. Nel primo caso, ossia con la nascita della fotografia, nasceva un sensazione di realtà fermamente afferrata o afferrabile: ed era illusoria. Nel secondo caso, ovvero con la nascita delle arti digitali, nasce una sensazione di realtà illimitatamente manipolata e manipolabile: ed è non illusoria ]

maggio 2004

giovedì, 27 maggio 2004   [link]
 

: MG’s Biblio_upgrade : uscite recenti :

> otto poesie da Double click, nelle pagine del progetto Klandestini, del British Coucil,
> l’annotazione Lo specchio piegato, a p.15 del terzo Quaderno di Poesia da fare, a cura di B.Cepollaro,
> due poesie a p.9 del secondo Quaderno di Poesia da fare (sempre a c. di B.Cepollaro),
> un poemetto e alcune poesie in «Smerilliana», n.3, febbraio 2004,
> sette poesie da Alter ne «Il Segnale», n.67, febbraio 2004,
> otto poesie in Matità n.4, feb. 2004,

> Una recensione a West of your cities (Minimum Fax: a c. di M.Strand e D.Abeni), in «Nuovi Argomenti», n.26 apr.-giu. 2004,
> Una recensione a Nel condominio di carne, di V.Magrelli, su «l’immaginazione» n.205 (mar.-apr. 2004), e in Italianistica OnLine,
> Un’annotazione su I loro scritti, di G.Mesa, in Italianistica OnLine.

> Una recensione di F.Capoferri al Segno meno in «Semicerchio» n.XXIX, 2003/2;
> una nuova nota di M.Sannelli (ancora al Segno), nel blog Sequenze,
> una nota di L.Voce su www.slow-forward.splinder.it, in «L’Unità» del 27-03-2004 e in www.lellovoce.it,
> Un saggio di S.Montalto su Le “cose” e l’ammissione del caos in Marco Giovenale, nel suo volume Compendio di eresia. Saggi critici su autori contemporanei, Edizioni Joker, Novi Ligure 2004,

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domenica, 23 maggio 2004   [link]

 

Segnalo quattro nuovi link:
> l’e-book (in formato pdf) Perché i poeti?, in cui Biagio Cepollaro ha raccolto una selezione di saggi e interventi scritti tra 1986 e 2001;
> poi il terzo quaderno di Poesia da fare (ancora pdf), sempre sul sito (e a cura) di Biagio Cepollaro;
> poi le utili pagine di Modern American Poets;
> e infine l’interessante Poetry International Web.


domenica, 16 maggio 2004   [link]

 

Le immagini di Emmanuel Bonetti

Presso la libreria Cythère-Critique, a Roma, è in corso una bella mostra di fotografie b/n di Emmanuel Bonetti: L’OMBRE D’ORPHEE DANS LES RUES DE GERARDMER.

Due piccoli cataloghi, particolarmente curati, lineari, accompagnano – con annotazioni di poetica – le immagini. Nel primo, l’autore esordisce con affermazioni di esattezza e misura: «Ces photographies ont trente ans de retard; sans cumul possible. Elles resterons figées au manque qu’elles procurent. Un héritage donc, qui force la (re)composition; une photographie retardée, qui prend le risque de la nostalgie».

Interni ed esterni di un bianco e nero ‘classico’ giocano senza timore, in effetti, la carta della nostalgia, attivando lo stile consueto dell’immagine definibile [da me qui nel blog e altrove] ‘sottrattiva’. Ogni taglio e accensione e inquadratura decide cioè – senza possibilità di alternativa – cosa è dentro e cosa è fuori dal quadro: imprimendo sul ‘supporto esposto’ il dialogo delle linee, la fabbricazione di una sintassi di simmetrie e dissimmetrie.

Una forte capacità di citazione-distacco si nota nei riferimenti netti a Francesca Woodman: nel trattamento degli interni, e delle posture del corpo. E si tratta di – appunto – omaggi che sono allo stesso tempo raffigurazioni a distanza di una possibilità di rapporto con quella che comunque (e: ormai) è giustamente considerabile ‘tradizione’ della fotografia.

Una linea di coesione forte in questi lavori di Bonetti potrebbe inoltre essere individuata nella fitta alternanza di interni ed esterni. E gli stessi contrasti aspri (ricchi, a mio parere) tra neri assoluti e bianchi assoluti fanno riferimento a un modo di vedere il dato contrastivo come una normale violenza dello sguardo.

Non possono non essere campi avversi, il nero totale e il bianco totale scelti: e non possono non comporre – giusto nello scontro – il disegno di qualcosa che (nel nostro percepirlo) non è in contrasto e non sa di totalità alcuna: il mondo rappresentato, figurato.

Così come “interno” ed “esterno” non funzionano da segni categoriali ma sono parti dello ‘scheletro’ del nostro immaginare, altrettanto possiamo qui osservare, in una delle fotografie esposte, un interno di hotel che è inquadratura invasa di marmi, le cui venature ‘aprono’ la visione alla compresenza di immobilità (marmo, appunto) e barocco (torsioni delle linee). La clarté e il suo rovescio sono in conflitto? Certo, ma entro la medesima materia che li salda: pietra, e immagine. (Il riquadro della foto).

È pur sempre un modo per dire che ogni fotografia, se riuscita, è ologramma e labirinto rappresentativo del mezzo fotografico in generale. Ormai una delle scienze umane.

Ecco cosa afferma la quarta di copertina dei cataloghi, in riferimento alle presenti e future mostre di Cythère-Critique:

«Au delà de la simple approche citationelle, la photographie peut se révéler un dispositif critique que d’aucuns n’hésitent pas à inclure, par élargissement de l’acception, dans les sciences humaines»


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Ogni giorno un castello intero di centinaia di stanze storie parchi fiumi orchestre piccole e grandi è compresso precipitato chiuso entro uno stanzino con bagno: e nel lavandino un angolo cottura: e nel buco dello scarico il morto che abita tutto ciò, sussurrandone cronaca agli altri cioè a se stesso in un filo staccato


mercoledì, 12 maggio 2004   [link]

 

Incipit di un lettura di F.F.

Franco Fortini ha scritto, con I cani del Sinai, un testo d’avanguardia? Probabilmente sì, anche se l’autore avrebbe certo rifiutato l’azzardo di una definizione simile (e si vedrà presto, quattro righe avanti, da un suo tocco polemico e ironico).

Quelle pagine avevano la pretesa dichiarata di «suggerire l’esistenza di alcune macchie lutee, insensibili alla luce normale. La forma autobiografica, dovrebbe capirlo anche un critico di avanguardia, non è che modesta astuzia retorica. Parlo anche dei casi miei perché certo che anche miei non sono. Della mia “vita” non me ne importa quasi nulla» (I cani del Sinai, De Donato, Bari 1967; poi Einaudi, Torino 1979[2]: pp.29-30).

Non sostengo che un finalismo (come quello che presiederebbe a una fantomatica usefulness della letteratura) controlli o pre-scriva la elaborazione di un libro come I cani… Ma certo un intento conoscitivo si forma durante la costruzione materiale del testo, l’itinerario che immagina. Allora in Fortini il «suggerire l’esistenza di alcune macchie lutee» significa cercare non una illuminazione di parti non chiare in una storia dolorosa che è di tutti e di un individuo, né forse la delimitazione del loro perimetro, ma semmai l’operazione di offrire o ricomporre l’esperienza-certificazione del fatto che esse esistono. E fanno resistenza. (In ciò che è reale). (Eco parlerebbe forse di linee di resistenza dell’essere).


lunedì, 10 maggio 2004   [link]

 

L’ospite (Einaudi), di Elisa Biagini, è la scena – non teatrale e barocca ma quasi set a/settico di autopsia – dove continuamente si consuma e ricostituisce un corpo. Il movimento ricorrente dello sguardo e dei gesti su cose e memoria è invasivo, come di calco e impronta (e impresa/impressione): netta la ricorrenza di «in», «dentro», «tacche», «solchi».
Giustamente Andrea Cortellessa, in una presentazione recente del libro, ha citato L’intruso, di Jean-Luc Nancy. La parola-corpo si attesta nella dissezione o durezza di una luce clinica: e – anche – nella dislocazione verso la lingua ‘altra’, che è l’inglese: «digging / for maps / of genes».


lunedì, 03 maggio 2004   [link]

 

Un benvenuto al blog di «FuoriCasa Poesia», e ai nuovi ebook di Italo Testa ed Ermanno Guantini (usciti per Lettoricreativi / Edizioni d’if).


domenica, 02 maggio 2004   [link]

 

Guasto, gusto

1
Se la realtà è ‘sbagliata’, il suo linguaggio lo è.

2
Allora alcune variazioni nel linguaggio, se non riparano il guasto, complicano (almeno) la situazione.

3
La devozione alla deviazione può costruirsi come necessaria. Non esserlo (ontologicamente, quasi).

4
Si può sbagliare linguaggio intenzionalmente. Dando all’errare una regola più o meno ferrea – difficilmente imitabile – e non ancora verificata da un uso, né percorsa da una comunità. Questo può essere ricercare. Trovare, prima.


sabato, 01 maggio 2004   [link]

 

Per quasi sei anni si lavora a un progetto comune, in un luogo preciso, che comprende poesia, arti figurative, presentazioni, performances. E in pochi giorni tutto questo viene cancellato senza ragione: distrutto. Con una grettezza inaudita, peggio che bottegaia (anzi: addirittura antieconomica). Ho assistito allo smantellamento rapidissimo di una collaborazione fitta di anni, senza poter oppormi, senza essere ascoltato.
C’è un’assenza nei link, qui a fianco. Al nulla dedico il nulla.

aprile 2004

martedì, 27 aprile 2004   [link]
 

È uscito Bilico, di Andrea Inglese (Edizioni d’if). Uno dei meriti di questa piccola raccolta – verificati già nella precedente, Inventari (Ed. Zona) – è quello di lavorare sul registro lirico e su quello antilirico contemporaneamente, mettendo i due toni non in cortocircuito o conflitto, bensì dimostrandoli implicati, legati. Il loro è un serrarsi a scacchiera. Come nella realtà – ma non con neorealismo.


domenica, 25 aprile 2004   [link]

 

Sottrarre [3]

La stagione storica che dispone e sviluppa forme accumulative di produzione e analisi di ‘oggetti estetici’ (e così una diffusione di tipologie accumulative dell’interpretare) le applica anche a quei fenomeni che hanno funzionato almeno per un certo periodo secondo possibili logiche di sottrazione.

La fotografia è sì una tecnologia nata col maturare del capitalismo e dell’accumulo; e tuttavia su di essa può aleggiare precisamente, a differenza del cinema, la modalità sottrattiva. Una esplicita modalità sottrattiva.
Ad avvertire una simile modalità, la nostra stagione storica non giunge se non attraverso le proprie forme: ossia – come si è detto – per addizioni di foto, per tensione alla ricerca del senso in masse di materiali quali che siano. (Tutti senza distinzioni concorrono all’etichetta “bella immagine”, “foto accattivante”, perfino “riuscita”).
Questo non ‘deturpa’ uno stato presuntivamente edenico, moderno-sacrale, dell’arte, ma mette in discussione la possibilità per la fotografia di venir percepita anche come gesto della riduzione, dell’azzeramento di alternative.

Il modo accumulativo di interpretare ed esperire suggerirà insomma che – sempre – differenti e numerose alternative si offrono al/nel reale. E che il dato di senso e valore di un’immagine resta perlomeno inalterato “anche se”… (E la frase continua con migliaia di possibilità che si ramificano).

[ Questo ramificarsi funziona così bene da non aggiungere niente alla percezione. Le assomiglia tanto da limitarsi precisamente a replicarla. Così, in apparente paradosso, un modo di conoscere basato sull’addizione può non addizionare conoscenza. ]

Osserviamo inoltre: il cumulo si accresce perfino in forma intensiva: sulla stessa immagine. Ovvero: non solo vengono potenzialmente sentiti o di fatto conservati come interessanti migliaia di attimi posti prima e dopo quello della singola foto – la cui singolarità così si assottiglia – ma in più anche senza di essi la foto isolata ha milioni di altre vite compossibili: all’interno della sua manipolabilità in sede digitale.
Sappiamo che l’immagine singola(re) è già miliardi di altre, non appena sia stata acquisita da PhotoShop. È già diventata documentari di sé, promo in più varianti, pubblicità stretta. Non questo fatto – isolato – incide; bensì il nostro saperlo.

Questo, tengo a ripeterlo, non è “male”. È in ogni caso, bisogna dirlo, l’altro dalla fotografia – o da un certo tipo di fotografia. (Ammettendo nuovamente che giusto la fotografia come strumento di massa, è partecipe e testimone della fondazione di società basate su tipologie di accumulazione).

Quello dell’accumulo è pur sempre un versante della “fotografia come sottrazione” che… non è più sottrazione; o che non vuole si sospetti possa esservi sottrazione anche e proprio nel fotografare; e che infine rende estremamente problematico un certo modo di percepire la fotografia.

[ Ora sono ovviamente innecessari i tempi di posa lunghissimi delle immagini di Hill; e dunque è impensabile la feroce sottrazione realizzata – da lì – di ogni altro tempo e posa. Nella sua Piccola storia della fotografia Benjamin osserva che il procedimento stesso induceva i modelli che Hill ritraeva «non a vivere proiettandosi fuori di quell’attimo, bensì a sprofondare nel suo interno; nel corso della lunga durata della posa, essi crescevano insieme e dentro l’immagine». Implacabili, sottraevano in tal modo qualsiasi alternativa a quella posa. Questo si registra perfino dove vi individuiamo sfocature: esse non sono affatto ‘alternative’ alle linee incise, ma bruciano anzi come nicchie e insistenze, come un’esasperazione di incisione. Inoltre, le foto di Hill sono sì un procedimento sottrattivo ottenuto per obbligo tecnico: per necessità di impressionare la lastra. Ma costituiscono in ogni caso, anzi proprio così, un esempio cristallino – forse un’origine – del sottrarre in fotografia. ]


domenica, 11 aprile 2004   [link]

 

Di alcuni autori

Di alcuni autori giovani (per i quali tutto si gioca, come deve, sul piano della assoluta necessità – tessitura della pagina: ‘compiuta’) sicuramente si deve dire: formano già una generazione. (O meglio: una linea – frastagliata – di ricerche).

Costituiscono nei fatti, e in strutture e reti che vanno tuttora formandosi, una società letteraria. Per quanto possa spesso trattarsi di persone separate, lontane per distanze geografiche o letture o itinerari di ricerca; hanno una stima (tra loro e da altri) data e ricambiata, variamente diretta, che li lega; e li fa essere in dialogo.

Per loro è giusto cercare e studiare/affiancare strutture preesistenti; ma senza dubbio assume contorno e definizione un fatto: stanno (da tempo) producendo testi che hanno rilievo, posizione nei dibattiti, poesie e prose e saggi entro cui fin da adesso vedere scorrere in tessuto loro linee di riflessione, discussione, ragioni di poetica.

Pensiamo al saggio di Massimo Sannelli ora uscito sul n.3 di «Smerilliana» (e ai suoi libri di versi, tra cui il recente La giustizia); pensiamo al lavoro che nel tempo Cecilia Bello ha svolto su Emilio Villa, attraverso articoli che sono da considerare capisaldi della bibliografia critica. Pensiamo a una raccolta come Aspettami, dice, di Andrea Raos; o al poemetto di Sara Ventroni, Nel gasometro
Altri nomi da annotare sono quelli già incontrati da chi legge regolarmente questo weblog: Florinda Fusco, Mario Desiati, Marco Simonelli, Giovanna Frene, Andrea Ponso, Vincenzo Bagnoli, Alessandro Broggi, Fiammetta Cirilli, Alessandro Di Prima, Gianluca Gigliozzi, Ermanno Guantini, Andrea Inglese, Fabrizio Lombardo, Luigi Severi, Francesca Genti, Laura Pugno.

Questi autori (qui e ora accostati arbitrariamente: per [mia] prossimità alla loro ricerca) di sicuro non formano una compagine definibile gruppo. Ma, pur non essendo nemmeno interessati a una simile modalità di progetto collettivo, si incontrano e dialogano in ogni caso in avventure di riviste, siti, newsletter, convegni, letture pubbliche, presentazioni; visitano mostre e partecipano a eventi paralleli o incrociati; ascoltano – spesso cooperano a fare – musiche assai simili.

Alcuni di loro si ritrovano su «bina», altri (o gli stessi) su Nazione indiana, o «Nuovi Argomenti», oppure su «Accattone», «La Clessidra» (o «Atelier»), «l’immaginazione», o sul sito di Lello Voce, o su quello di Biagio Cepollaro (cfr. i suoi due Quaderni del blog Poesia da fare). Chi è a Roma frequenta la Casa delle Letterature, o la libreria Cythère-Critique (ai Banchi Nuovi), o la Fondazione Baruchello.

Separatamente e insieme hanno nel tempo fabbricato elementi e forme, strade e stili fra loro non conflittuali; un clima, anche, o una nuvola di variabili, magari disordinata e di sicuro non gerarchica, che probabilmente merita una storia e – ancora – sedi e siti.


sabato, 10 aprile 2004   [link]

 

La non raggiungibilità del mondo (dalle percezioni) a sua volta non è raggiungibile. Non è chiaro se ci si muova tutti verso un’irreversibilità di terrore e guerra globali (sembra non sia lecito eluderlo, l’aggettivo).
L’estensione delle fibre ottiche o radiofrequenze o campi elettromagnetici ovunque porta ovunque lo sguardo sulla morte. Ma (inversione spettacolare): porta la morte: tout court. Chi lo avrebbe detto? Chi avrebbe voluto vederlo?
Funziona bene, questa finalmente riuscita mappa 1:1 del pianeta.
Adesso vediamo che cosa la storia è sempre stata. Lo specchio dettagliatissimo è montato di fronte alle cose.


domenica, 04 aprile 2004   [link]

 

Sottrarre [2]

Se fino a parte degli anni ’60 l’istante scelto/còlto dal fotografo brillava di qualche accensione singolare incastonandosi nell’assenza di altri istanti, ossia di infinite altre possibilità spietatamente rese sfondo cancellato, si direbbe che successivamente lo sguardo abbia iniziato a contare perlomeno sulla illimitata manipolabilità dei segmenti di tempo, di immagine; e che specie ora sappia di poter in via eventuale montare in esteso o breve filmato (o immaginare montata) tutta una corolla possibile, anzi artificialmente procreabile, di foto ‘di secondo grado’: quasi poste lateralmente rispetto al senso.
È insomma il digitale.
Questo spettro di possibilità abbassa anche la temperatura della ricerca di senso esperita nella foto che rimane o che sentiamo rimanere – nonostante tutto – singola(re).
Intendiamoci: non è qui in gioco la grandeur dell’istante. Né il lato aristocratico e insomma un preziosismo del mezzo fotografico. Non si tratta di magnificare l’Irripetibile o l’Insostituibile.
Anzi, già l’atto di vedere non l’Eccezionale bensì qualsiasi cosa è, per principio, «vedere più di quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L’invisibile è il rilievo e la profondità del visibile» (M.Merleau-Ponty, Segni).

Ci sono tuttavia formazioni grafiche e immagini ad alto grado di connotazioni e complessità di rapporti interni, per cui il loro pesare sul nostro sguardo, il loro dar senso, attraverso le strutture di ciò che semplicemente mostrano, attiene alla nostra parallela e insieme indimostrabile percezione che proprio quelle connotazioni e quei rapporti fra quelle strutture sono il risultato di una selezione spietata, di una sottrazione di alternative che – semplicemente – di fronte al risultato che spicca nella foto perdono importanza e svaniscono: ma contano infinitamente come sfondo di assenza, e come tale sono parte ineliminabile del passaggio di senso.

Questo passaggio è del resto un’addizione o arricchimento sia in termini linguistici sia in termini di esperienza. Una foto singola(re) staglia infatti una situazione o evento preciso e reale (cfr. Barthes, La camera chiara, paragrafo 35) in forme che sull’occasione di quell’evento esibiscono giusto la propria complessità di codici disponibili a intrecciarsi – in via del tutto pertinente – al reale, all’oggettività, dunque all’esperienza. (Dunque all’esperire).
La profondità e sottigliezza di linguaggi di quella foto singola(re) strutturata come la situazione di cui sa farsi emblema (cfr. le parole sulla «posa», nel paragr. 33 della Camera) esibisce la penetrabilità del reale, la sua non totale indisponibilità a venir organizzato comunque – contro e dentro l’accumulo di alternative o perfino dentro l’insensatezza che lo forma – in sintagma, in comunicazione. In sintagma e comunicazione, addirittura, “esemplari”.

La foto riuscita fa riuscire l’indagine sull’indagare. Se quella foto dice così tanto su quell’evento e su se stessa – commenta l’osservatore – forse ogni atto di visione non è atto qualsiasi; forse ogni atto di visione ha, può avere il pregio di saper seguire e stagliare, nel groviglio di rapporti senza direzione mappabile, il senso. Forse ogni sguardo ha una possibilità, anche ed esattamente entro i limiti di un solo e unico scatto, di tracciare le linee di senso implicate nel proprio interrogare il reale, gli eventi. (Quel che si dice ..avere colpo d’occhio).

marzo 2004

domenica, 28 marzo 2004   [link]
 

Sintassi

Il fatto che in tv rarissimi politici razionali battaglino in bella disperazione, a suon di nessi tra frasi e analisi e ragionamento, contro loro sodali o nemici comunque più numerosi e rumorosi e monocordi nel prediligere l’iterazione come modello di esistenza (prima che di discorso), mette addosso lo sconforto che sempre viene vedendo l’organismo complesso soccombere davanti al caterpillar monocellulare.
Il pugile, che non ragiona, abbatte il corpo che ha di fronte, con tutte le ragioni che contiene. (È, del resto, la storia della politica italiana, dal 1994 in avanti).
Un unico minimo virus ‘fatto solo di se stesso’ compromette macchine animali giganti, miliardi di cellule. Lo stato è attaccato alla radice. Era debole; ora debolissimo. Gli italiani hanno ceduto perfino prima.
Venti o trent’anni di isosillabismo, di alfabeto morse per neuroni nani, di raggi x, su una nazioncina relativamente giovane (stato che non è mai stato stato), distruggono spessori e labirinti della sintassi.
La stessa percezione del tempo sospeso, incantato, che è essenziale per attendere e volere la conclusione di un ponte sintattico, è revocata, messa in scacco, impercorribile. (La parola è atto, e atto semplice, o non è: questo ora è l’implicito/scontato in ogni esordio di discussione; in ogni rapporto; e nel lavoro; e comporta distruzione del tempo).
Ma le pubblicità, fino a buona parte degli anni Ottanta, erano pur fatte di frasi. Le ricordo. Esistevano. Poi più nulla.

Da queste linee iniziali di constatazione deriverei il valore anche politico delle ARTI DELLA SINTASSI.
Diverso tassello di una resistenza (parecchio più vasta).


giovedì, 25 marzo 2004   [link]

 

Kitsch come meta_stile

Non avrei voluto aggiornare la pagina prima della fine della settimana. Ma la casella di posta elettronica e quella di posta ‘cartacea’ e le cose sentite e lette obbligano a volte a un piccolo ‘sommovimento’ (reattivo). C’è insomma un’insofferenza che chiede di essere espressa. (È assai meno importante del brano sull’allegoria, che segue; ma ha forse più urgenza).
Di che si tratta? È presto detto:
Tutti conoscono quella frase di Debord che dice che lo Spettacolo è il Capitale a un grado così elevato di accumulazione da diventare immagine. Il kitsch rappresenta l’accumulo di segni di secondo e terzo grado, deviati e disturbati (da assenza assoluta di storia e di coscienza dell’esistenza della storia): accumulo portato(si) a dimensioni tali da configurarsi come meta-stile.
Copre ed anzi è un amplissimo ventaglio di forme dell’esperire in generale, del ‘percepire il passaggio del senso’ (in arte, nel tratto di storia che chiamiamo indicativamente “contemporanea”). Mai viste così tante copertine di libri di poesia, e (cover di) canzoni, e abbigliamento, e libri e romanzi e poemi interi configurabili come “pacchiani”. E la cosa stupefacente – a parziale critica delle certezze di Debord – è che tanto trash non fa nemmeno vendere di più.
Tuttavia anche questo (come la new slavery evidente nel mondo) può essere cifrato daccapo grazie a un ulteriore riferimento a Debord (dal Panegirico): così come «la schiavitù vuole essere amata ormai esattamente per se stessa» e non in vista di alcun guadagno da parte dell’asservito, altrettanto diremmo che il kitsch non cresce esponenzialmente per raggiungere un assenso (una fortuna economica, un ‘piacere’, o ‘il fatto di piacere’). Semplicemente esiste come alone di questa fase di lusso perfetto del capitale transnazionale, delle città mondializzate, sequestrate. Dunque è meta-stile, e insieme meta, e insieme lo stile.
Questo non lo rende meno disprezzabile. E accresce le responsabilità e l’impegno di chi gli resiste.


domenica, 21 marzo 2004   [link]

 

Allegoria; sfondo di senso

Puerilmente e per necessità (comunque da non parlanti, da infantes, si inizia un discorso sul parlare) una base di partenza per degli elementi di poetica, o di ricostruzione di poetiche possibili, ha diritto e modo di darsi come ripensamento e critica frontale al post-human; ma prima ancora, e direi in parallelo, come riferimento alle strutture e precondizioni di linguaggio che legano le società.

L’argomento stesso del discorso è ambizioso. Segno che merita affrontarlo.

Una emblematica con riferimenti rigidi, a enigma, con strutture predefinite da una ideologia o religione, ha non solo perso senso, ma probabilmente non l’ha mai effettivamente avuto (nel cuore dei parlanti, nella storia). Tuttavia il castone di senso, l’involucro-fondazione entro cui nasce (e che è per paradosso generato da) qualsiasi parlare, fa pur riferimento a emblemi come minimi segnali di uno sfondo di senso possibile, condiviso. Pensabile proprio in quanto non già pensato, non pre/definito.
Il porre un enigma innesca – tra varie forme di eco – l’allusione a uno scioglimento possibile. Dunque a un passaggio di consegne tra non senso e senso.

L’occorrenza di allegorie in poesia, anche ‘vuote’, se pure non rinvia a elementi di decodifica certa, ha a che vedere precisamente con il più generale, necessario, riferimento a ‘un’ dar senso, atto specifico dei linguaggi complessi.

È forse questo il residuo di pietà [tracciato neurale plausibile: non ‘umidore’ neoromantico] nelle arti – già offerto non come resto o scarto ma proprio come corrente di materiali in tutto il Novecento. Pensiamo ai muri segnati e graffiti di Tàpies, al personalissimo fayyum di Boltanski, e – retrocedendo – alle esperienze del gruppo Cobra, o a Mirò, soprattutto a Klee.

Un riferimento – perfino diretto – agli stessi fondamenti di possibilità dell’esperienza del senso in accezione umana.

*

D’altro canto, è pur vero che questa esperienza è strettamente legata (sa di esserlo) al “dar senso individuale”, in scala 1:1, che sembra aver preso possesso della scena artistica in maniera assoluta e incontrovertibile giusto nel XX secolo, così ‘compiendo’ (dopo i laboratori già postumani dei nazisti) quel progressivo avvicinamento o sovrapposizione di “senso” e “condizione di possibilità del senso” che aveva avuto origine con la nascita del “senso estetico moderno”.
Nel momento in cui un sentimento di produzione e un sentimento di fruizione, investitore e investimento, vanno a legarsi fino a coincidere, vediamo oggettivata quella ‘estetizzazione dell’esperienza’ di cui fin troppo si parla.
Questo estremo riferimento al carattere individuale dell’arte come “esperienza estetica” (perché tutti e ciascuno individualmente, in tutte le esperienze e in ciascuna, esperiamo il senso, esperiamo l’esperire) rischia così radicalizzandosi di escludere il fatto che il suo circuito è reale e attivo in quanto socialmente fondato o fondabile; in quanto – appunto – umano, condivisibile (anche per punti minimi, per minime superfici di contatto) con una attenzione altrui.

Se ‘estetica’ riguarda in potenza ogni evento incontrato, ecco che la possibilità di verificare ovunque fondata l’esperienza del senso, sposta quest’ultimo nell’ovunque, e in ciascuno, così dissipandone i contorni socialmente riconoscibili (marcati per distacco). E offrendo resistenza zero all’eccezionalità/crudeltà delle “esperienze estreme”. Al loro attestarsi.

*

Per certi aspetti, dunque, il lavoro sugli emblemi e il riferimento alle “allegorie vuote” è ben interno a (non svincolato da) quello stesso senso estetico moderno che registra la de/umanizzazione, il post-human. Per altro, sa o vorrebbe saper fare risuonare – nel sollecitare precisamente il valore “sociale” del produrre senso in emblemi – quello sfondo di relazioni, quella materiale condivisibilità dell’esperienza di senso, che una estetica tutta catturata da se stessa e dal “nouveau” ha progressivamente fatto impallidire, se non distrutto.

Un cranio cavo, esibito in allegoria, opacizza o elide quella prepotenza di mappatura 1:1 della realtà che un cranio cavo vero, prelevato ed esposto, possiede e impone con violenza.

È implicito nel discorso culturale limitare con strumenti immateriali (nello stesso linguaggio) il non-discorso della violenza.


lunedì, 15 marzo 2004   [link]

 

Un primo paragrafo sul sottrarre

Proviamo a pensare a una fotografia come a un’esasperata sottrazione di alternative.
Diciamo: quella è (la) fotografia riuscita, entro quei termini e confini. O: non è le infinite altre – le non riuscite, le non (così) tessute di connotazioni.
Questo, volendo, spiegherebbe perché avvertiamo il mezzo fotografico – in quanto modello – così incline alla registrazione del dolore, altra forma di riduzione a zero di alternative.

[ Lo scatto di un dolore, prima ancora di (e con il) ritrarlo, dà un’eco della modalità generale di rapporto con il soffrire ].

[ Fuori dalla fotografia: è poi il tema che inaugura e innerva – variamente articolato – tutto il saggio di Genet sull’opera di Giacometti ].

Ma se è vero che pensiamo alla fotografia come ad una riduzione drastica di sentieri nel giardino borgesiano, lo facciamo rispetto a quale (altro) mezzo che invece ne addizionerebbe? Probabilmente rispetto al cinema. Sembriamo ritenere che il cinema sia l’esposizione dell’evento intero, in tutte le sue mancanze e i suoi pieni. Di cui la fotografia sarebbe, anzi è (o di cui un certo tipo di fotografia fino a oggi è stata) il fermo-immagine non casuale.

[ È quel che Barthes sta per dire nel § 23 della Camera chiara, parlando di «pensosità» del fotogramma. È quello che forse adombra Cocteau nel Mistero laico, nel brano che inizia con «Una casa fotografata e una casa filmata non si rassomigliano affatto». È quanto suggerisce, per via inesplicita, Susan Sontag – nel testo Nella grotta di Platone – parlando di una fotografia come di una «trasparenza strettamente selettiva». È ciò che McLuhan sfiora e pure schiva al principio del cap. XX de Gli strumenti del comunicare. ]

Ossia. Se vuole darsi titoli di cacciatrice del senso, la fotografia deve – sì – aver l’aria di una sottrazione di alternative, ma sempre (e in quanto) comunica insieme la certezza-sfondo che tutte le alternative abolite per arrivare a quell’unica particola sovrastante un cumulo annerito siano state quelle giuste; siano state sensatamente azzerate, secondo un esatto quanto imprescrittibile profilo di sparizioni.


domenica, 14 marzo 2004   [link]

 

Pianeta deperibile

I limiti del conoscere, del significare e dell’usare (il mondo) sono esterni a noi. Se il linguaggio è innamorato delle proprie gallerie (specchianti), ciò non toglie che il mondo esperito non si pieghi a una simile indifferenza verso il limite. Il barocco, per statuto, manca di umiltà.
Il pianeta ci ‘interrompe’, di fatto. Il misconoscimento del margine ha prodotto (sul versante in apparenza più immateriale) il Mercato e lo Spettacolo contemporanei come tematizzazioni del nodo estetica/economia; e ha escogitato (sul versante più fisico) l’energia nucleare: la distruzione dell’ecosistema.
Le armi nucleari aggirano irreversibilmente il nemico. Lo cancellano. Attengono alla stessa possibilità del conflitto, radicalizzandolo a un punto tale da renderne vuoto il concetto. Le testate nucleari non iniziano né concludono uno scontro, ma puramente annientano tutte le parti in causa – e perfino quelle non in causa. Qui si ha a che fare con l’illimite fatto arma. Anche questo è ‘umano’, ovviamente, ma dell’umano rappresenta il confine esterno, oltre il quale inizia la scomparsa della specie dal pianeta.
Al momento questo non accade o non è ancora accaduto. Tuttavia l’istituzione di una eventualità del genere non era inevitabile. Ora lo è. Ne ha responsabilità una definita classe sociale, che come sempre è cosciente di sé solo fin dove fa comodo ai propri interessi (economici). La ‘classe imprenditoriale’ nemmeno ha voluto osservare la prossimità di economia ed estetica. Ha puramente sposato il loro sposarsi. Ha stampato l’homo faber come istituzione comodamente perenne, incoronando così l’homo ludens in forma di asservibile già asservito utens.


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MG’s Biblio_upgrade: sono usciti in questi giorni

> un poemetto e alcune poesie su «Smerilliana», n.3, febbraio 2004,
> sette poesie da Alter su «Il Segnale», n.67, febbraio 2004,
> otto poesie su Matità n.4, feb. 2004,
> due prose e una poesia nelle pagine del progetto Klandestini del British Council.


domenica, 07 marzo 2004   [link]

 

Qui di séguito ripropongo una pagina già pubblicata tempo fa, ma adesso (ri)pensata e quasi riscritta, come possibile dialogo con i vari interventi che in questi giorni sono comparsi su «L’Unità» (specie quello condivisibilissimo di Margherita Ganeri, il 5 marzo), sul sito di Lello Voce, e sul settimanale «Stilos» (p.es. il pezzo di Elio Paoloni, uscito il 2 marzo).

Parola spostata

Scrittura, interpretazione e prassi (anche nel senso elementare di comportamento quotidiano) cospirano a risalire verso la complessità e indecidibilità delle percezioni. In arte e scienza e riflessione filosofica sembra che il Novecento abbia stilato un unico regesto sull’indeterminabile, quindi sul rinvio continuo (link, rimando, nuova rima, frequentativa). Fino a spingere – non insensatamente – perfino alcuni filosofi postmoderni a dubitare del dubbio, e a interrogare le linee di resistenza del reale, osservando che comunque qualcosa nel cerchio dei segni fa spessore, bordo, ostacolo, e così crea o prefigura sintassi, gerarchie di senso, ovvero limita o recide la deriva interminabile di connessioni che la realtà percepita e ritradotta sembra formare.

Dallo specchio barocco si avvista già la fibra di vetro. Ora la perplessità non ha compiutamente modo di venerare una sua propria poetica, o di insultarla; non ha teschi da veder posare sul tavolo della natura di fatto morta, né stagioni da dissipare mento in mano contemplando fiamma. Migliaia di miliardi di “materiali” (info) si torcono de/formati perché perfetti all’interno dei prismi-specchio, da un cavo all’altro, senza passaggio di tempo; in un momento. (In parallelo e coerentemente, il tempo individuale tende a zero: abolito dal tempo enorme e collettivo delle cataste di informazione, e dello sfruttamento tollerato).

È configurata allora una contraddizione tra la struttura seriale del pensiero-scritto che conosciamo, e la natura parallela dei files che il mondo informato genera (o: che noi bene o male rubrichiamo come quella cosa a cui diamo nome di Mondo).

Per seguire e capire e intervenire anche in senso politico sulla realtà ‘servirebbe’ un iter lineare o più trame di un tessuto (textus) serialmente affrontabile. I files, i percetti, concrescono invece aperti in parallelo, nonché virtualmente senza numero: frattali. Non si può metterli in sintagma. Sono pressoché negazione del concetto di sintagma. Disporli in tracce verticali, gerarchizzate, non ramificate, è chiamarsi fuori gioco, o antieconomico, stante anche il fatto che tale loro articolazione ‘in parallelo’ riproduce quel medesimo sistema complessivo-complesso di organizzazione mentale dei dati percepiti che l’uomo europeo e in parte statunitense ha formato in sé, almeno dal Settecento a oggi (via via più scientemente).

In questo planetario è perfino funzionale e implicito lo spiraglio joyciano (joy), con uno stream (parola fortunata) of consciousness congegnato per abbassare la temperatura e i picchi delle sensazioni, digerire le res estraendone il nulla, facendone narrazione orizzontale, o narrazione-orizzonte, talvolta perfino parola critica, concertando di séguito blob tra maschere (personae) politiche o blog apolitici strettamente separati e autocentrati.

In sostanza: è capitato al XX secolo di essere il luogo esemplare di una doppia irraggiungibilità: del reale e della parola contemporaneamente. Come una freccia che punta allo stesso tempo in due direzioni, e che precisamente in questo modo cerca di dire entrambe. Non toccandone alcuna. Così per paradosso fondante arrivando precisamente a esprimerle. (Dimostrandole legate; accusandole implicate).

Non si deve forse guardare al XX secolo come a un’unica messa in scacco della parola; bensì come al tempo in cui la parola-scacco ha tematizzato sé. Così facendo, ha in parallelo reso o dimostrato più fragili le proprie vie, complici o complanari – in potenza – di quel sistema di paratassi blande, di slittamenti di responsabilità, di elusione dei costi del possesso dei piaceri, di smaterializzazione irreversibile del valore dei corpi e delle vite individuali, che può essere in sintesi chiamato ancora capitalismo.

In un quadro simile, la parola-scacco occupa una casella che solo contraddittoriamente entra nel punto cieco abitato dai lessici politici. (E questo ne fa parola di conoscenza differente, cifrata e cifrante, spostata: ben poco ‘utile’, almeno in prossimità della sua nascita sul foglio). E tuttavia sembra essere ancora il primo luogo di conoscenza che abbiamo. Non è poco.

[ nuova variazione dell’articolo comparso con il titolo di Afasia di settembre su «Il Segnale», a.XXI, n.62, giugno 2002 ]

febbraio 2004

domenica, 29 febbraio 2004   [link]
 

Joyce vs Rilke

Da Il mezzo è l’aria, di Enrico Ghezzi (Bompiani): «Credo che il dovere di chi lavora nell’ambito della comunicazione sia, non dico di opporsi, ma in qualche modo di porre come dei freni, degli intralci, delle complicazioni, delle deviazioni, proprio alla immediatezza (insormontabile, invece) della comunicazione cinetelevisiva. E c’è poco da dire: ci eccede. Ogni immagine ci convoglia, ci butta addosso informazioni che non avremo mai il tempo di leggere, di mettere in sintagma, di selezionare, di gerarchizzare».
È il tema del “rumore di fondo”, in rete come ovunque. Ma è poi così strano che la comunicazione ci ecceda? Non fa così ‘anche’ il linguaggio? Il parlare stesso? Il percepire, prima ancora. (Il primo assoluto).
[Suggerirei: non la comunicazione ci eccede: questo sempre è accaduto. Semmai: cresce la nostra percezione dell’excessus, dato che i meccanismi che in se stessi tematizzano il nostro medesimo esperire, sempre più ci danno occasioni di delibare frontalmente l’eccesso, l’eccedere dei segni].

È allora una ‘soluzione’ pensare di «porre come dei freni, degli intralci» o «deviazioni»?
Si tratta forse, come l’Ewald Tragy di Rilke, di «dire una parola enorme», scagliare in faccia alla ‘borghesia’ quell’insulto da cui essa non potrà riaversi? La parola enorme è qualcosa che dobbiamo forse “dire”?
Se osserviamo bene, nel campo del “dire”, sul principio del Novecento l’avanguardia andava – come insegnano i saggi di Franco Moretti – proprio in direzione opposta: con lo stream of consciousness, si produceva – proprio all’opposto – una netta eliminazione di intralci complicazioni tragedie. Cesure e interruzioni sparivano sullo sfondo di un orizzonte di eventi freddo-tiepido: l’orizzonte del monologo interiore, banale basso continuo, che permette al dublinese medio di sopravvivere alla catena di shock e piani sequenza della città in accelerazione.
Nella coscienza tutto è complanare con tutto, e ‘fluente’ (“stream”: nome fortunato): per sopravvivere, per non soccombere all’impatto della molteplicità. (Del cinema, si direbbe).
E cosa ha fatto lo stesso Ghezzi, se non escogitare, con Blob, l’equivalente televisivo dello stream? Non ha reso, così, tutto più fluido, più corrente, più digeribile-digerito? No. Forse no. E tuttavia: lui per primo (in tv) ha “semplicemente” mostrato allo spettatore postmoderno che cosa è e come effettivamente funziona l’immaginario schiacciasassi dello spettatore postmoderno. Ha reso trasmissione televisiva quello che era già per tutti e per ciascuno un banale e irriflesso daily (mental) zapping – spesso produttore casuale di senso.

Le avanguardie non sono all’avanguardia di qualcosa di ontologicamente dato grazie a loro, bensì di qualcosa che ha sempre a che vedere con l’autocoscienza, con la percezione riflessa di un certo stato di cose e di caos; e con la significazione di tale presa d’atto.
Il primo che formalizza un metalinguaggio (Joyce con lo stream dei dublinesi d’inizio secolo, Ghezzi con il blob dello spettatore mondiale medio mediale degli anni ’80) appare “all’avanguardia” – e in effetti lo è. Ma è all’avanguardia in termini di percezione di un evento che già si è dato socialmente, è già in atto. Non viene istituito da loro. Loro ne sono i primi (attivi) sismografi. Sono i legislatori di un buon (= funzionante; e spendibile infine) codice di autocoscienza.
Se Ulisse vuole sopravvivere dentro Dublino, dentro la città-linguaggio (e dentro la borghesia, nell’industria, nell'”esteticità diffusa” = “senso estetico moderno”), parlando da dentro quel linguaggio, essendone parte, allora la “parola enorme” di Ewald Tragy non è una soluzione.


domenica, 22 febbraio 2004   [link]

 

“Un’editoria che non cura le opere di qualità e di sperimentazione è come un’industria che non investe in ricerca di nuove tecnologie. Che è precisamente quello che accade in Italia da decenni, in entrambi i campi. Infatti non siamo, né letterariamente né economicamente, competitivi”. (Lello Voce)


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Tutto è politico? Anche questa citazione di altri anni, certo.
E allo stesso tempo: niente è politico; dato che il contesto (‘mondiale’) è blindato. Niente che un ‘comunicatore’ (dov’è non dico la figura, ma proprio la parola “Intellettuale”?) possa raggiungere.
Se il blog è la forma estrema di isolamento nella rete, attraverso la rete, è pur vero che le stesse comunicazioni ‘classiche’ ad alto grado di formalizzazione (poesia, narrativa breve, saggio) scontano un abbassamento di visibilità, in Italia più che altrove ma nel Novecento e ora più che mai, sensazionale.
La scomparsa o trasformazione (non letteraria) della parola pubblica coincide con la crescita del potere di chi sa comprarla. Quanto più è alto l’investimento non mediatamente economico, tanto più forte è la presenza sulla scena della parola. Su temi legati, si può leggere una riflessione nel blog di Biagio Cepollaro.


domenica, 15 febbraio 2004   [link]

 

A fuoco è fuori fuoco
(2)

Una fotografia che osservo, carica di un certo alto o basso numero di connotazioni, parrebbe oggetto definito. È così? Quale oggetto è – in generale – finito, definito (definitivo)?
La foto X, in quelle strutture comunicata, esattamente per via dell’esattezza e inaggirabilità delle linee e isotopie percettibili che la compongono, rende sfondo eluso e cancellato una massa di possibilità altre. Possibilità che in qualche modo sono avvertite o presentite come sfondo eluso e cancellato giustamente.
L’oggetto infinito, il prodotto infinito, insomma, tematizza proprio con il suo “infinirsi” l’atto generalissimo del giudicare. La possibilità, anzi, di giudicare.
Attenzione: questa non è “deriva (solo) storica” – se non in quanto si è estesa e sta crescendo di fatto in un arco di decenni. Non ci troviamo del tutto in un territorio storico. Avendo a che vedere con una indeterminata e generalissima facoltà di giudicare, abbiamo allo stesso tempo a che fare con qualcosa che ci riguarda in maniera profonda: che riguarda cioè l’esperire in generale; e, anche, il darsi di una storicità delle esperienze di arte.


sabato, 07 febbraio 2004   [link]

 

La molteplicità delle lingue – l’includerne varie all’interno di un testo – non è segno di “uso” di una lingua sentita altra, né l’espressione di (una parte di) indagine attraverso una madre seconda, né moda, né nodo di tutto questo.

 

È semmai semplicemente l’emersione dell’esattezza (imprescrittibile) da/in altri suoni da quelli della lingua madre. E notiamo: un testo può “compiersi” anche non includendo solo lingue altre, ma – il ’900 insegna – brani musicali, grafica, variazione della stessa forma-libro, inserzione di oggetti (pensiamo per l’ennesima volta agli esperimenti di Kolař, o all’opera-mondo di Pound). La poesia visiva è appena uno dei raggi di questa ruota. I suddetti non sono “strumenti”, come non lo è in sé la stessa lingua (madre), il codice primo (quando accade sia quello, ossia la scrittura in madrelingua, il primo). Sono i diversi luoghi entro cui l’indagare del segno sul segno oscilla interrogando sé, il mondo.

 

L’”uso” delle lingue altre può allora essere così disinvolto in molti autori degli anni recenti proprio perché non è un uso (come una parte del Novecento ha spesso inteso), un agire cioè di A su B attraverso C. Non esiste strumentalismo, dualismo, ruolo. Semmai, il parlare esperisce sé (cresce) entro una continua tematizzazione del proprio lavoro, che il linguaggio concreta in lingue e sovrapposizioni e segni moltiplicati.

 

L’impasto complessivo e complesso dato dall’esperienza degli anni recenti è formalizzazione – ma accesa, non quieta – di questo preciso “riflettere su sé” del segno linguistico moltiplicato nei segni in generale.

 

Un riflettersi che va semplicemente (almeno da chi scrive) esperito/agìto.

 

D’altro canto, un maestro (non il solo, forse però il maggiore) in ciò è stato e sarà Emilio Villa. Annotava, tra altri, Stelio Maria Martini: «ma Villa dovrà accorgersi che la lingua non è fungibile solo nell’uso delle singole parole, bensì anche rispetto a qualsiasi altro mezzo impiegabile nella pratica del sensibile. L’uso della lingua prima o poi porta ad aprire all’extraverbale, se non si desidera girare in tondo perpetuamente, cioè ripetersi all’infinito» (Scrittura totale, in «il verri», a.XLIII, n.7-8, nov. 1998, p.152).

 

La «pratica del sensibile» (l’estetica in sostanza, il non-campo dell’esperibile) ha tra i suoi fenomeni rubricabili la lingua, una lingua storica, “maggiore”, e tutte le infinite (anche impercettibili) variazioni e deviazioni da quella. Come i libri della biblioteca di Babele. Ogni testo poetico, ogni libro, è in fondo una nuova grammatica, più o meno percettibilmente deviante, più o meno avviata a essere altra lingua, minore all’interno di quella che appunto aveva preso come luogo (già poi smarginato, inafferrabile) di avvio.


domenica, 01 febbraio 2004   [link]

 

A fuoco è fuori fuoco

Riprendendo Estetica. Uno sguardo-attraverso, di Emilio Garroni.
L’esperienza ampia e indeterminabile del senso-non-senso, fatta attraverso particolari e determinati eventi, registra sé nei meccanismi che ne accumulano occasioni.
Più occasioni abbiamo, più (frequenti) occorrenze di esperienza del senso registriamo. Il moltiplicare le occasioni all’infinito, avvicina sé all’indeterminabile.
Quanto più le occasioni diventano x che tende a infinito (e si vede e vende come tendente a infinito), tanto più costeggiano quell’imponderabile che abita nella condizione di possibilità della facoltà di giudizio.

Dunque l’accumulo, puntando a infinito per statuto, è modello e descrizione – tendenzialmente – della stessa possibilità dell’emersione del senso.
Ecco spiegato come il prodotto contemporaneo non sia più (non possa nemmeno saper essere) finito.

Indefinizione e infinità allacciano rapporti. Siamo ancora nel campo del senso estetico moderno.
Sul prodotto (in)finito, esercitare nelle forme note un giudizio non è del tutto legittimo, essendo il suo sfondo un moltiplicatore di possibilità di essere altro da sé.
Il giudizio determinato sul prodotto infinito rischia di farsi inaccessibile perché il prodotto, proprio come infinito, non tanto è oggetto di giudizio, quanto si avvia a confondersi con l’iter mentale che realizza o addirittura fonda il giudicare.

Quando l’oggetto tende in via esplicita e per statuto a infinito (relativamente alla propria identità), tende parallelamente a risalire il giudicare. (Movimento che a sua volta si dà come modello del giudicare stesso, del giudicare anche solo possibile).

gennaio 2004

domenica, 25 gennaio 2004   [link]
 

Specchio, spessore

Seguendo Franco Moretti nella sua lettura del genere-romanzo e di modernismo e postmodernismo in quanto ‘svolte’ nei confronti del tragico, diremmo che Egeo non ha compiuto un gesto eccezionalmente moderno. Ha certificato a sé la propria esistenza, dopo il dolore, smettendo di esistere. Egeo è precisamente quell’Ego al quale modernità e – a maggior ragione – postmodernità si rivolgono con cifre di (prosaica) diffidenza.
Probabilmente ritengono migliore il fulmineo «rimo, dunque vivo» di Tristan Corbière – a cui lo stesso poeta guarda poi con aria beffarda, visto che il verso intero suona «Io rimo, dunque vivo… (non temere: è a salve)».

Anna Maria Ortese: «Solo una superficie gelida ed elegante – assolutamente immobile – potrà riprendere il moto scompigliato di un albero scosso dal vento, o il levarsi fresco di belva di un’onda verde del mare. Il mare non riflette il mare, né l’albero l’albero. Solo in qualcosa di natura profondamente diversa e contraria, la natura e l’animo tragico delle cose si riflettono. Questo è ciò che si dice qualità estetica. È la qualità dello specchio, che si oppone – e perciò la cattura – alla cosa specchiata. E se volete riprendere un mare in tempesta, o gli orrori di una guerra, siate calmi – e mettete tra voi e queste cose la distanza scaturita dal vostro stesso doloroso silenzio» (Dove il tempo è un altro, 1980; ora in Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997, pp.66-67).


domenica, 18 gennaio 2004   [link]

 

Egeo

Egeo, figlio di Pandione e padre di Teseo, fu il nono re di Atene. Spodestato dai nipoti, fu rimesso sul trono dal proprio figlio.
Quando Teseo partì per uccidere il Minotauro, il vecchio padre gli raccomandò di issare, al ritorno, una vela bianca sulla nave, in segno di vittoria sul mostro. Ma l’eroe e l’equipaggio, in festa, ubriachi di felicità per l’uccisione del Minotauro, dimenticarono l’avvertimento.
Così, rientrando, ecco: la nave recava ancora la stessa vela nera con cui era partita, in segno di lutto.
Egeo, vedendo quell’unico segnale venire dall’orizzonte, da dove ancora non si avvertiva il baccano e l’entusiasmo della ciurma, e credendo che il suo unico figlio fosse morto, si gettò disperato in quel mare che da lui avrebbe poi appunto preso nome.

Un unico segnale e un unico figlio. E da queste unità: un lutto: superfluo. Un semplice fraintendimento di un codice (binario): l’uno che sembra/è zero. Da un signum letto correttamente ma emesso senza intenzione scatta – in una disposizione alla tragedia – l’irreparabile.

Per quanto si possa ammettere che forse ci comporteremmo tutti tragicamente, nei panni di Egeo (o in quelli di Wittgenstein che in trincea medita e semina per il Tractatus), è comunque necessario guardare con sospetto a questo istinto di tragedia. Viene dai segni.


domenica, 11 gennaio 2004   [link]

 

Da annotazioni degli anni ’90

«Sei in compagnia con amici e con una donna, è lo stesso, sono le parole fatte dagli uomini, il corpo dell’uomo che è stampato dappertutto, nel viso delle bestie, nella lingua del cane. Sei solo davanti al mare o alle montagne; ma non sei solo, fra te e la montagna tutta chiusa nel suo vestito di pietra ci sono le immagini e le ragioni degli uomini, il loro bisbigliare. Allora ti ricordi di quando non era così, di quando credevi di poter essere solo con le cose ed erano le cose a preoccuparti e interessarti.
Come è avvenuto? Ecco, quando senti che non c’è più nulla che non sia occupato dalle cose dell’uomo, nulla che non ti ripeta le storie monotone dell’uomo; quando ti accorgi che le cose stanno quatte e zitte finché non le nomini e discuti attraverso di esse con gli uomini; allora sei arrivato a metà della tua vita e non potrai più tornare indietro…»
(Franco Fortini, La cena delle ceneri (1948), ora in La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, Claudio Lombardi Editore, Milano 1988, pp.59-60).

Di fatto l’irreversibilità della sensazione di «essere solo con le cose», lirica o dolorosa che sia, funziona a un dato momento da spartiacque in ogni storia individuale. La taglia in due versanti «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. […] Esperienza, insino alla quale nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo […] Ma accaduta che sia, […] in fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale» (Leopardi, Pensieri, LXXXII).

Per Fortini, la Resistenza è stata (poi è nel racconto) un margine, un confine di questo genere. Ma la ricchezza del testo fortiniano non si arresta qui.
Nel racconto si parla proprio di un’ulteriore frattura – che è poi quella del presente della narrazione. Si parla cioè di una sorta di “ritorno ai segni”, dopo l’immersione nella solitudine con le cose, dopo il dolore.
Questo ritorno può essere – non del tutto arbitrariamente – assunto come sensata e vera seconda frattura nella vita individuale.
Dopo la cesura netta fra un ‘prima’ fanciullesco (quando del dolore si sente solo parlare) e un ‘dopo’ di impatto con la realtà, occorre fissare un momento di arricchimento, consistente in questo: l’assunzione in sé, e presa d’atto, che le ragioni dei segni non sono distinguibili dalle ragioni delle cose, il tessuto doppio (che doppio non è) non si lascia smagliare. I fili sono serrati insieme.

Con le parole di Fortini: «ma non sei solo, fra te e la montagna […] ci sono le immagini e le ragioni degli uomini, il loro bisbigliare».
È forse questa la ‘vera’ partizione. È da questa assunzione di responsabilità nei confronti del proprio sistema di segni, solo da questo riconoscere «le immagini e le ragioni […] le storie monotone dell’uomo», che inizia la seconda metà della vita. (Da cui «non potrai più tornare indietro»). (Semplicemente perché non esiste nessun posto dove tornare: e la precedente idea ‘binaria’ o dualista del parlare e del vivere era la visione incompleta o puerile del tessuto effettivo).


domenica, 04 gennaio 2004   [link]

 

Di alcune scritture recenti

[appunti da un saggio in costruzione, su poeti italiani nati negli anni ’60 e ’70]

Alcune scritture recenti trascinano da vita ed esperienze dirette (straight stories) elementi riportandoli in un orizzonte che, linguistico, non fa della lingua l’orizzonte. (Perché essa già lo è. E come tale è avvertita, da chi – nato dopo il 1960 diciamo – questa coscienza l’ha assorbita con il latte ottico e sonoro che lo nutriva e lo istruiva/istituiva, che lo formava). (In virtù del fatto di crescere in un tempo determinato da neoavanguardia e parallele scritture diversissime; e dalle scritture delle varie forme di elettronica che gli anni registravano).
In autori come Florinda Fusco, Elisa Biagini, Laura Pugno, Ermanno Guantini, Alessandro Di Prima, Massimo Sannelli, Sara Ventroni (tutti del 1970-74) il testo a mio parere nasce e sa decisamente nascere freddo, ‘cool’; ossia non necessariamente legato a valori materici traslati sul foglio ad annerire e formare blocco incandescente, ‘laborintico’, o à la Spatola. La pagina non slitta primariamente verso Il Linguaggio, verso retorica-rito. A serrare e chiudere il testo, in Fusco, Di Prima ecc., e già forse in Frene, Raos, Inglese, non è frontalmente la sovrabbondanza di res, cose, cataste/fatti linguistici, ma all’opposto una loro libera sottrazione. (O un accumulo tuttavia algido, seccamente dato). E l’emersione, al posto del magma, di un calco cavo, di un variato eccesso di non detto. Non però nella forma del consueto bianco-pagina neoermetico. Le lacune, gli spaziamenti (espacements, aree fredde), le ceneri e i tagli operati su una materia/maceria enorme sono dolorosi e danno diversa incandescenza. Differenti salti di rapporti, tagli semantici, spezzature.


giovedì, 01 gennaio 2004   [link]

 

Sul poemetto Spostamento – di Giovanna Frene

Spostamento, di Giovanna Frene, edito da Lietocollelibri (Como, 2002, pp.48), è testo costituito da una Definizione in tre versi («Chiamiamo morte quella condizione / per cui il ricordo di una persona / da viva ci appare improponibile»); da dieci poesie o lasse numerate e dotate di titoli; da una Clausula; e infine da un vero e proprio riporto epigrafico: «nemo obliviscitur felicitatis suae».
Il poemetto nasce come torsione testuale o nadir (complesso) di un evento luttuoso. Il suicidio di una persona cara disegna sulla pagina orma e deformazione di un discorso emotivo. Che non significa sentimentale. È anzi vero l’opposto.
E se un “io” affiora già dal Proludio, si tratta di ego che è dissipazione, e che così (si) dichiara: «per l’appeso scrivo qui la poesia doverosa / necessaria maledizione di un maledetto: / non dissimile al vento che portava / al nulla la stagione il detto della cenere». Dissipazione agìta anche sul corpo dei sostantivi dell’ultimo verso: quale valore hanno «stagione» e «detto»? Altre ceneri: grammaticali.
Forse la poesia in questo senso più emblematica è la quinta, intitolata Dell’irradiazione: l’incipit «luce della luce dei corpi senza luce» rimanda per solennità e altezza (non retorica) al Credo della liturgia cattolica. Ma è versato come una litania rivolta alla «insufficienza ovale» (ai «bordi della parola») sul «cranio opaco» e distanziato dello scomparso. In gioco è così una doppia sparizione: di parola e corpo: il verso conclusivo, «mortomorto senza assoluzione», significa lo stesso inseguirsi dei linguaggi.
Se quindi Spostamento si definisce in sottotitolo Poemetto per la memoria, è anche un flusso scritto-spostato lungo una linea di fuga dallo stesso concetto di testo. Chiara – per eccesso di ironia – la Clausula che inquadra il poemetto come «una cassa / […] / più immortale della carta».
In apparenza formalmente chiusissimo, Spostamento si rovescia all’esterno della sua devozione e dedizione allo stile. E dove ragiona di una scomparsa, lo fa in qualche modo specchiando la fuga irreversibile del testo-tessuto: in memoriam. È «il vuoto entrato nel baratro della rappresentazione» (poesia IX), «bordo dissolto del fuocovento come margine» (poesia VI).
Non diversamente è decifrabile (ancora nella poesia VI, v.5) quell’emistichio-calco che piega un immaginabile seme del piangere caproniano in «seme del margine»: picco metatestuale evidente.
In questa complessa operazione di spola tra testo e metatesto, tra planctus vestito di storia e textus incenerito, sicuramente ha magistrale e positiva influenza l’opera di Zanzotto, indagata con assiduità da Giovanna Frene. Ma potrebbe forse esser fatto anche il nome della Valduga autrice di Donna di dolori.

[Articolo comparso originariamente in «l’immaginazione», a.XX, n.196, mar.2003]

dicembre 2003

domenica, 28 dicembre 2003   [link]

Nell’urto

Alcuni autori di ‘scrittura classica’ (loro, non quest’ultima di per sé) edificano in virtù di un motore di buio che li muove. Di Valéry, Joyce, Kafka, Mansfield e altri, scrive Cortàzar che sono tormentati – al passaggio tra XIX e XX secolo – dall’intuizione, opaca quanto ‘tattile’ che «qualcosa eccede le loro opere e che al chiudere il bagaglio di ciascun libro ci sono maniche e fibbie che penzolano fuori, impossibili da rinchiudere; sentono misteriosamente che tutta la loro opera è sollecitata e incalzata da ragioni che desiderano ansiosamente esprimersi ma non riescono a farlo nel libro perché in alcun modo si tratta di ragioni letterariamente riducibili; calibrano, con la portata del loro talento e della loro sensibilità, la presenza di elementi che trascendono qualsiasi intento stilistico, qualsiasi uso edonistico ed estetico dello strumento letterario, e sospettano con angoscia che questo qualcosa sia nel fondo ciò che veramente conta». (Julio Cortàzar, Teoria del tunnel, tr.it. Cronopio, Napoli 2003, pp.18-19).

Al passaggio al secolo successivo, ecco, non più si sente oscuramente l’eccedere del fondo buio del reale (storico e politico e psichico). La mole che schiaccia il tempo è integralmente visibile, pronunciata.


lunedì, 22 dicembre 2003   [link]

In società (siccità)

Il valore di una retorica sta nella usefulness che il tempo vorrà accordarle? Nel fatto che – tra dieci anni – lettori o autori giovani leggeranno e useranno le forme e formule ora inventate o risperimentate per (=al fine di) fare qualcosa (di profittevole)? (In letteratura?). Niente garantisce da adesso – su nulla. Magari future letture sceglieranno questo accento. Ma parlando di valore non si parla di pura (hegeliana) presenza perimetrabile di qualcosa. Il fatto che la materia delle parole che il ventenne o trentenne oggi usa in letteratura sia quella assorbita con il latte dai media e dai mediatori e dai letterati che erano giovani venti o trent’anni fa, non depone automaticamente a favore di questi ultimi.
Né, d’altro canto, esistono adesso garanzie sul lavoro di chi non sarà più giovane quando i rendiconti saranno scritti.
Solo, lasciar scegliere al mercato o a ‘un’ criterio (piana fluente lettura versus sperimentazione irta versus narrazione) è altrettanto puerile quanto pensare che criteri e correnti non esisteranno affatto. Il richiamo all’onestà della (scrittura di) ricerca dunque può valere ancora. Non come prescrizione; semmai come presa d’atto di qualcosa che già c’è.


lunedì, 08 dicembre 2003   [link]

L’incontro di «Atelier» a Palazzo Vecchio

Nei giorni 5 e 6 dicembre scorsi, a Firenze si è tenuto un incontro internazionale di poeti, scrittori e critici intitolato Dopo il Novecento. Prospettive della poesia contemporanea. La promozione e organizzazione era a cura della rivista «Atelier», e particolarmente di Giuliano Ladolfi, Marco Merlin, Federico Italiano. Questi gli interventi programmati:

Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi
Edoardo Zuccato, Quale Novecento?
Stefano Guglielmin, Canone e caducità
Paolo Febbraro, La poesia nel suo stato critico
Salvatore Ritrovato, La “sostanza” della poesia
Enrico Francese – Daniele Gigli, Fuggire dal labirinto
Daniele Piccini, Dalle strettoie polemiche ad una difficile nuova libertà
Bianca Garavelli, La forma poemetto nella poesia italiana fra Novecento e Duemila

Hanno letto numerosi poeti, tra cui Spyros Vrettós, Ilja Leonard Pfeiffer, Rosaria Lo Russo, Federico Italiano, Elisa Biagini, Massimo Gezzi e molti altri. Ulteriori contributi critici sono venuti dagli interventi di Mariella Bettarini, Gabriella Sica, Lelio Scanavini (per la Redazione del «Segnale»), Roberto Pasanisi («Nuove Lettere»), Giovanna Frene, Rinaldo Caddeo, del sottoscritto e di vari altri autori.

Qui di séguito propongo una piccola parte del mio intervento di venerdì pomeriggio. Il titolo del testo intero è La continuità del senso (inteso, il “senso”, secondo la lezione kantiana di Emilio Garroni, come senso-non-senso) e comparirà su «Atelier». Qui estraggo una piccola parte dei paragrafi VI e VII:

Vorrei richiamare l’attenzione sulla centralità di una nuova freddezza, oggi presente in molti esperimenti di autori contemporanei. Giovani e non giovani.

Senza assolutamente dare a “freddezza” un connotato negativo. Rientrerebbero in questo possibile àmbito o ipotesi: la scrittura metaforica-metamorfica di Valerio Magrelli; le intermittenze di autoanalisi, e riferimenti ipercolti, di un autore come Giuliano Gramigna (si veda il notevolissimo Quello che resta, Mondadori, Milano 2003); lo sguardo algido, distaccato, che viene dai ritratti a penna di Valentino Zeichen; la superfetazione di immagini e storie, eccessive e ‘ciniche’, della poesia di Simon Armitage; la ‘crudeltà’ fotografica e però narrativa di Robin Robertson.
Si tratta di una scrittura cool, con forti basi di ‘ossessione dell’osservazione’ (il referto, lo scatto b/n da morgue, o l’accensione da stampa cybachrome) che può nascere indifferentemente da scelte e studio rigorosi – al limite dell’ascesi – come dall’incandescenza di storie individuali, oppressione, dolore, lutto.
Dunque dalle scritture per eccellenza fredde (Beckett, Ponge, gli autori ‘del segno’: di «Tel Quel» e «Anterem», anche) e da quelle per eccellenza calde (beat, Burroughs, Artaud): questo, dovendo elencare filiazioni ‘solo letterarie’. (Ed è un errore: si dovrebbe semmai – o in parallelo – cercare nella direzione della musica, nel jazz, nell’hip hop, nella fotografia e negli oltraggi di Matthew Barney, di Nan Goldin, fino al gelo puro di Boltanski, agli interni ostili di Luisa Lambri, ai set di David Lynch).
Quali i nomi? Certo, molti esempi sono di voci femminili: Florinda Fusco, Elisa Biagini, S/z Mary, Sara Ventroni, Paola Zallio, Alessandra Greco, Laura Pugno, Giovanna Frene.
Va forse anche analizzato ancora, in questa stessa ottica e facendo riferimento p.es. al lavoro di Pleynet, o a quello diverso di Noël, il legame di prosa e poesia: pensiamo a Massimo Sannelli, Fabio Simonelli, Alberto Pellegatta, e di nuovo a Zallio e Pugno; ma anche a Stefano Dal Bianco. Non a caso il numero V-VI di «YIP – Yale Italian Poetry», riferito al 2001-02 ma uscito recentemente, dedica un’interessante inchiesta esattamente alla prosa poetica.

Eccedere e – continuamente – oltrepassare i bordi del lavoro di Fortini, di Pasolini, di Sereni, di Roversi, della neoavanguardia, come delle scritture ‘classiche’ (Cristina Campo, Montale), è quanto conserva e insieme e vitalmente riusa e altera le forme del Novecento, in un campo e tempo comunque cambiato, indecifrato. (Ma: cifrabile).