Sostengo e approvo gli editoriali di Biagio Cepollaro. Li ammiro, ancora meglio, per sintesi e spessore. L’ultimo uscito, in “Poesia da fare” n.17, torna – con passione come sempre – sui temi della “linguisticità” della scrittura poetica. Mi sembrano, le sue, posizioni su cui ragionare. Soprattutto vive/viventi. Il corpo della riflessione cambia, cresce, critica il sé degli anni passati, alcuni errori e valutazioni differenti. Quelli di Biagio sono gesti di onestà intellettuale. Poi indirizzati anche all’esterno. Si legano con grande affetto e premura, con attenzione e rigore, alle scritture nuove, agli autori che incontra e accoglie, legge, pubblica, in un’attività editoriale online pressoché unica nell’orizzonte recente. Biagio è in definitiva qualcosa come una formidabile one-man band dell’editoria in rete. Un esempio, va detto.
Questa è l’unica premessa possibile – e dovuta – volendo annotare anche delle riflessioni non in sintonia con quanto scrive. Il riferimento è all’editoriale di cui sopra.
In questi anni, in questo periodo di storia e scrittura (e storia della scrittura) in cui opere-mondo, complessità, non-‘immediatezza’, intertestualità, etimologia, struttura del testo, forme brevi/dense del narrare, frammentazione, deformazione linguistica, sensibilità per gli spessori semantici dei suoni, sembrano idee e parole impronunciabili non solo ai livelli (mediologici, o in ansia da best-seller) della grande editoria, ma anche dove si fa e si scrive per pochi o pochissimi lettori, francamente a me sembra che le opere a ‘basso tasso di linguisticità’ siano vincenti. Si difendono da sé. Sono il panorama costante, consueto, attorno.
Si possono passare in rassegna i blog, a decine di migliaia in tutte le lingue, in cui l’invenzione verbale, la complessità, la generosità di lessici, l’interrogazione e indagine sui segni poetici, sono a livelli di rigore e orditura spaventosamente inferiori rispetto alla stupenda ricchezza grafica della ‘cornice’. Templates da fare invidia a un programmatore di videogiochi incorniciano e sottolineano un vuoto di idee e di materiali sconcertante, che imbarazza – e che è precisamente segno di un formidabile vuoto di sostanza. O di una non dissimulabile povertà, o ingenuità senza difese.
Ma se questo è spiegabile e anche giustificabile – e non condannabile – in luoghi di scrittura sostanzialmente privata, o in zone “generaliste” (come molti siti legati a quotidiani, a riviste glam, spesso sottoinsiemi pubblicitari), può diventare un problema dove a entrare in gioco siano delle sedi e dei fatti letterari. Ovvero luoghi e opere a più livelli (o che dovrebbero nutrire più livelli) di complessità.
Sono non pochi gli elementi che bloccano ad alcuni testi o tentativi la pertinenza a uno spessore letterario.
Il diarismo leggero (non walseriano ma solo vacuo), lo stile confessionale, il pulp che gira a vuoto o il postumano calcato dai trasferelli, l’assemblaggio pornografico di narcisi, l’ego-eco, i tanti “ii” che dettano “io”, i tardi attardatissimi & premiati zuccherifici lirici, l’esibizione di totale disperante incoscienza metrica (dove l’esibizionista mirerebbe al virtuosismo: doppio scorno), l’anacoluto sciatto che non sa mimare il parlato, l’imitazione mal gestita, il plagio puro e distratto, l’urgenza e umidore sentimentale, il buonismo e il cattivismo, la banalità gratuita di temi e forme, e il realismo soddisfatto-verboso (queste cose, non altre; ossia questi disvalori: che credo sia giusto definire senza mezzi termini disvalori) conquistano spazi che non sono maggiori rispetto al passato, ma lo diventano per via di una contrazione dei margini di ricezione e di emissione della scrittura di ricerca.
A volte sembra anzi che “la scrittura” tout court, dunque un anche minimo possesso effettivo della lingua (prima ancora di qualsiasi “linguisticità”), venga a mancare. Spiccano in certi casi (in rete e sulla carta) ignoranza o incuria verso elementi minimi di sintassi e perfino di ortografia. È sano essere intolleranti verso questo stato di cose, credo.
Perfino il nucleo minimo di vocabolario che fino a pochi anni fa individuava almeno per sommi capi un orientamento poetico (“s.c.r.i.t.t.u.r.a.-d.i.-r.i.c.e.r.c.a.”), adesso non è più comune, condiviso, implicito; va spiegato, ridefinito non nelle sue linee e acquisizioni ultime, ma proprio alla radice, alla base, come espressione, come segmento misterioso (eppure – fino a qualche anno or sono – scontato) del normale lessico in uso tra critici e autori e lettori.
Basta vedere le suscettibilità (tra il sospetto in malafede e l’illazione, puerili entrambi, e dunque l’attacco gratuito) attivatasi in occasione della nascita di un nuovo blog: GAMMM, che appunto si dispone liberamente a un semplicissimo rendiconto della ricerca (o di un certo tipo di ricerca e sperimentazione) in poesia.
In un quadro simile, e stante la mia curiosità e direi inclinazione per la poesia come esperienza (di cui Biagio parla), non posso non segnalare che “esperienza” è categoria non più agevole o risolutiva di “textus”. Il testo complesso e clus non è necessariamente meno comunicato/comunicabile di una esperienza del testo (relativa a un altro – a qualsiasi – testo, clus o leu che sia).
Qual è il “lavoro da fare”, allora? Quello critico? Anche. Ma (è il mio parere): producendo e mettendo in luce materiali a partire dal buio e dalla coscienza del buio. Ossia: a partire da uno dei pochi punti fermi che il Novecento ha trasmesso solidamente, a mio modo di vedere, al presente: l’imprescrittibilità e imprevedibilità dell’oggetto estetico. (Che significa, anche, lo ammetto: non pre-vedere nulla a proposito della bontà o meno di testi “banali”, “realistici”, “ingenui”: ammettere tutto all’ascolto: è pacifico; ma: attivare la suscettibilità ai disvalori, anche; non pensando che linguisticità – qualunque cosa significhi – sia un portato giocoforza negativo, un sintomo, un innesco di sospetto).
Non riusciremo mai a eludere le (eventuali) complessità dell’oggetto estetico.
Un momento storico come questo, singolarmente pigro o sfortunato nella produzione di analisi testuali (anche a causa del collasso dell’università; ma prima ancora per colpa del collasso delle vite e storie e lavoro di chi comunque vorrebbe – e non può – occuparsi di critica testuale), non chiede di meglio che un “rompete le righe” generale, un cessato ricorso agli strumenti piccoli e grandi di osservazione e indagine del testo (indagine partecipe: pensiamo a Contini, a Debenedetti).
In verità, in tema di critica, sono da lodare le iniziative come i quaderni online “Per una critica futura” inventati proprio da Biagio (e diretti da Andrea Inglese). A dimostrazione della necessità di implementare sedi (rigorose ma non accademiche) di osservazione del fatto letterario, che non si limitino all’interruttore “accoglienza”/”silenzio”, come è d’uso nelle ‘riviste di carta’, bensì producano il laboratorio vivo e vivente – ma non indiscriminatamente ‘aperto’ – di cui ha bisogno una società letteraria in dialogo con una società reale minacciata da velocità banalità semplificazioni.
La linguisticità, dove gli autori che la rappresentano hanno spessore, è un elemento di ricchezza proprio per contrastare il pensiero semplificante, ‘tirato via’, incosciente, e il suo cattivo linguaggio, da cui vengono sempre – o quasi sempre – pessime prassi.