La scrittura di Marina Pizzi sembra essere uno dei pochi luoghi certi e forti dove le energie e i vettori che erano di Amelia Rosselli tornano a ricombinarsi, variare, metamorfosare; e non per una filiazione o ripresa o citazione, ma perché il lavoro poetico è straordinariamente complesso, e alla complessità mira – senza sconti didascalici. È poi poesia altra, differente, ha identità marcata. Ed è scrittura interamente invasa e percorsa dalle simmetrie improvvise e dai suoni (dalle sorprese e rispondenze tra suoni) di un lessico dalla tastiera estesa. Il suo è uno dei vocabolari più ricchi che la poesia recente registri.
Autrice di numerose raccolte di versi in gran parte edite da Crocetti, pubblica ora un nuovo libro, intitolato L’Acciuga della sera i fuochi della tara (Luca Pensa Editore, Lecce, 2006, pp.118, Euro 10.00).
Il profilo indefinibile, umile e cosciente, che guizza all’inizio del testo merita una citazione integrale: la poesia 2: «Sa di lasciare l’argine / l’acciuga della sera / l’ombra impropria delle cose / il fulcro dell’ombra. // Gioco l’ombra delle cose / con il pastrano in darsena di pioggia / nenia di iato perderti». Il libro è fitto di questi oggetti e figure e luoghi sfuggenti, deviazioni, margini afferrati e persi (afferrati perché persi): il «fornaio notturno smilzissimo mai affamato», «il faro ha incagliato se stesso», «le rime di cipressi»…
I nuclei del libro sono poi chiari: il dolore, la memoria che a stento (si) salva, la parola che sonda o elude e smarrisce aree di esperienza, l’aggressione del reale, l’ingiustizia, l’offesa. Ed è precisamente un’idea di perdita costante e nominante, quella che ossessiona e invade la raccolta. Una perdita che è continuamente risalita (ma non risolta, recuperata) da raffiche di presenze, in nomi e accostamenti azzardati, duri, in una fedeltà inedita a un surrealismo che non sa che farsene del sogno, e tormenta la realtà più aspra, aggredendone le aggressioni: opponendosi a quel che pesa, che è orrendamente reale. Con formule memorabili.
Alcuni incipit sono lapidari: «Nel pugno la licenza di far luce», «Ha un sudario che sembra un coriandolo», «Il vento stantio, quasi vieto», «Appunti di etimologia della neve», «I ricchi hanno sempre le finestre». Sono avvii che nella loro inusualità dunque cospirano, come del resto tutti i versi del libro, perfino a un tono politico, che però non è frontale; ha misura, non retorica, non vuole eloquenza: «Le buste civettuole dei borghesi / le buste minatorie del lavoro / conficcano sterminio».
Lo spettro di azione della poesia di Marina Pizzi non è interamente storico, determinato. Ha piuttosto un suo solido materialismo – più ampio del tratto di cronaca in cui si deve giocoforza operare. E in definitiva raggiunge e denuncia senza illusioni l’inammissibilità del reale, facendo fuoco sui nomi che lo costituiscono. Non è una poesia di aggettivi, infatti; lo stile è fitto semmai di sostantivi, e di infiniti sostantivati: ad essere inaccettabili e perciò espressi sono i nomi-cose, dunque la realtà, non gli attributi, le addizioni, l’«et… et..» della sequenza di qualità che accatastiamo nel tempo.
E tuttavia i lacerti e frammenti che vengono da questa prassi di scrittura non fanno coesione nel senso di ‘struttura’ (sarebbe altra cella, ingiustizia), anzi smentiscono l’atto del costruire, lasciando semmai al lettore l’onestà del libro esploso e speso e disseminato in allegorie, immagini inattese, eco fra verbi, fino a un numero semplice: le 100 poesie brevi che senza risparmio scompaginano la figura dittatoriale del mondo, sorridendone, capovolgendone la sterilità, perché «nulla fu tetro quanto / non darsi».
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[ è qui riproposta, con altro titolo e alcune varianti, la recensione al libro di M.P. (L’Acciuga della sera i fuochi della tara), uscita su «il manifesto» n.281 del 1 dic. 2006, p. 15 ]