[ in dialogo con L’intenzione realistica, di Biagio Cepollaro, post del 1 settembre 2003 su http://www.cepollaro.splinder.it ]
Se è vero che per l’èra della fotografia una serie di punti nodali di indagine e ‘definizione’ è quella tracciata da Benjamin nel saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e da Barthes ne La camera chiara, è altrettanto vero che sembra ancora largamente indeterminabile (criticamente non afferrata) l’epoca dell’immagine digitale.
Insomma: ‘manca una critica’ definit(iv)a, per l’arte digitale. Non se ne trova forse nemmeno descrizione esauriente. Il tempo che ci tocca attraversare è marcato non dalla riproducibilità quantitativa del reale, ma da una sua manipolabilità assoluta – quantitativa e qualitativa – e dalla percezione accresciuta di tale manipolabilità. Tanto praticata quanto sottovalutata (non descritta), da troppi critici. La mia idea, da molto tempo, è che in verità l’intera semiosfera umana vada realizzando, da prima del 1790 (anno della Critica della facoltà di giudizio), una sempre più dettagliata mappatura non del reale, bensì del (riflesso) percepire il reale.
Ossia: da secoli la conoscenza del mondo va intrecciandosi in maniera sempre più fitta con l’eco indefinita (grazie a oggetti definiti) delle stesse condizioni di possibilità della conoscenza. Il variare di paesaggi e oggetti che l’occhio incontra e da cui è nutrito (e da cui il suo esperire ha occasione di nascita), è sempre più una freccia che indica sé. Il riflesso variare del paesaggio, in noi (percipienti), si descrive. Così: il senso che si genera da qualsiasi guardare emerge. Lottando con il non senso del nuovo che, appena emerso, non ha ancora codice (e però lo produce).
Allora si può forse dire che l’epoca della manipolabilità, o ‘del digitale’, è una ulteriore azione cartografante (a produrre uno schema in scala vicina a 1:1) di quel variare. Tematizza in meccanismo (PhotoShop, campionatori, distorsori) quei connotati di iridescenza, inafferrabilità, che sono originariamente propri dell’esperire.
Non so se, detto questo, una ‘questione del realismo’ si possa porre, in arte o in qualsiasi altra sede.
A ben guardare sembra che tutto il Novecento (e non solo quello) ci trasmetta con chiarezza una cosa: il carattere enigmatico e non prevedibile dell’oggetto estetico.
Una scrittura «che non punti all’effetto di realtà» è forse plausibilmente in linea con i codici appena descritti. Con il mutare (low-definition, o high) del movimento di aggiustamento della visione.
Produrre oscillazione di visione tra “fuori fuoco” e “a fuoco” significa piegare lo specchio su sé: precisamente sull’impredicabilità del suo essere.
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[annotazione presente – in forma diversa – sul III Quaderno di “Poesia da fare”, a cura di B.Cepollaro, p.15: file pdf 337 Kb]