A partire da una sollecitazione al dialogo di Marco Giovenale in occasione di un mio post, si è avviato un dialogo a più voci sui temi della ‘ricerca’. Contemporaneamente su più blog queste voci dialogheranno con una cadenza settimanale. Per ora sono stati ricevuti gli interventi di Giorgio Mascitelli, Davide Racca, Giulio Marzaioli, Marina Pizzi, Carlo Dentali, Giuliano Mesa. Il lavoro finale sarà raccolto in un e-book di Poesia Italiana E-book.
Biagio Cepollaro
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Qui di séguito i primi due momenti del dialogo: (01) Poesia di ricerca e poesia di risultato, e (02) Alcuni punti su “poesia di ricerca”. In dialogo con Biagio.
01. Biagio Cepollaro
Poesia di ricerca e poesia di risultato
Le parole che accompagnano, preparano, orientano la poesia che si vorrebbe scrivere e leggere sono parole molto insidiose. Per non pochi motivi. Sicuramente perché c’è un abisso tra l’intenzione di fare e ciò che poi si fa.
Anche quando vi è un progetto, ciò che accade per lo più, nel concreto della creazione dell’opera, spesso oltrepassa il progetto che si rivela come una semplice suggestione iniziale, uno spunto, non un destino. La costellazione intellettuale dell’autore in quel momento propone se stessa come matrice dell’opera ma l’opera, se è buona, continua a sciorinare i suoi sensi, anche in altra costellazione intellettuale. E ciò può capitare all’autore stesso e all’interno di una singola vita.
Eccezione per questo discorso è la scrittura operata dalla macchina o macchinicamente, ma è l’eccezione che appunto conferma la regola.
Anche le parole che raccontano ciò che si è fatto sono estremamente parziali : la consapevolezza di ciò che accade in un’opera d’arte va spesso svolgendosi nel tempo senza mai esaurirsi. Le parole quindi a priori e a posteriori relative alla creazione dell’opera d’arte non solo rischiano di essere letteralmente altre parole -se non parole d’altri– ma rischiano di essere fuorvianti: uno crede di aver fatto una cosa, magari in reazione a qualcos’altro e invece ciò che ha fatto col tempo rivela altri pregi e altri difetti.
Molte discussioni letterarie che hanno colmato anche il Novecento sono nate e si sono sviluppate per questo conflitto di intenzioni. In molti eravamo a urlare le nostre intenzioni.
Si sono formati gruppi con la stessa – presunta o apparente- intenzione, si sono prodotti nemici per intenzioni opposte…Ma soprattutto ci si è accaniti sulle intenzioni e non sulla lettura dei testi effettivamente scritti…
No, oggi non credo sia consigliabile esprimersi in termini di ‘poesia di ricerca’: la poesia, quando è buona e conta, è solo di risultato. E le intenzioni possono garantire la serietà intellettuale dei propositi ma non la consistenza e il significato dell’opera.
Questa è una delle ragioni per cui suggerisco di spostare l’attenzione dalle poetiche all’esperienza della lettura, all’ascolto intenso dei testi, all’individuazione di ciò che della nostra umana esperienza risuona attraverso e grazie a loro.
lunedì, gennaio 08, 2007, da http://cepollaro.splinder.com/1168251817#10484833
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02. Marco Giovenale
Alcuni punti su “poesia di ricerca”. In dialogo con Biagio
– La sensibilità e acutezza di Biagio sono come sempre in campo nel mettere bene a fuoco alcune abitudini lessicali che possono non essere giustificate, e dunque sono e vanno (come ogni cosa) sottoposte a critica. Ben vengano dunque le sue annotazioni di dubbio sull’espressione “poesia di ricerca”. Ogni automatismo – nel dar per scontato che sia condivisa una accezione di quel ‘modo di dire’ – va messo in discussione. In questo senso il contributo di Biagio deve far riflettere.
– A mio avviso, un rischio corso dal post è tuttavia quello (certo involontario) di riprodurre una dialettica o contrapposizione che può non cogliere nel segno, se la definizione “poesia di ricerca” viene collocata anzi chiusa nell’etichetta “poesia di progetto”. Sempre è accaduto che le riflessioni di/su (intorno alla, prima della, dopo la) poesia materialmente scritta e fatta si intrecciassero con questa. Senza con ciò generare – necessariamente – ideologie “di programma”, ovvero di (una qualche) militanza stretta. (L’idea stessa di Zibaldone è lì a ricordarcelo).
– E se questa militanza o ideologia è stata presente e forte in altri anni, dobbiamo pensare anche che proprio l’esperienza comune di àkusma – tra 1998 e 2003 e dopo – ha avuto il valore di sgomberare il campo da poetiche normative, da misletture e non-letture, da opposizioni “di programmi”, da liste di proscrizione e ostilità insensate. Certo, quando si parla di “poesia di ricerca”, per riflesso automatico, i diversi insofferenti o avversari della ricerca (di qualsiasi ricerca o esperimento: di ieri come di sempre), fanno scattare i coltelli. Ma se è di questo che ci preoccupiamo, dobbiamo sorridere con coscienza: quei coltelli scatteranno sempre. (Qualsiasi cosa facciamo e diciamo).
– Stando semplicemente a GAMMM (che non è certo tutta la poesia di ricerca! né ne descrive ampi tratti), ecco cosa si diceva nell’editoriale tutt’ora in rete: “[GAMMM] non ha orientamenti prescritti – né prescrittivi. allo stesso tempo, una nuvola di variabili e costanti si può descrivere, dicendo che si incontrano alcune ricorrenze”. Nada mas. (Ma le ricorrenze e le predilezioni, le variabili e le costanti, andavano e vanno pur sempre elencate: esprimere almeno per cenni un’identità non è negare altre identità, ma semmai ragionare sulla propria: a maggior ragione se questa identità trova riflessi e dialogo in culture non italiane, non italofone. Che fare? Non darne conto? Per il 90% i siti elencati nella pagina di link recano scritto “experimental poetry”). (Si potrà allora dire: definiamola “poesia sperimentale”, non “di ricerca”; bene: d’accordo!). (Ma nomina sunt consequentia rerum, per certi aspetti: si può dire e ripetere qui che non è illegittimo considerare sinonimi “poesia sperimentale” e “poesia di ricerca”).
– Biagio scrive: “Le parole quindi a priori e a posteriori relative alla creazione dell’opera d’arte non solo rischiano di essere letteralmente altre parole -se non parole d’altri– ma rischiano di essere fuorvianti: uno crede di aver fatto una cosa, magari in reazione a qualcos’altro e invece ciò che ha fatto col tempo rivela altri pregi e altri difetti”. E però io mi domando: in che senso “rischiano”? in che senso sono “fuorvianti”? Per come la vedo io, queste parole, questa produzione e emissione di alterità, queste linee aggiunte, e il loro deviare e delirare e andare (ragionevolmente) fuori pista, sono precisamente il bello della critica. Ossia formano con il testo un intreccio di relazioni impreviste, non già date, non pre-viste: la critica offre una lettura del testo in riferimento a ciò che nel testo non è (o non è a tutti, o non è sempre) immediatamente visibile, e che però qualcuno discerne e dichiara, mutando così il medesimo oggetto d’osservazione, in qualche modo, strappandolo a sé, alle sue proprie misure e serrature. Il ruolo del critico (se e quando sensibile) è o dovrebbe essere questo. E non è forse proprio il grande lavoro (da fare e già fatto, e in corso) che Biagio svolge con il suo blog, con la rivista, e con Poesia Italiana Online? Direi francamente e felicemente di sì.
– Scrive Biagio: “Molte discussioni letterarie che hanno colmato anche il Novecento sono nate e si sono sviluppate per questo conflitto di intenzioni. In molti eravamo a urlare le nostre intenzioni. Si sono formati gruppi con la stessa – presunta o apparente – intenzione, si sono prodotti nemici per intenzioni opposte… Ma soprattutto ci si è accaniti sulle intenzioni e non sulla lettura dei testi effettivamente scritti…”. Replico dicendo: ma cosa fare quando, nonostante e contro l’eliminazione dal campo di ogni intenzione e discorso critico, si formano comunque ostilità verso un lavoro artistico che è: definito, connotato, ricco di testi, di pagine sùbito offerte e disponibili in rete, MA non esposto in forma militante; semmai proposto e non imposto (tantomeno editorialmente); senza ‘gruppi di potere’ (senza Accademia, università, istituti); e ha semmai il pregio di essere non solo italiano?
– Non sarà forse vero che l’ambiente letterario – non solo quello del nostro paese e non solo quello poetico – è di suo, e del tutto indipendentemente da quel che si fa e si scrive, scosso da altri problemi, da altre tensioni, che non riguardano quasi mai i testi, e che semmai attengono alla sfera personale, ai narcisismi e ai caratteri e alle piccole ansie di potere e visibilità di chi si agita nel circo? Il mio timore è questo. Le persone, non la critica o le parole, sono il problema. Se la critica è ben fatta, e fatta onestamente, se le parole e le osservazioni di poetica e di riflessione sono “pertinenti” (o intelligentemente impertinenti), anche se non colgono del tutto nel segno, e meglio ancora se de-lirano, e ampliano e approfondiscono le complessità e gli intrecci del testo illuminandone solo alcuni e producendo qualche ombra utile, sono proprio quel che ci vuole: sono un bel carburante del motore letterario. Il problema non è in loro.
– L’astio e la competizione maniacale, il narcisismo e la menzogna, l’invidia e la prevaricazione, la sete di micropoteri e l’intenzionale non-conoscenza e non-confronto sono IL problema; non i testi e i pre-testi che questi disvalori scelgono per manifestarsi. Non a caso – marcando una differenza da prassi negative e conflittuali – uno degli elementi centrali in àkusma è di carattere etico; come tale era stato voluto come principio fondamentale da chi ha avuto il merito di inventare e promuovere quella rete anarchica di autori.
– Scrive Biagio: “No, oggi non credo sia consigliabile esprimersi in termini di ‘poesia di ricerca’: la poesia, quando è buona e conta, è solo di risultato. E le intenzioni possono garantire la serietà intellettuale dei propositi ma non la consistenza e il significato dell’opera”. Mi domando però: la categoria “risultato” non è altrettanto indefinita, forse imprecisa? Cosa può – a sua volta – funzionare da “garante” del risultato? Un critico? Un’esperienza? Il critico sembrerebbe escluso, stando al post. (E: lo è?). Mentre l’esperienza, come l’aroma del caffè di cui parla Wittgenstein (che però – dico – fa starnutire alcuni, e infuriare altri), è veramente una “garanzia”? E, più in generale, è di “garanzie” che abbiamo bisogno? O di poesie, prose, saggi, analisi testuali, indagini stilistiche, discorsi informali, dialoghi, confronti, pubblicazioni, sillogi, riviste, traduzioni, siti?
– E quando queste poesie, prose, saggi, dialoghi, riviste eccetera hanno un’identità in qualche modo circoscrivibile (e spesso sono “di ricerca” nel senso espresso, con i testi e non con dichiarazioni, dagli autori post-93) … cosa fare?
– Ancora: come sostenevo in un precedente intervento, l’espressione “poesia di ricerca”, che fino a qualche anno fa non chiedeva ulteriori specificazioni, e rimandava a una costellazione di opere in linea di massima identificabili, e di pratiche stilistiche e riflessioni date per note, è oggi sottoposta a un bizzarro processo di opacizzazione (semantica). Come se ogni volta si dovesse fornire una voce di vocabolario, o un link esplicativo, qualcosa insomma a cui afferrarsi per non cedere all’indistinzione che quella (sedicente? seducente?) peculiare modalità di scrittura sembra portare in sé.
– Sicuramente questa opacità ha varie cause; elenchiamone solo alcune: 1, la mancanza di una percezione/educazione all’alterità linguistica forte (se una scolarizzazione via via più blanda produce vocabolari e linguaggi sempre più terrorizzati dall’altro e dalla deviazione da standard): vediamo che inizia proprio a mancare la percezione della regola e dell’effrazione: per essere apprezzato, un linguaggio diverso deve essere riconosciuto come tale: se viene eliminato in partenza perché quasi acusticamente rifiutato, è inutile pensare che possa accedere a una qualche decodifica: non passa, semplicemente, come non passano le ragioni della politica, ma semmai solo gli strepiti gli slogan le battute; 2, la scomparsa dai cataloghi editoriali e perfino dalle librerie di modernariato di molte opere di scrittori di ricerca (siano essi “sperimentali” o “d’avanguardia” o quant’altro), e la situazione disastrosamente appiattita sul genere romanzo dell’editoria tutta, grande e piccola; 3, la persistenza e permanenza di una sintassi a subordinazioni azzerate, e di un lessico povero, poverissimo, tra televisione e Petrarca, che non conosce altro fuori dal sentimentalismo e dal cinismo (dunque gli effettacci, il pulp, il trash); 4, la imprecisa o incompleta o (da un certo punto in avanti) elusa trasmissione di informazioni e saperi e pratiche alle “nuove generazioni” da parte di alcuni segmenti mediali delle generazioni precedenti (da riviste, siti, istituzioni anche accademiche, libri, giornali, docenti, e in generale persone) che pure avevano vissuto e concretamente costruito alcune fasi e stagioni di poesia di ricerca in Italia; 5, l’indisponibilità a riconoscere che proprio le avanguardie del ‘900 hanno offerto i molti codici (o molti dei codici) di cui si serve non solo la tecnologia web, ma ciascuno di noi nella vita e nel discorrere comune, dove sapido e giocoso, dove cupo e inventivo.
– (Come spesso accade in Italia, non mancano le cose, manca la coscienza di possederle. Manca una sorta di “nesso di coscienza”: tutti usano modalità delle vecchie/nuove avanguardie e dei vecchi/nuovi sperimentalismi, per esprimersi: dalla grafica dei siti alle copertine dei libri alla grammatica della chatline alla programmazione html, tutto si muove secondo linguaggi complessi: è la coscienza di questa complessità – e della non disgiunta complessità della poesia – a non esser trasmessa; a non essere stata trasmessa. A fronte di un densissimo gomitolo di codici che tessiamo e scompaginiamo ogni giorno, la parola poetica viene sempre costantemente e si direbbe programmaticamente spinta verso angoli di ipersemplificazione e presunta innocenza, cancellazione di ironie e di gioco, abolizione del concetto stesso di enigma, struttura, citazione, ..).
– Ma torniamo alla ‘modalità’ chiamata in causa nel post. Un dubbio: dire che la scrittura non deve o non dovrebbe essere definita “di ricerca” ma semmai “di risultato” è – io temo – un po’ come dire che solo le cose belle sono belle. Ossia che deve passare solo quello che vale. Siamo – e sempre saremo – perfettamente d’accordo su questo, tutti (poeti clus-clus, poeti leu-leu, antilirici, neometrici e neopetrarchisti e mammisti e cuoreamorefioristi inclusi). Infatti non è – temo – questo il punto su cui far leva per ragionare sull’argomento che abbiamo in mente. In compenso, è un punto che può togliere terreno e ascolto (ma so bene che non è quel che Biagio vuole) a una linea di scrittura precisa o precisabile, o a un insieme di linee di scrittura. L’esito paradossale dell’intervento, dunque, rischia di aversi su quel preciso piano che invece Biagio giustamente teme entri in campo: il piano della diffusione di prassi e politiche negatrici delle scritture nuove (di qualsiasi tipo). Da un lato, sul piano testuale, infatti, la scrittura di ricerca c’è, esiste, e gode di ottima salute. D’altro canto, sul piano ‘politico’ e di accoglienza/diffusione, non è d’aiuto limitarne la trasmissione negandole una definizione, una autodescrizione.
– Trovo però assolutamente giusto accogliere la vigilanza a cui quel post spinge, su quanto di scontato c’è nelle etichette, nella forza definitoria. Se una opacità si è attestata, intorno all’espressione “scrittura di ricerca”, forse è anche perché una simile indicazione di percorso non è completa ed esatta, né certo esaustiva e tantomeno definitiva. Va integrata, interrogata, discussa, rivista. Ma: abolita? Ma: cancellata? Come possiamo cancellare l’alfabeto? È mai possibile che non ci sia modo di considerare gli eventi che tra Otto e Novecento sono successi nelle arti, in letteratura e ovunque, come elementi imprescindibili, strutture di un diverso e mutato alfabeto o set di segni, che scompaginano e rifondano (rinnovano ma problematizzano: ma ampliano) le possibilità di produzione di senso? Sono davvero, come scriveva Giuliani nell’introduzione ai Novissimi, tratti di un linguaggio “da cui non si può tornare indietro”. (Ma, proprio a scorno di ogni ottimismo e storicismo progressista, il fatto che invece si possa eccome tornare indietro, senza pudore, lo dimostrano i linguaggi grotteschi cavernosi e cavernicoli che prima che in poesia si incarnano in banalizzazione di massa costante, attraverso i media; oltre che nelle scritture poetiche e narrative superficiali, arcaizzanti, fiaccamente epigoniche di settecento anni di lessici). (Una parentesi un po’ accesa: l’epigonismo è sempre disdicevole; ma vorrei aggiungere: ricombinare elementi alfabetici giovani, anche senza successo talvolta, è senz’altro – è almeno – più divertente e forse più coraggioso che rimestare calderoni secolari capaci di un “successo” garantito solo dal già cucinato, dalle sclerosi uditive dei lettori di cronaca rosa poetica).
– In limine. Il o un problema di chi (molto giovane o quasi) oggi fa o vorrebbe fare ricerca (seriamente) è o può essere sì quello di adagiarsi nel campo “scrittura di ricerca” evitando in parallelo di tener conto del fatto che ne sono state perse le tracce definitorie, di descrizione, di margini, e che dunque vanno reindicate (in alcuni casi reinventate, o rammentate, o anche importate, se necessario). Ma nulla si può dare per scontato. Né tutto sommato si possono accusare i giovanissimi che avviano percorsi ora di non aver introiettato certi riferimenti, certe ‘enciclopedie’: gli individui o i luoghi che trasmettevano tali riferimenti hanno volentieri abdicato a un dovere di comunicazione e archivio e memoria e insegnamento, quando non sono stati meticolosamente cancellati dal mercato editoriale in questi ultimi venti o trent’anni.
– Ora. Il dialogo tra tutti i vari “problemi” fin qui toccati è più importante della loro esistenza come questioni separate. Almeno credo. Ecco una delle tante ragioni per cui Biagio è un formidabile ‘sprone’ per uscire dalle parole già pronte; un critico da ascoltare, anche non condividendone sempre le posizioni; come qui mi è accaduto di fare, argomentando.