Il gioco terribile e amoroso della poesia.
Un libro di Massimo Sannelli sull’insegnamento della poesia nelle scuole
Si può insegnare la scrittura poetica? Sì, se superando la logica perturbante del concetto di “scuola formativa” si è capaci di impostare una guida alla visione della poesia nell’ardore di un gioco sospeso tra l’ordine e l’abbandono, tra la regola e il sogno.
Ma, in vero, le scuole di scrittura sono basate, quasi esclusivamente, sul metodo di una “costruzione” tecnica, grammaticale, e non, purtroppo, sul modo, sui modi, che permettano l’aprirsi di quella tensione sacrificale, impronunciabile e inconcepibile se non nella sua calda esperienza, che lascia il varco all’accendersi della parola poetica, vera figlia dell’atto immediato, non del progetto (dunque intestimoniabile; dunque irriferibile, non mai riconducibile al limite di un esterno insegnamento). L’unica via risolutiva dovrebbe, potrebbe essere: concentrare l’attenzione (la “tecnica”, la volontà) e poi essere scoperti da una mancanza; cadere nell’interdizione di un difetto e lì tacere; e lì ascoltare. Bisogna lottare contro il proprio disperato confine: ed è allora che le parole assumono «a volte un contegno più che irrispettoso» (Amelia Rosselli).
Che significa ciò? Vuol dire stabilire l’incontrastata felicità di un preciso itinerario e cancellarlo, per amore del disinteresse; per amore dell’amore. Se si volesse “insegnare” la scrittura poetica bisognerebbe, insomma, parlare al buio; riformulare il senso della falsa “utilità” della parola e sganciare ogni frase ogni verso ogni suono dalla volgare prospettiva privata, liberando la poesia del peso consolatorio-ricompositivo dei molti poeti-diaristi che siamo abituati a leggere: poiché essi, quasi sempre, sono sùbito pronti a confondere la loro personale visione con una urgente e universale necessità; ma è l’io piccino, sciagurato, che parla in loro: e parla volendo esserci, sempre; volendo far rumore col proprio peso. L’attenzione “mancata” di un poeta, invece, chiede l’opposto: vuole l’immensa ferita di una luce che si spegne d’improvviso; desidera, insomma, far tremare l’orizzontale sicurezza del percorso e sbriciolare ogni egoistico e vanitoso sentimento, mostrando l’accadere di un comune sentire, un vero stordimento che dà gioia e sconcerto a chi, per ventura, provi, insieme con lui, la medesima esperienza. Pure, una “scuola” è data per organizzare, non per sottrarre; e nasce per spiegare e far emergere (“educare”), non per rimuovere. Da ciò, i risultati nefasti e inutili di una pedagogia della scrittura poetica.
Un caso felicemente contrario a tali esiti è ciò che ha fatto Massimo Sannelli, capace di insegnare lo sguardo poetico agli alunni di una scuola media: legga, chi vuole, i notevolissimi e preziosi esperimenti didattici che il poeta ha raccolto in un volume pubblicato di recente, Amanuense (Edizioni di Cantarena, Genova; cantarena [at] libero [dot] it).
Si ha, finalmente, l’impressione che la scuola sia riuscita a comprendere la necessità di fornire, agli alunni e ai docenti, la dolcezza di un sapere che ritorna, alchemicamente, al non sapere: e ciò è, finalmente, una felice moltiplicazione della vita stessa; e tale inaspettata sorte è, in vero, il più desiderabile dono che sempre dovrebbe offrire, appunto, il gioco terribile e amoroso della poesia.
Mario Fresa