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non c’è niente di ‘normativo’ o autoritario nel chiedere attenzione per alcuni linguaggi, niente di prescrittivo. niente di insensato nel fare uso di più linee di ricerca. di sperimentazione. (attestate o meno, frequentate o meno).
in certi casi si tratta di linguaggi o direzioni o fronti semplicemente avviati dalle avanguardie. e solidi ormai in lingue e culture. (specie poi nell’immaginario visivo).
Marcel Duchamp, circa cento anni or sono, non ha fatto – in qualche modo – che dare statuto di “opera” e “iterazione” a quella chiarissima imprevedibilità dell’oggetto estetico che la stessa nascita della fotografia aveva – a sua volta addirittura un secolo prima! – materiato in meccanismo. (la nascita di una tecnica attraverso cui il mondo si cattura da sé, ridimensionando il ruolo del gesto intenzionante dell’artista, significherà pure qualcosa. sarà pure segno di qualcosa il fatto che il 1839 dista meno di cinquant’anni dalla terza Critica kantiana).
si intenda “oggetto estetico” come oggetto attivante il gioco di senso-non-senso che è di tutte le percezioni. (non tutto è “estetico” – in questo senso. ma: la fotografia dimostra [= nasce dal fatto] che la sensibilità dell’anthropos, a partire da un dato intreccio di momenti della sua storia, ha iniziato a essere virata verso una quantità prima impensabile di luoghi e oggetti. il “bello” si è disseminato; è diventato una possibilità fotografata, una differenza ormai visibile, come un cursore spostato ovunque: il telemetro dell’obiettivo, il quadrato di legno della ‘scena’ da fotografare).
(questo ha a che vedere con la rivoluzione industriale, ovviamente: ma non ne è soltanto e meccanicamente “conseguenza”). (ogni modificazione di linguaggi e percezione retroagisce sulle culture umane, che a loro volta ricodificano e fabbricano stimoli di risposta).
tutto nei laboratori dei primi fotografi era utensile, strumento, coercizione, legamento, vincolo, scenografia, trompe-l’oeil, funzione e fissatore, … poggiatesta, reggibraccia, poltrone, finte colonne su cui inchiodare il corpo intero … tutto per alleviare e consentire l’immobilità che i lunghissimi tempi di posa chiedevano ai fotografati.
MA: questa immobilità a volte non funzionava, movimenti impercettibili creavano sfocature, intere sessioni di posa risultavano diversissime dalle pur millimetricamente calcolate intenzioni dell'”artista”. ebbene: questo non significa(va) immagini “brutte”. poteva accadere il contrario.
proprio la cattura del possibile, del variante, del “non umanamente intenzionato”, poteva (non era prescrittivo: NON “doveva”) produrre passaggio di senso. bellezza, per dire semplicemente.
[la fotografia, come mezzo, in generale, è questa possibilità, afferrata, parlante, e precipitata in tecnica: in meccanismo. è la filosofia fatta non più dall’uomo ma dalla trasparenza, dalle lenti, dalle deviazioni che questo ha inventato]
[in ciò, il cinema è perfino un passo a ritroso (può esserlo). è il colpo di frusta, all’indietro, a rientrare, dato dal tempo sul meccanismo. il meccanismo fotografico è intemporale, dissipativo, dissemina immagini, alla lettera: le sparpaglia: ovunque. il cinema le mette in riga, in fila, gerarchizza, impone regia, montaggio, storia, plot, linea, sequenza: racconto. un prima e un dopo. ossia (anche positivamente) taglia i rami del possibile. potatura a volte benefica. ]
2
concordo con quanto scrive John Shapter in Minimalist Concrete Poetry. difficile non credere nell’esistenza dei found objects. o: sought (poems, prose, visual poems, eccetera), come direbbe KSM.
difficile, anche, pensare che il caso voglia dirsi (o debba o possa esser detto da qualcuno) prescrittivo. ognuno può scrivere come vuole, e inserirsi o meno in una tradizione o in più tradizioni. non mi riesce di capire dove sia il problema, eppure sembra che in alcuni contesti (insisto nel segnalare quello italiano) il minimo semplice riferimento – sia discontinuo sia continuo – a codici e linguaggi non lineari – perfettamente a loro agio e perfino debordanti in tante forme di comunicazione anche italiane – debba essere sospettato e disamato.
pazienza. non si può voler bene a tutti né da tutti venir amati. esistono diverse decine di migliaia di siti e gallerie e riviste e blog, e scrittori e artisti, forse centinaia di migliaia, che fanno riferimento a quelle tradizioni, in quelle si inseriscono, e di fronte a opere secondo quei criteri prodotte suscitano e ricevono e scambiano reazioni di dialogo, di interesse, di legame. nelle comunità umane, prima ancora che in quelle artistiche, succede così.
di fronte a una poesia visiva, o concreta, o a una narrazione o poesia html come quelle di Young-Hae Chang, è lecito e francamente ben prevedibile l’affermazione “è bella”.
nessuno impone a nessuno alcune vie. ma, siccome esistono, qualcuno le percorre. e sa e vede di non essere solo.
inoltre.
come la fotografia quasi 170 anni fa ha segnalato al mondo, attraverso il mondo stesso, che il mondo usciva dall’inquadratura, altrettanto ora la non-struttura delle connessioni web, la rete, attraverso centinaia di migliaia di siti e gallerie e blog, segnala al mondo attraverso il mondo stesso che i linguaggi e i segni e gli spazi e codici con cui gli artisti e le persone (le più semplici) si scambiano messaggi e vita e senso escono [possono uscire] dai codici lineari, escono dall’allineamento per svilupparsi in forme che possono anche essere lineari. ma che non si sentono in dovere di sottostare a questa (né ad altra, quale che sia) prescrizione.
3.
la scrittura di poesia in Italia può tenere o non tenere conto di tutto questo. fatto sta, le cose hanno interessanti vettori di cambiamento, anche perché la precedente fase e frase muterà: “la scrittura di poesia in Italia”, nell’arco di qualche generazione (sempre che resti sano il pianeta Terra, malconcio come lo vediamo) non significherà moltissimo.
ma anche questa è illazione. l’invito è a godere dei codici e della loro molteplicità e ricchezza (senza lasciarsi spaventare dalla loro quantità).