Fino all’aprile del 2004, la mia conoscenza della poesia degli Stati Uniti era meno che scolastica e consisteva, negli effetti, in una frammentaria lettura dell’antologia della New American Poetry, in un corso seguito al primo anno di lingue su The Waste Land ed in poche citazioni da Whitman e da Dickinson.
Nell’aprile del 2004, però, iniziai a lavorare come documentalista presso un piccolo centro di documentazione di Brescia. La mia mansione consisteva per lo più nella redazione di abstract e, a conti fatti, riusciva ad occupare solo una parte delle ore che trascorrevo in ufficio. Per il resto, avendo a disposizione un accesso ad internet a banda larga e nessuna limitazione nell’uso, passavo il tempo navigando in rete.
Ho iniziato così a visitare i siti ed i blog di poesia statunitensi. L’impatto è stato da subito spiazzante: sul web, la quantità di testi letterari in lingua inglese scritti da autori degli Stati Uniti è enorme. Gli autori reperibili sono nell’ordine delle centinaia, ed i siti, le riviste, i blog nell’ordine delle decine. Si aggiunga che una gran parte di essi è legata da una fitta rete di link, che rimanda gli uni agli altri in una vera e propria poetrynet, e si può capire come davvero ho avuto l’impressione di essere arrivato in un altro (nuovo?) mondo.
Dopo i primi giorni, andando un po’ a caso, annusando l’aria, per così dire, affidandomi a particolari più o meno oggettivi per comprendere l’autorità dei siti, la credibilità degli autori, l’estensione e gli orientamenti delle aree che finivano per disegnare (e trovando da subito lo splendido portale della Buffalo University: http://epc.buffalo.edu), mi trovo a leggere alcuni versi, evidentemente sperimentali, evidentemente “fortissimi”, su dei gattini e sulla guerra a firma di K. Silem Mohammad, dove la K sta per Kasey. Dopo alcune ricerche, arrivo a sapere che il pezzo che ho letto appare in:
1) Deer head nation / K. Silem Mohammad. – Tougher Disguises, 2003. – 120 p.
e decido di comprarlo. Grazie ad un amico, così, che possiede un’utenza Paypal, ordino il testo a James Meetze, della Tougher Disguises, che me lo spedisce con una certa velocità.
Il libro mi conquista da subito, anche se non riesco a leggerlo per intero ma solo, come al solito, a frammenti. Quello che capisco e che mi affascina è: l’uso di materiale testuale pre-esistente nella stesura dei pezzi, che risultano più come delle installazioni che delle “liriche”; il fatto di avere il web come fonte in questo lavoro di recupero, scandagliato attraverso i motori di ricerca, secondo stringhe decise dell’autore e formate da parole particolarmente “significative” (sesso, guerra, terrorismo) o assolutamente inoffensive (gattini); l’impiego dell’elenco come grande figura generale che si sostituisce alla struttura dei versi ed a qualunque forma canonica (alcuni pezzi sono formati da liste di 14 elementi-frasi: sonetti?). Inizio ad avere una curiosa sensazione di agio, nei confronti della poesia statunitense, che mitiga la costernazione iniziale e mi fa pensare che con gli americani mi potrei trovare bene.
Con James Meetze inizio anche una breve corrispondenza che mi frutta, tra le altre cose, l’indirizzo di Mohammad che a sua volta contatto. Ad entrambi chiedo di fare dei nomi, ovvero di darmi delle indicazioni su cosa ritengono interessante, fruttuoso, bello nella produzione poetica statunitense. Purtroppo non ho nessuna risposta utile.
Nello stesso giorno in cui ho la fortuna di trovare i testi di Mohammad, trovo anche i testi di Rodrigo Toscano. Per la precisione, un lungo testo in formato .pdf: 62 prose-units written in illness. Il pezzo, come dice il titolo, è composto da brevissimi brani in prosa, separati da una riga, in cui la sintassi, franta e disarticolata, serve da struttura in cui organizzare un materiale immaginativo dei più vari, sfruttando una specie di citazionismo corpuscolare e centrifugo, in cui non è più neppure previsto il riconoscimento del citato, ma solo il movimento verso il “fuori” che scatta nella lettura e l’occupazione dello spazio pragmatico del lettore con materiale altro. Trovo un’idea del pezzo scritto come “deposito” e “luogo di coagulo” di una cultura evidentemente ipertrofica, un’idea che si riflette in altre caratteristiche del testo, come l’uso di neologismi e di quelli che sembrano essere termini dello slang. Decido di procurarmi anche i suoi libri e li ordino su Amazon. Mi trovo di nuovo ad andare un po’ a caso e compro:
2) The disparities / Rodrigo Toscano. – Green Integer, 2002. – 100 p.
3) Platform / Rodrigo Toscano. – Atelos, copyr. 2003. – 231 p. ; 21 cm
I libri mi arrivano nel giro di qualche settimana e non trovo il testo che mi aveva tanto colpito. Per di più, entrambe le raccolte mi risultano, in termini meramente linguistici, quasi del tutto incomprensibili, a causa anche delle caratteristiche che mi avevano colpito: la sintassi interrotta, i neologismi, le espressioni di slang e quel citazionismo corpuscolare che richiama, nei versi più o meno brevi, nella prosodia più o meno prosastica, Hardt e Negri, la guerriglia di Genova, Eluard. Ogni volta che riesco a intavolare una lettura di colpo mi si disfa tra le mani: sarà colpa del mio inglese o del suo, fatto sta che sento quasi un disagio fisico e inizio a capire, forse, dove Toscano mi vuole portare. Di sicuro, capisco come si colloca politicamente e la matrice marxista del suo discorso.
L’impiego come documentalista, nel frattempo, termina: mi tocca arrangiarmi da casa. La cosa però continua ad avere i suoi frutti. Seguendo il blog di Mohammad (http://lime-tree.blogspot.com/ ) scopro che un suo pezzo è apparso in un’antologia dal titolo:
4) The best American poetry 2004 / Lyn Hejinian, editor ; David Lehman, series editor. – Scribner Poetry, copyr. . – x, 278 p.
detta anche BAP 2004.
Si tratta di una pubblicazione a cadenza annuale in cui vengono raccolti (rigorosamente in ordine alfabetico per autore) quelli che sono, secondo il curatore del dato anno, i migliori pezzi di poesia apparsi in rivista, in rete, sui giornali, etc. negli Stati Uniti. Vengo a sapere che l’antologia ha una certa autorità, una storia ormai quasi ventennale, essendo la prima uscita del 1988, e che ha avuto come curatori Ashbery, Strand, Creeley, Bloom e così via.
Allo stesso modo trovo, su una lista di discussione della Buffalo (), l’indirizzo mail di Rodrigo Toscano che contatto al volo, blandendolo con alcuni paragoni politici e poetici con autori italiani che lui finge di conoscere. Chiedo anche a lui di fare dei nomi e, a suo tempo e secondo i suoi modi, me li farà.
Nel frattempo però ordino da Amazon BAP 2004 e BAP 2003:
5) The best American poetry 2003 / Yusef Komunyakaa, editor ; David Lehman, series editor. – Scribner Poetry, copyr. . – x, 243 p.
e, dopo altre settimane, mi vedo arrivare le due antologie.
Quella del 2003 mi sembra tra le più anonime, tuttavia tengo conto del fatto che, data la quantità di cose da leggere e la scarsezza del mio tempo, applico sempre dei filtri piuttosto rudi e mi riprometto di tornarci sopra. BAP 2004, invece, supera la rozzezza delle mie letture e, oltre a Mohammad, mi presenta Toscano (what a coincidence!) ed un bel gruppetto di autori sperimentali, nati tra i ‘50 e i ‘70, che mi affascinano parecchio. Citando un po’ a caso: Charles Bernstein, Alan Bernheimer, Bob Perelman, Jennifer Scappettone, etc. etc.. Torno a sentire, tuttavia, quella goffa sensazione di spaesamento: ho di fronte a me generazioni di autori che non so collocare, che non so mettere in prospettiva e le cui pubblicazioni hanno sicuramente una loro storia critica, un dibattito, fasi di aperture e di riflusso che non conosco. Per di più, trovo la cosa davvero paradossale perché se c’è qualcosa che gli Stati Uniti esportano in modo massivo è proprio la loro cultura. Eppure, questo continente poetico sembra nascosto dietro chissà quali distanze.
Inizio, comunque, a batttere la rete alla ricerca di notizie sui vari autori che mi sono piaciuti e ritrovo per la prima volta espressioni come language poetry, lang-po, post-langpo che non riesco a collocare. Scopro anche che, caso più unico che raro, Scappettone traduce dall’italiano e, nella fattispecie, Amelia Rosselli. La cosa mi ingenera un certo entusiasmo e mi fa sentire meno sperso.
Come dicevo, però, Toscano risponde alle mie richieste e mi manda il testo di un suo intervento teorico dal titolo: Re-opening a poetics of re-openings, in cui, nei modi delle sue poesie e, a quanto mi dice, in vista di letture deliberatamente shockanti, fa una specie di punto della situazione della poesia statunitense e canadese (in lingua inglese). Come nel caso dei suoi testi poetici (da cui, appunto, questo non è per nulla diverso), non riesco a ricavarne una lettura del tutto perspicua: capisco che il quadro che dipinge si basa su categorie quali il localismo, il sincretismo, la sperimentazione come, per prima cosa, “esperimento socio-politico sulla ‘sperimentazione’”. In più però cita alcuni titoli.
Di nuovo, quindi, sono su Amazon e ordino:
6) The mood embosser / Louis Cabri. – Coach House, copyr. 2001. – 139 p.
7) Transnational muscle cars / Jeff Derksen. – Talonbooks, 2003. – 128 p.
8) sKincerity / Laura Elrick. – Krupskaya, 2003. – 82 p.
9) Trumpets from the islands of their eviction / Martìn Espada. – Expanded ed. – Bilingual Press-Editorial Bilingüe, copyr. 1994. – 100 p.
10) My life / Lyn Hejinian. – Green Integer, 2002. – 165 p.
11) Shut up shut down : poems / by Mark Nowak ; afterword by Amiri Baraka. – Coffee House, 2004. – 161 p. : ill.
12) Fast speaking woman : chants & essays / Anne Waldman. – New expanded ed. – City Lights, 1996. – 159 p.
Inoltre, Toscano, avendo saputo che attraverso Amazon non riesco ad avere gli altri suoi due libri, me li manda (con dedica!):
15) Partisans / Rodrigo Toscano. – O Books, 1999. – 55 p.
16) To leveling swerve / Rodrigo Toscano. – Krupskaya, 2004. – 77 p.
Infine, in una specie di cupio dissolvi delle mie finanze, ordino anche un paio di titoli di Bernstein il cui pezzo su BAP 2004 mi era molto piaciuto. I titoli sono:
13) Republics of reality : 1975-1995 / Charles Bernstein. – Sun & Moon, 2000. – 361 p.
14) With strings / Charles Bernstein. – The University of Chicago Press, 2001. – xii, 132 p.
Chiaramente, all’arrivo di tutta questa roba, mi trovo in una brutta posizione: pochissimo tempo a disposizione e centinaia di pagine da leggere!
Inizio, così, una serie di letture sintomali, per così dire, saccheggiando i testi di pagina in pagina, saltando intere sezioni, fermandomi solo quando alcune sequenze attirano lo sguardo. Mi accorgo che spesso trovo solo quello che cerco: uso della prosa, dell’elenco, eventualmente del cut-up e tematiche in senso lato “politiche”. Mi riprometto, quindi, di usare più cautela. A conti fatti, però, quello che ricavo è più una lista di “mi piace / non mi piace” che una vera cognizione di causa. Almeno, però, il continente ormai lo sto calpestando e mi sto facendo un’idea di cosa mi posso trovare davanti.
I due libri di Toscano ripresentano le caratteristiche che conosco. Nell’ultimo, To leveling swerve, che mi sembra davvero il più bello, ritrovo finalmente il pezzo che per primo avevo letto insieme ad altri lavori in prosa ed a certe postcards in capitali quadrate ed indirizzate a Tacito, Orazio, Lucrezio, etc..
Mi piace tantissimo il libro di Derksen, canadese, costruito in parte, di nuovo, sugli elenchi, sulla prosa e sulle frasi decontestualizzate, aventi a tema un mondo globalizzato, di non luoghi, di merci. I pezzi sono molto lunghi e presentano delle liste di constatazioni, affermazioni, sintagmi isolati, senza alcuna formalizzazione, né struttura prosodica o metrica o di versi, nonostante si legga una tessitura di motivi che ritornano. Mi piacciono tanto che ordino anche:
17) Dwell / Jeff Derksen. – Talonbooks, 1993. – 98 p.
a quanto pare l’unico altro suo libro.
Mi piace altrettanto il libro di Nowak, che ricostruisce, attraverso montaggi di pezzi da articoli di giornale, libri di economia, di storia, di grammatica (tutti citati in bibliografia alla fine di ogni pezzo!), il paesaggio umano e sociale della deregulation reaganiana e poi della globalizzazione, con la chiusura delle fabbriche, la sconfitta dei sindacati, etc..
Mi affascina anche il testo di Hejinian (che è del 1982, nonostante l’edizione che ricevo sia di vent’anni dopo): una raccolta di prose poetiche del tutto inconcludenti ma a tema, apparentemente, autobiografico. Qui, a differenza che in Toscano per esempio, la catena sintattica è più o meno mantenuta intatta, mentre i passaggi semantici saltano. Non però in vista di una poetica dell’assurdo, o del non sequitur, ma piuttosto assumendo il testo scritto come luogo del lettore, delle sue operazioni di sintesi e di estrapolazione più o meno riuscite, più o meno alla deriva. La forza strutturale del testo si rivela anche in un particolare oulipiano, per così dire: il testo è composto di 45 prose di 45 frasi l’una; che sia stato scritto per i 45 anni di Hejinian?
Altrettanto interessanti sono Anne Waldman ed il suo testo, in origine pubblicato nel 1975, anche se l’area di interesse è del tutto diversa. Anziché lavorare sul testo scritto, infatti, Waldman si muove nello spazio della verbalità, del discorso, della performance. I testi sono lunghi, pieni di anafore e ripetizioni e mostrano la loro forza evidente. Noto, tra l’altro, i continui riferimenti agli autori beat (e, a seguito di indagini on line, scopro infatti che Waldman è fondatrice insieme a Ginsberg della Jack Kerouac School of Disembodied Poetics alla Naropa University) e la casa editrice: la mitica City Lights di Ferlinghetti.
Gli altri testi segnalati da Toscano non mi fanno un’impressione particolare ma, di nuovo, attribuisco la cosa alle letture affrettate e mi riprometto di affrontarli quando avrò più tempo.
In Bernstein trovo ancora, soprattutto nelle raccolte più vecchie della sua antologia Republics of reality, l’uso delle liste di frasi, le citazioni dal senso comune, per così dire, le constatazioni, etc.. A differenza che in Derksen, però, trovo un chiaro principio organizzatore nella grammatica, pura e semplice: gli elenchi di frasi, infatti, sono ragionati secondo analoghe forme sintattiche, attraverso ripetizioni di strutture frasali, iterazioni di costruzioni.
Con Bernstein, tuttavia, il discorso diventa più complesso e, di colpo, sulle pianure della poesia statunitense, ho una specie di visione dall’alto. Questa volta, infatti, riesco a collocare le strategie che scopro su pagina in un contesto più ampio, che mi fa inquadrare molti degli autori precedenti in una prospettiva storica e che mi fa scoprire un’area della poesia statunitense di cui non sapevo assolutamente nulla e di cui in Italia, come ho poi scoperto interrogando i cataloghi delle biblioteche, è arrivato quasi altrettanto.
Come ho detto, a fronte degli autori che mi avevano colpito su BAP 2004, avevo iniziato una serie di ricerche in rete, trovandomi spesso a che fare con l’espressione language poetry, riportata anche come l=a=n=g=u=a=g=e poetry. Continuando la mie ricerche scopro che si tratta di un movimento letterario statunitense, che dura più o meno dai primi anni ‘70 alla metà degli anni ‘80, rimanendo comunque un punto di riferimento importante anche per la produzione successiva – tanto che molti autori giovani vengono considerati esponenti di una post-language poetry.
In breve, la storia inizia con la fondazione, nel 1971, della rivista This, da parte di Robert Grenier e Barrett Watten, autori della West Coast. Il movimento si caratterizza, all’inizio, come in opposizione alle poetiche speech-based della New American Poetry, soprattutto nelle formulazioni della Black Mountain School di Olson. In questo senso, appare quasi come un manifesto un articolo di Grenier, apparso sul primo numero di This, intitolato “I hate speech”. Nella critica successiva, però, anche da teorici interni al movimento, questa opposizione viene molto attenuata, trovando in Robert Creeley, un poeta del Projective Verse, uno degli autori di riferimento del movimento. Alla nascita di This sulla West Coast, comunque, corrisponde, nel 1978 a New York, la nascita di L=A=N=G=U=A=G=E, edita da Bruce Andrews e da Charles Bernstein, appunto. La rivista dura fino al 1980 ed è il centro East Coast del movimento.
Nel 1986, viene pubblicata un’antologia:
18) In the American tree : language, realism, poetry / edited by Ron Silliman. – The National Poetry Foundation, 2002. – xxiii, 611 p.
che contiene testi di: Robert Grenier, Barrett Watten, Lyn Hejinian, Bob Perelman, Jean Day, David Melnick, Michael Palmer, Larry Price, Kit Robinson, Ron Silliman, Rae Armantrout, Carla Harryman, Alan Bernheimer, Steve Benson, Michael Davidson, Tom Mandel, David Bromige, Stephen Rodefer, Clark Coolidge, Charles Bernstein, Hannah Weiner, Bruce Andrews, Diane Ward, P. Inman, Peter Seaton, Susan Howe, Lynne Dreyer, Michael Gottlieb, Tina Darragh, Tom Beckett, Fanny Howe, John Mason, Bernadette Mayer, Alan Davies, Erica Hunt, James Sherry, Ray Di Palma, Ted Greenwald – oltre ad un certo numero di saggi e recensioni.
Ordino l’antologia, insieme ad altri libri:
19) The L=A=N=G=U=A=G=E book / edited by Bruce Andrews and Charles Bernstein. – Southern Illinois University Press, copyr. . – xi, 295 p.
che raccoglie gli articoli apparsi sulla rivista omonima;
20) The new sentence / Ron Silliman. – Roof, copyr. . – 209 p.
che presenta una serie di saggi di quello che sembra essere uno degli autori e teorici principali della langpo (e che tiene un interessantissimo blog su: http://ronsilliman.blogspot.com): tra i vari testi, va segnalato il saggio eponimo, considerato uno dei più importanti nell’elaborazione della poetica del movimento;
21) A / Louis Zukofsky. – The Johns Hopkins University Press, 1993. – 826 p.
l’opera più importante di un autore modernista che viene da più parti segnalato come padre spirituale e musa del movimento, insieme a Gertrude Stein. Quest’ultima, in effetti, viene citata da quasi tutti e soprattutto coi titoli che, di nuovo, mi procuro:
22) Tender buttons : objects, food, rooms / Gertrude Stein. – Dover, copyr. 1997. – 52 p.
23) How to write / Gertrude Stein. – Dover, copyr. . – 395 p.
Le questioni poetiche su cui la langpo si interroga sono principalmente quelle riguardanti una supposta “naturalezza” del linguaggio, che viene criticata, in funzione di una sua analisi ideologica, di denuncia del suo valore referenziale e cercando di elaborare dei testi aperti alla collaborazione del lettore, attraverso strategie retoriche che smontino l’io lirico e l’alienazione del discorso comune, all’interno di un programma di tipo formalista.
Tra i meccanismi retorici che vengono messi a punto c’è la cosiddetta new sentence, come nel titolo di Silliman, che è un tipo di frase in cui i meccanismi di integrazione del senso in unità più ampie (il paragrafo e poi il testo intero) vengono interrotti. Riconoscendo alla prosa la sua natura principalmente scritta anziché parlata, si trova nelle frase la sua unità di misura base. I paragrafi, a loro volta, in quanto formati da frasi, sono delle unità di quantità, paragonabili alle stanze o alle quartine. Tra i due livelli, frase e paragrafo, e verso i livelli superiori, testo e “cultura”, avvengono dei processi di integrazione del significato dalle unità inferiori ad unità superiori. La decostruzione della sintassi limita questo movimento e tiene l’attenzione del lettore al livello del linguaggio.
In questo quadro generale, riesco allora a collocare Bernstein, Hejinian, come anche Derksen, autore di un ramo canadese della langpo, di poco successivo. Il loro uso della frasi come unità di misura, l’esposizione dei meccanismi sintattici, l’interruzione dell’integrazione sematica, diventano infatti i termini di un dibattito molto più ampio.
Mohammad e Toscano, in questo senso, potrebbero essere visti come autori post-langpo, come accennavo prima. Tuttavia, scambiando alcune mail con Toscano, scopro che, come categoria critica, non è molto ben vista, anche perché passibile delle più diverse interpretazioni, dato che la produzione degli ultimi anni è molto eterogenea ed ha subito una specie di forza centrifuga.
Toscano, per esempio, non è inscrivibile tanto in un paradigma formalista, basato sullo smontamento dell’ideologia ma, piuttosto, ad un programma post-modernista (se un’espressione come questa ha un senso) di enciclopedismo più o meno interrotto, rimanendo legato, mi sembra, all’esperienza della langpo nel valore che attribuisce alla sintassi come struttura d’ordine di per sé significativa, a cui riporta materiale anche incoerente ma, di fatto, composto. Mohammad, a sua volta, esce da un’esperienza diversa e cioè quella del gruppo Flarf, iniziato da Gary Sullivan e costruito attorno ad una mailing list. All’interno di questo gruppo, tra le altre cose, si utilizza la tecnica che poi ritrovo in Mohammad, ovvero il cosiddetto googlism, cioè lo scandaglio della rete attraverso i motori di ricerca e l’uso del materiale testuale recuperato. È chiaro che l’ambito è del tutto diverso: non c’è più un’operazione contro l’alienazione del discorso comune, ma la sua duplicazione, per di più mettendo in gioco un’autorialità diffusa, anche se controllata, ed il mostro testuale che è la rete. Se con Mohammad e Toscano, poi, è possibile riuscire a individuare un qualche rapporto, anche negativo, con il resto del quadro, mi rendo conto che per tutti gli altri autori continuano a mancarmi ulteriori riferimenti e che la mia ricognizione della poesia statunitense (la mia scoperta dell’America) è lungi dall’avere una conclusione. Termino, quindi, con un ultimo elenco, quello degli ultimi testi spediti da Amazon e, per ora, nemmeno sfogliati:
24) The Greek gods as telephone wires / Bruce Covey. – Front Room, 1992. – 62 p.
25) Corpus socius : poems / by Lance Phillips. – Ahsahta, 2002. – 102 p.
26) Cur aliquid vidi / Lance Phillips. – Ahsahta, 2004. – 62 p.
27) The best American poetry 2005 / Paul Muldoon, editor ; David Lehman, series editor. – Scribner Poetry, copyr. . – x, 207 p.