“Lambiccarsi pedantescamente il cervello per creare prodotti – materiali visivi, giocattoli o libri – adatti ai bambini è sciocco. Sin dall’illuminismo è questa una delle fissazioni più stantie dei pedagoghi. La loro infatuazione per la psicologia gli impedisce di accorgersi che il mondo è pieno dei più incomparabili oggetti dell’attenzione e del cimento infantili. Dei più azzeccati. È che i bambini sono portati in misura notevole a frequentare qualsiasi luogo di lavoro in cui si opera visibilmente sulle cose. Si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici o di giardinaggio, in quelli di sartoria o di falegnameria. Nei prodotti di scarto riconoscono la faccia che il mondo delle cose rivolge proprio a loro, a loro soli. In questi essi non riproducono tanto le opere degli adulti quanto piuttosto pongono i più svariati materiali, mediante ciò che giocando ne ricavano, in un rapporto reciproco nuovo, discontinuo”.
Walter Benjamin, Einbahnstrasse (1928)
tr. it.: Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983 (ed. 2006: pp. 11-12)
Non diversa potrebbe essere un’osservazione relativa non soltanto ai materiali della poesia (che ad avviso di chi scrive sono poi sostanzialmente di origine onirica: perché anche quando si sceglie ‘per cut-up’ lo si fa all’interno di un’esigenza preorientata dalla propria identità – in larga parte inconscia); ma alle stessi prassi compositive, fotografiche, artistiche, e perfino alla critica letteraria; e diciamo – in senso ampio – a tutta quella serie di deviazioni e mancanze e colpi a segno che ruotano attorno agli enigmi che chiamiamo “oggetti estetici”.
L’oggetto-soggetto di senso si ferma e forma nel fondo dello sguardo catturato da quanto di più banale si dà attorno. La scrittura di ricerca, l’esperimento, è materia di tutti i giorni. Davvero experiments = daily codes.
I codici che comunemente balzano agli occhi, per frammenti più o meno irrelati (e non necessariamente variabili in questa loro non relazione reciproca), nascono dalle esperienze più ordinarie. Un angolo formato da due oggetti, un segmento inatteso di luci all’interno della raggiera che quotidianamente si forma nella stanza, l’epifania di tre quattro frasi casuali (e per niente ‘poetiche’) còlte camminando, dettagli nel moto complessivo di una massa di persone in una via, eccetera.
La capacità di riorganizzare questi materiali (a volte autosufficienti: solo ‘in attesa’ [non ontologica; semmai data da noi] di qualcuno che li fermi e afferri) è l’attività artistica. O ne costituisce gran parte.