Ipovisione

Recentemente è uscita una (come chiamarla? “recensione”? ma no:) iponotilla a un mio libro di versi così indifesa, sbalordita, totalmente priva di ragioni, parametri, lettura, così sperduta in una collosa pesticciante cecità davanti a quello che i testi più espliciti esplicitamente dicono, da meritare la misericordia della non citazione.

Ok: trofeuzzo. Ma: in tempi di crisi magari fa piacere. (Ovviamente: a chi vada tal premio non è da dire: la patacca la assegno, ma l’assegnatario si stia contento di ciò, non pretenda anche onori di patente sbertucciamento, se ne rimanga in tenebris).

Preciso. Il soggetto ejettante detta nota, ben cautelosa, non emette critiche al libro. Anzi. Ma tanto la dilicata diplomazia di cui fa appunto scialo, quanto la ubertosa mole di malamelassa di nulla-da-dire che accatasta nelle righe che evidentemente non poteva fare a meno di consegnare a qualche mandatario, sono peggio di una critica insincera e ingiusta. Sono ansaplast di ignoranza e mislettura. Cattivo servizio al lettore. Cerotti su un corpo sano. Ipovisione.

Nascondono in verità il fatto che l’ejettante intuisce che un senso nel libro c’è, ma che non l’ha capito. Perché non sa capirlo. Di qui, la stizzita produzione di bendaggi. Self-addressed, maybe.

Il giudizio di un qualunque lettore alfabetizzato e sano in ispirito, che abbia sale in zucca per leggere nel libro A B C dove c’è scritto A B C, sa capire cos’è A cos’è B e cos’è C, com’è fatto ciascun oggetto nominato, e come varia entro i margini di una poesia, stante il fatto che il contesto che incastona A e B e C — essendo non “informativo” ma “poetico” — giocoforza sollecita (-erebbe) un tot d’imagini e wit in chi si giovi di almeno millimetri cubi 1 di materia grigia bona, di quella (dico e finisco) nella quale s’agiti anche nomadico e rado un qualche favillare. (Che faccia favellare a senno).