Ci si trova sempre a dovere ma in fondo anche a volere (ri)definire e (ri)dire cosa si può intendere per testo installativo.
Un testo che non chieda necessariamente una lettura lineare. Un testo in cui l’impatto visivo configura già un oggetto estetico verso cui il lettore può dirigere uno sguardo non necessariamente analitico, geometrizzante, decrittante. Un testo che può indurre analisi e esplorazione minuta e che tuttavia persuade anche prima che questa si compia. Eccetera.
Più delle parole valgono gli esempi. Varie volte ho fatto quello de Il dramma della vita, di Valère Novarina, tradotto da Andrea Raos e uscito prima in Nazione indiana e poi in gammm. Qui il testo perfettamente leggibile eccede — per accumulo e ossessione elencativa felicissima quanto spiazzante e sfiancante — le possibilità e qualsiasi buona volontà di un classico ‘lettore lineare’, di ogni lettura sequenziale.
Un altro esempio potrebbe essere l’anonimo Abacuz pubblicato in marzo su http://hotelstendhal.blogsome.com: clic su http://www.box.net/shared/ohduc7zh3q. Ovviamente il dato installativo-visivo è totalizzante, in questo caso. E, prima ancora, spicca in primo piano (escludendo altri piani) il fatto che il meccanismo in gioco sia puramente ottico, ininterpretabile: accumulo da vedere, installazione senza alternative. O meglio: installazione dell’idea stessa di installazione.
Infine, si può pensare al “solid language” di Veil, di Charles Bernstein, uscito nel 1976 e leggibile online qui: http://epc.buffalo.edu/authors/bernstein/books/veil/index.html (nonché acquistabile come libro da Xexoxial Editions a questo indirizzo: http://xexoxial.org/is/veil/by/charles_bernstein)
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