(uscito in Blanc de ta nuque) in replica al mio di ieri. E torno
a ringraziare Stefano della sua cortesia e disponibilità al confronto
Una risposta a Marco Giovenale / una parola sul “fondamento”
Partendo in medias res (e con un impeto che spero non sia irritante), dico: se, come ha scritto Tarkos, “to tell the truth, uh oh, that’ll cause the revolution”, allora voglio capire da ciascuno di voi che cosa intende per “verità” e per “nuovo” (implicito nel richiamo alla “revolution”, ma anche caro a tutta la modernità, che lo pensa quale ‘superamento con scarto positivo’, e quindi riconoscendolo auspicabile a prescindere come sinonimo di progresso, avanzamento, crescita). Resi espliciti questi due fondamenti, posso distinguerli da quelli, per esempio, di Platone, Aristotele, Sant’Agostino, Spinoza, Kant, Hegel, Marx, Darwin, Wittgenstein, De Saussure, Heidegger, Popper, Deleuze, Derrida, e decidere con maggiore serenità se la posizione di GAMMM ha o meno una radice positivista.
Ancora, e cito Juliana Spathr quando afferma, a proposito di The fatalist della Hejinian, che in esso c’è la dimostrazione “how poetry is a way of thinking, a way of encountering and constructing the world, one endless utopian moment even as it is full of failures.”; a parte l’evidenza che sono molte le tradizioni culturali che trovano una forte relazione fra poesia e pensiero, vorrei sapere, parafrasando Heidegger: ma che cosa significa, per ciascuno di voi, pensare? Lo chiedo anche per poter affermare che, quando si recensisce un libro collettivo, si pensa sempre in termini generali, sacrificando, per ragioni di spazio, il particolare: penso 6 e così tolgo le singole unità, che troveranno inevitabilmente ingiustizia in quel numero impersonale, che li rappresenta solo parzialmente (ma su Broggi e Giovenale ho già scritto altrove e spero di poterlo fare anche sugli altri, prima o poi).
En passant: pretendere dal lettore di conoscere l’opera dei padri per giustificare i figli, non è leale nei confronti di nessuno, e rischia di assomigliare proprio a quello che hanno fatto gli epigoni di tutti le poetiche del XX secolo. Se vogliamo misurarci con “la degradazione dei significati e l’instabilità fisiognomica del mondo” (Giuliani) oltre che con quanto di buono ci ha insegnato la grande tradizione neoavanguardista, che ha in Italia i più eccellenti pensatori (per esempio, senza Banfi e Paci non ci sarebbe l’Anceschi del “Verri”), la prima cosa da fare è “pensare”, appunto, ossia confrontarci senza riparo con il naufragio che ogni azzardo porta con sé, con l’utopia della scrittura, che non è il senza luogo, bensì il luogo altro, da rifondare continuamente nell’adesso, da fare essere in quanto s-fondamento, rimando continuo al possibile, dialogo con un vero che è lo stesso inquieto oscillare del senso quando pensiamo, quando scriviamo poesia .Per me il dialogo fra “parole” e “langue” si istituisce quanto più siamo consapevoli di questo. Chiedo dunque a Marco: “la molteplicità lessicale”, se attinta dall’infinito trattenimento che è l’archivio contemporaneo dei saperi, è davvero atto creativo del soggetto che si sa plurale, o rischia di essere attività poietica del soggetto che opera sulla natura del linguaggio così come il soggetto borghese agisce sul paesaggio, saccheggiandolo? Il ready made non ha questa ferita narcisistica dentro sé? Vero che tu distingui, nel denso commento espresso oggi su “Poesia 2.0” a proposito del saggio di Carlucci, tra ready made e sought object, considerando quest’ultimo quale voluntas, atto/scarto/scatto creativo; tuttavia, non è questa un’ azione che compete a tutti i poeti degni di essere chiamati tali? Certo nel sought object non si pesca nell’indistinto o nell'”ignoto”, come nella linea rimbaudiana, ma le due operazioni hanno uno scarto/salto/azzardo simile. Giusto poi ragionare sulle differenze, come tu affermi nel medesimo commento.
A proposito della semiotica e dello strutturalismo, non c’è polemica alcuna. Dico soltanto che è proprio di tali discipline concentrare l’attenzione su costanti e variabili testuali, focalizzando la verità del testo sulla natura misurabile dello stesso (il Nuovo paesaggio italiano di Broggi e Tracce di Bortolotti sono così lontani?). Aggiungo: il modello greimasiano è splendido, anche se, per ragioni di scientificità, è costretto a prescindere dalla massa oscura dell’identità autoriale e dall’imponderabile della ricettività nel fruitore, quell’opaco che, con grande ingegno, ci hanno fatto finalmente incontrare Barthes, la Kristeva, Lotman, sul versante sociologico e antropologico. Autori che amiamo tutti, ne sono certo.
Infine: se dico che Prosa in prosa ha come referente critico la dominante lirica della tradizione italiana, non opero un accostamento arbitrario: 1) “prosa” è l’esatto contrario di “canto” (prosastico è aggettivo evidentemente antilirico pur se spregiativo, e canto, nella sua massima espressione – non solo etimologica – è lirico); 2) Prosa in prosa esce in Italia: non può dunque esimersi da un confronto con un dibattito che attraversa la nazione da almeno un secolo (dai Crepuscolari e dal futurismo?) e che ha proprio nell’elaborazione antilirica legata al Gruppo 63 e al Gruppo 70 un referente autorevole.
Sto parlando a dei fratelli, sia chiaro. Non dico: qui c’è qualcuno che ha torto; ma piuttosto: la ragione calcolante (e la dimostrazione, quale evidenza del torto altrui, ne porta il segno più dolente) produce guerra, nemici, silenzio rancoroso; pensare, che non è ragionare, implica invece il sentirsi parte di una rete di relazioni in cui ci muoviamo, nella quale il fraintendimento non è difetto, ma sano esercizio del prendere la parola, esercizio vitale che esemplifica il nostro essere gettati in un mormorio di voci che ci attraversano, con tutta la violenza che il ‘prendere la parola’ comporta. Una violenza, tuttavia, che strappa senso dalla verità in gioco e non dalla carne dei dialoganti. Sono convinto che anche su quest’ultimo assunto voi siate d’accordo.