Il primo giorno è la sfida, il secondo giorno di neve la sfida continua e si fa rischiosa. Comincia una sorta di ebbrezza, preludio della depressione, lieve, del terzo giorno. Il quarto giorno si avvertono i primi sintomi di soffocazione e la stanchezza dei muscoli: non si è allenati a camminare con scarpe di peso almeno doppio o triplo dell’usuale. Lo stupore arriva al quinto giorno quando il cumulo della neve fa capire che la sfida è perduta e che era, tutto sommato, insensata.
Sfidare la neve è pericoloso. Con la nostra cultura da dilettanti del nord, è come andare all’assalto dei carri armati con la cavalleria, patetico eroismo da polacchi nell’ultima guerra. Il sesto giorno, quando si ricomincia a pensare, si precipita in vertiginose irritazioni constatando l’universale assenza di pensiero. Nessuno è preparato a comportamenti alternativi e allora si comincia a imprecare contro la «cosa pubblica» che non risolve le situazioni di emergenza. Più che non risolvere ci si rende conto che la «cosa pubblica» (stato o municipalità) ormai incapace di pensiero e di decisioni giace k.o., succuba dell’ideologia dell’emergenza. l giornali sottolineano, non si sa se compiaciuti o patetici, che «arriva l’esercito». L’irritazione a questo punto comincia ad avere più fondamenti. Ci si domanda: ma come, di fronte a un’emergenza reale si chiamano a soccorso entità irreali, dai movimenti difficili a volte goffi, come l’esercito? Si mandano i carri armati Leopard a spazzare la neve? Tutti possono constatare che i carri armati Leopard sono più adatti a forare l’asfalto.
Arriva l’angoscia: manca il gas. Per un giorno il latte non viene rifornito… Lievi corse al rifornimento, ma senza assalti ai supermarket. L’autorità dà consigli e lancia proclami ma agisce sempre nel vuoto del non-pensiero. Compie maldestri tentativi di far spalare la neve e non raccoglie i rifiuti, con lo scopo evidente di dare spazio al traffico pubblico e soprattutto privato. Contemporaneamente consiglia di non usare le auto. Ci si può chiedere, allora, perché tanto sforzo e tanti affanni. Si propongono soluzioni diverse, tali da stimolare nei cittadini quei comportamenti alternativi che sono necessari per convivere con la neve senza troppi danni. Si rinunci a spalare, per fare un esempio, e si proibisca il traffico privato. Si sospenda per un giorno o più il servizio pubblico in modo da metterlo in grado di funzionare veramente il giorno successivo. Meglio decidere che non si può lavorare che fingere di lavorare, come la maggior parte degli spalatori.
L’assenza di pensiero diventa più evidente e grottesca proprio nel modo di non lavorare. La neve viene spostata da un punto all’altro senza nessuna apparente ragione, con il risultato di nascondere tutti i tombini dove potrebbe essere riversata. Ci fanno notare che i cittadini pretendono troppo dalle pubbliche autorità. Ma non sono sempre state le pubbliche autorità a promettere troppo ai cittadini, per poi sempre smentirsi clamorosamente?
Manca la fiducia? Certo che manca, ma dirlo così è un eufemismo. La crisi dell’autorità pubblica è più profonda. l commenti del Presidente della Corte dei Conti sull’andamento dello Stato hanno fatto scrivere a un commentatore per solito moderato che ci troviamo di fronte, con questo Stato, a una sorta di «singolare malfattore» che reprime ferocemente tutto ciò che per conto suo allegramente si permette.
Troppo spazio ha voluto conquistarsi la politica e fa piacere e un poco stupisce che ora questo rilievo venga soprattutto da sinistra. Ma sono ancora pochi coloro che hanno il coraggio di far capire che occorre scegliere una direzione, purché sia una direzione e non il contrario di tutte le direzioni, cioè l’assenza di direzione, gemella dell’assenza di pensiero.
“La Gola” si occupa, nel suo editoriale di questi problemi proprio perché riguardano direttamente il cibo e la cultura materiale.
Se manca il gas occorre cambiare tipo di alimentazione, è ovvio, e questo lo si è fatto. Ma anche in questo caso la nostra famosa Protezione Civile ha un bel dire che i sindaci devono pensare un po’ anche per conto loro (il che sembra molto difficoltoso, come abbiamo constatato) se poi non aggiunge, almeno, qualche dato sulle scorte alimentari e sull’alimentazione d’emergenza. Appunto. Non aggiunge dati perché non li sa. In Italia, non sono obbligatorie scorte, per esempio per i surgelati, come negli U.S.A., dove sono previste per legge, in compenso abbiamo industrie alimentari specializzate in alimentazione di emergenza, anche di tipo militare, che lavorano solo per l’esportazione.
Siamo perfettamente d’accordo che sarebbe inutile e sciocco investire a lungo termine sull’emergenza, ma ciò non toglie che l’emergenza deve essere pensata in precedenza e che vi sono decisioni e comportamenti in qualche misura prevedibili. Perché spalare se alla fine è dannoso e perfino contraddittorio? Se i danni sono molto superiori ai vantaggi? Occorre avere il coraggio di motivarsi e di agire di conseguenza, non di seguire l’onda di piena pur con la sicurezza di esserne travolti. Non è impossibile pensare che con la neve certe cose si possono fare e altre no. Che la vita normale deve essere modificata in determinate circostanze. L’autorità politica ci guadagnerebbe molto in credibilità se cominciasse a dire quello che si può fare e quello che non si può. Una volta si diceva «salvare capra e cavoli”. Non è più il tempo. Cavalcare la tigre dell’emergenza, è come se la sola emergenza giustificasse l’autorità politica, è una politica suicida.
Quella «frontiera di neve” che con acutezza Salvatore Veca ha delineato tra pubblico e privato (cfr. il «Corriere della Sera”, 24 gennaio 1985) è ormai tutta da sciogliere e occorrerà farlo, siamo d’accordo. Quando però Veca dice che occorre “un’agenda meno estesa” di impegni pubblici, «che vuol dire in pratica che si fanno meglio poche grandi cose (che mai le iniziative private riuscirebbero a fare o farebbero con effetti disastrosi) piuttosto che essere consegnati al destino beffardo di fare male un’infinità di cose diverse”, mostra una fiducia volontaristica sulla capacità dell’autorità pubblica di fare bene «pochi grandi cose». Pensiamo alle Ferrovie dello Stato, e subito i conti non tornano. Le poste ce lo insegnano, i telefoni, semipubblici, stanno a ruota… La RAI… Sono forse «piccole cose” da lasciare ai privati? Anche in questi casi il dominio del pensiero assente è palese.
La situazione è tale che non c’è più nulla da fare, dicono i pessimisti. Vediamo come finisce l’inchiesta sul crollo della copertura del Palasport di Milano… Si capisce, i partiti, i finanziamenti… Questo sì che è un circolo vizioso: si finanzia l’inefficienza… Chi avrà il coraggio di uscire allo scoperto? E gli ottimisti replicano: tutti problemi noti, che un po’ alla volta si risolveranno. Inutile scriverne. Eppure, eppure… c’è anche qualcuno che pensa che l’opinione pubblica qualcosa comincerà a esigere, magari a partire dalle prossime elezioni.
Fotografie più recenti, al momento di andare in macchina, ci mostrano le Autorità, finalmente consapevoli del buco nero in cui stavano precipitando: è stato organizzato un trust di cervelli che dovrebbero ovviare all’assenza di pensiero di cui abbiamo parlato.
Ci assicurano che al primo cenno di nuove emergenze il trust di cervelli sperimenterà i piani di intervento prestabiliti.
Speriamo che sia vero e che Milano non torni più a essere, nemmeno fuori dall’emergenza, quella città di infiniti movimenti slogati che l’hanno trasformata in un gigantesco palcoscenico per un teatro dell’assurdo.
Antonio Porta
[ in “La Gola”, n. 28, febbraio 1985, p. 3]