da Punto critico (21 lug. 2012):
Si può forse dire [attenuando: è mia cautelosa opinione sia non implausibile suggerire] che un po’ ovunque, verso la metà degli anni Sessanta, è successo qualcosa nel(la percezione del) linguaggio comune, quotidiano, che ha aperto un fronte pressoché nuovo nella poesia e nella prosa – e non solo nella scrittura di ricerca.
La parcellizzazione e le dissipazioni della (percezione della) solidità del soggetto, che ne facevano qualcosa di problematico o perfino insostenibile per gli autori della prima metà del Novecento, diventano il terreno ‘naturale’ dell’immaginazione nella seconda metà del secolo. (Quella di Chandos è così aria respirata poi da chiunque: letterato o meno).
Proprio mentre – nel secondo dopoguerra – alcuni decenni politicamente accesissimi declinano troppe certezze in termini di potere e sua distribuzione, tanta parte della poesia italiana (o per via di complessità o per via di linearità) mostra di prendere le distanze da ogni atteggiamento didascalico, parenetico. Dismette abiti egoticamente ‘crepuscolari’ ma sa tenere per fermo un “principio di esitazione” (Zublena) che non concede né al quotidiano né all’eccezionale di fissarsi in figura stagliata, e dunque “poetata”, cioè provvista di garanzie già codificate e statiche nella sensibilità ed esperienza di chi legge.
Gli autori – alcuni autori – congegnano e inventano materiali ricchissimi (e forme inedite, svincolate da molti schemi) senza pre-obbligare il lettore a identificarsi col loro sguardo, tantomeno col loro ‘ruolo’. E si rifiutano di proiettare sulla distanza che li separa dal lettore stesso l’ombra di una coesione che sanno (per tutti) inesistente. Se il corpo è un corpo-in-frammenti, l’incertezza dell’ombra è una grafia da reimparare a ogni pagina.
In questo, Corrado Costa ha rappresentato probabilmente una voce anzi la voce più divertita e affilata e persuasiva, nella scrittura italiana di quegli anni. E dei nostri.
mg
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