un post di commento alla riflessione di C. Mismetti Capua

commentando — rapidamente ma non distrattamente — questo post:

sono osservazioni necessarie, quanto dure, queste; direi indispensabili.

è difficile per ‘noi occidentali’ ri-conoscere il disagio, l’assenza di garanzie.
(come italiani, siamo costruiti, organizzati, calzati e vestiti da un insieme di garanzie magari imperfette ma per le quali qualcuno ha combattuto prima che nascessimo, e che diamo ingenuamente per scontate).

a volte ri-conosciamo solo ciò che conosciamo già.
funziona allo stesso modo per la letteratura, per l’arte. per tutto. se un codice o un oggetto o un qualche profilo ci è familiare, lo vediamo. difficile che – al contrario – noi si riesca a metterlo a fuoco se ‘non ci appartiene’.

è questo lo sforzo da fare: accettare che CI APPARTENGONO e CI RIGUARDANO precisamente il dolore, la mancanza, il disagio altrui: e precisamente perché (non “nonostante il fatto che”) siano “dell’altro”.

nell’esperienza che ho fatto parecchi anni fa – per 11 mesi – come operatore in un centro di accoglienza per rifugiati politici, ricordo, la questione – per molti, per tutti – del dove andare tutto il giorno, come e dove mangiare, cosa fare quando l’estate o l’inverno ti tiene fuori fino a sera dal posto dove (temporaneamente) ti ospitano, come lavarsi e dove, come trovare lavoro se non si è nemmeno ancora riconosciuti rifugiati, eccetera, era LA questione, la MACROquestione, fatta di tanti guai e problemi e spine una insieme e dentro l’altra, per tutti i ragazzi per i quali lavoravo (da incapace, e da ‘stipendiato’, non volontario, con tutte le mie insufficienze, e le troppe certezze di occidentale, con i miei orari, per quanto stirati per venire incontro alle complicazioni del servizio).

gli insetti, le piaghe ai piedi, insopportabili in inverno come la mancanza d’acqua d’estate, l’impossibilità di chiedere un’occupazione, l’impossibilità di non cercarla, la complicazione per rimediare anche poche lire per procurarsi un’albicocca, una banana, una qualsiasi stupidaggine che aiutasse ad arrivare alla sera; poi il peso della burocrazia, le code e i trucchi per evitarle, la questura, i controlli periodici, i conflitti, e ovviamente il razzismo diffuso, il cattivo odore che i vestiti e le scarpe non possono non mandare, se hai solo quelli che indossi e poco altro, la ricerca del cibo, delle occasioni per parlare, di schede telefoniche (di tel. pubblici, prima)… … …
ma va da sé che l’elenco è talmente fitto e complicato, duro.
per chi poi si lasciava magari delle situazioni di disperazione perfino irrisolte *in quanto disperate*, in patria. ricongiungimenti incompleti…

molti ragazzi, soprattutto dal Kurdistan (entità negata e sbranata da quattro stati uno più famelico dell’altro), erano poi solo in transito. segmenti e avanguardie che esploravano Roma ma sapevano di essere solo di passaggio – verso Berlino.

tutto questo non era né è ri-conosciuto, e *dunque* non era né è conosciuto, dai “più”. così sembra.
un minimo lavoro di documentazione, per esempio attraverso i video, è importante. ma sono certo che non basta. come non basta la rete…
si fa il possibile. (attualmente io davvero troppo poco, lo so).

mg