Olivier Favier
Creato nel 2005 dal centro studi americano Fund for Peace, il Failed States Index – indice degli stati falliti – classifica dal 2008 la Somalia come il paese più disastrato del mondo, più dell’Afghanistan e dell’Iraq, solo per citarne alcuni. Anche i suoi vicini, che la carestia del 2011 ha reso fragili, presentano tutti una situazione a rischio. Oltre alla Somalia, anche l’Etiopia e l’Eritrea, le altre due ex-colonie italiane del Corno d’Africa, versano in una condizione di preoccupante povertà. Nonostante la tutt’altro che invidiabile situazione dello Yemen, circa 20mila persone – per lo più somali ed etiopi – raggiungono ogni anno le sue coste a bordo di piccole imbarcazioni clandestine, e si stima che una persona su dieci muoia durante la traversata. In un paese dove l’ONU è tornato solo nel gennaio 2012, dopo più di 17 anni di assenza, l’approssimazione è diventata la regola. Secondo le stime delle agenzie di aiuto internazionale, la popolazione somala conterebbe appena 10milioni di abitanti, di cui quasi la metà sarebbe stata minacciata dalla crisi alimentare prodotta dall’ultima carestia. Per la stampa occidentale l’interesse per la Somalia si ferma tuttavia a tre argomenti: la pirateria nel Golfo di Aden, una minaccia agli approvvigionamenti petroliferi e al commercio dei paesi occidentali che ha portato al dispiegamento di un’ingente flotta di navi da guerra; l’immigrazione clandestina, ampiamente documentata a causa della morte di miglia di migranti nel Mediterraneo; e infine la “minaccia” del terrorismo internazionale, legata alle milizie islamiche di Al-Shabaab, il cui potere sembra ormai sotto attacco.
Matteo Guglielmo è un giovane dottore di ricerca dell’Università di Napoli «L’Orientale», uno dei più antichi istituti di studi orientali d’Europa. Ha dedicato nel 2008 un libro alle “ragioni storiche del conflitto” in Somalia, e prepara un secondo libro sulla geopolitica del Corno d’Africa. È inoltre l’animatore del sito insidehoa http://www.insidehoa.it/, interamente dedicato alle vicende politiche di questa regione. È tra i più eminenti rappresentanti della nuova generazione che riattiva in Italia il campo degli studi contemporanei sul Corno d’Africa, sulle scie dell’ammirato pioniere Angelo del Boca.
Olivier Favier: Durante il medioevo e l’età moderna, Mogadiscio è stata una città arabizzata, un importante punto di scambio tra Occidente e Oriente. I primi europei ad approdare sulle sue coste furono i portoghesi, anche se solo negli anni ’80 dell’ottocento, la Somalia diventa, dopo l’Eritrea, il secondo territorio che l’Italia, ultima delle potenze coloniali europee, desidera acquisire in Africa. La Somalia è sotto protettorato dal 1889, e diventerà una colonia nel 1905, prima di essere integrata nell’Africa Orientale Italiana dal 1936 al 1941. Quali cambiamenti appaiono nel paese durante l’età coloniale?
Matteo Guglielmo: La presenza italiana in Somalia si può misurare in due modi, da un punto di vista fisico (infrastrutture, comunità italiana presente nel paese, ecc), e da quello socio-culturale. In entrambi gli ambiti, l’impatto italiano fu piuttosto limitato, anche se le conseguenze della colonizzazione furono tante e gravi. Essendo un rapporto tra colonizzatori e colonizzati, e dunque tra dominanti e dominati, le relazioni tra gli italiani e i somali furono sempre limitate allo “stretto necessario”, e gli autoctoni non ricoprirono mai dei ruoli di responsabilità nell’amministrazione coloniale. Basti pensare che ai somali non era permesso proseguire gli studi dopo la terza elementare, segno di una precisa volontà italiana a voler mantenere la popolazione in uno stato di assoggettamento totale. La presenza italiana si differenziava molto tra centro e periferia. Ad esempio a Mogadiscio e nelle maggiori cittadine del centro-sud, la comunità di italiani era più presente, e l’amministrazione coloniale gestiva direttamente il territorio. Cosa diversa nell’entroterra e nelle regioni più periferiche, dove il controllo del territorio era scarso o “mediato” da capi locali che agivano come intermediari tra gli autoctoni e l’amministrazione. La Somalia fu la più povera delle colonie italiane, anche perché eccezion fatta per le regioni tra i fiumi Giuba e Shabelle, dove fu introdotta una qualche forma di sfruttamento agricolo, ben poco si fece per organizzare dei veri e propri apparati produttivi. La Somalia servì agli italiani per lo più come apripista per la conquista dell’Etiopia del 1936, e fu dunque un territorio realmente strategico solo da un punto di vista geopolitico. L’introduzione delle leggi razziali nel 1939 sancì anche nelle colonie un regime di apartheid, che era comunque presente in via per lo più informale ben prima della loro approvazione ufficiale. In Italia ben pochi erano a conoscenza di ciò che accadeva in colonia, anche per la totale assenza di programmi o borse di studio elargite dal governo italiano a favore di somali, etiopi ed eritrei. L’assenza di comunità somale presenti in Italia è come se avesse nascosto l’esistenza stessa delle colonie all’opinione pubblica italiana. Ed è per questo che, una volta terminata l’esperienza coloniale nel 1941, non fu particolarmente difficile per la politica italiana omettere e nascondere lo scomodo passato coloniale. Il recupero della memoria coloniale è la prima sfida che deve affrontare l’Italia di oggi, per cominciare a dibattere realmente sul suo passato, ma anche per affrontare le sfide del suo futuro.
O.F. Di nuovo sotto controllo italiano attraverso un mandato delle Nazioni Unite, la Somalia diviene indipendente nel 1960. Insieme al Camerun, la Somalia è l’unico paese dell’Africa sub-sahariana composto da territori dominati da due potenze coloniali distinte: la Gran Bretagna e l’Italia. La costa francese dei Somali, divenuta un tempo Territorio francese degli Afar e Issa, ottiene la sua indipendenza solo nel 1977, col nome di Gibuti. La bandiera della Somalia scelta nel 1954 è una stella a cinque punte, che simboleggiano ancora oggi le cinque zone in cui vivono i somali: la Somalia britannica, la Somalia italiana, la Somalia francese, l’Ogaden etiopico e le provincie nord-orientali del Kenya. L’inno senza parole è una composizione presa da Giuseppe Blanc, autore di diversi inni fascisti italiani. Al di là dell’aneddoto, come si apre la Somalia all’esperienza democratica, e come gestisce all’inizio i rapporti con le ex potenze coloniali, le ex colonie che la circondano? Il paese ha subito il sentimento di un’unità incompiuta?
M.G. Diciamo che l’indipendenza somala fu in apparenza “senza dolori”, in quanto mediata da un preciso mandato che l’Assemblea delle Nazioni Unite aveva conferito all’Italia, peraltro unico caso nella storia dell’Africa sub-sahariana[1]. Tuttavia, proprio questa indipendenza gestita “dall’alto” sarebbe diventata un forte elemento di destabilizzazione, sia nazionale sia regionale. I primi problemi relativi all’indipendenza emersero tra il 1949 e il 1953, con il passaggio all’Etiopia dell’Ogaden, dell’Haud e delle Aree riservate (una striscia di terra ai confini tra l’ex-Somalia britannica e l’Etiopia). Queste terre erano abitate da somali, e sotto il dominio italiano, ovvero fino al 1941, erano state incluse in un’unica sotto-amministrazione che raggruppava quelle popolazioni di etnia somala dell’Africa Orientale Italiana. La delusione dei somali per il passaggio delle terre irredente all’Etiopia, dove nel frattempo era stato nuovamente restaurato l’imperatore Haile Selassie, fu enorme e profonda. La Gran Bretagna aveva più volte lasciato intendere la volontà di creare una “grande Somalia”, ma la necessità di preservare i rapporti con il Kenya, che raggiungerà l’indipendenza solo nel 1963, e con l’Etiopia, considerata anche dagli Stati Uniti il pilastro per il sistema di alleanze occidentali nel Corno d’Africa, portò gli attori internazionali a sacrificare le aspettative somale, spargendo di fatto i primi semi delle crisi che sarebbero esplose nella regione negli anni a venire. Questo è solo uno dei molti esempi storici che spiegano in parte le crisi e le rivalità presenti oggi nel Corno d’Africa. Le caratteristiche dei conflitti regionali sono tutte racchiuse nella storia di questa regione, e in particolare della Somalia. La crisi che coinvolge il paese è segnata ancora oggi da una spiccata multidimensionalità, dove i fattori locali, regionali e globali si intrecciano infiammandosi e alimentandosi l’uno con l’altro. Ed è per questo motivo che il problema somalo non nasce tanto da un’unità incompiuta, ma piuttosto da un processo di autodeterminazione diretto dall’esterno e avvenuto in modo troppo “mediato”, senza un reale distacco – anche violento – dall’esperienza coloniale. In gran parte dei paesi africani le lotte anticoloniali furono importanti, ma se guardiamo la decolonizzazione somala, scopriamo che questa è stata piuttosto atipica rispetto al resto del continente. Forse molti dei problemi somali nascono proprio da qui.
O.F.: Nel 1969, l’anno del colpo di stato del colonnello Gheddafi in Libia – un’altra ex-colonia italiana – il generale Mohamed Siad Barre si impadronisce della Somalia. Tiene il potere senza tregua fino al 1991, anno in cui l’Eritrea diviene indipendente dopo aver combattuto una guerra di liberazione trentennale contro l’Etiopia. Quest’ultima, orfana del Negus Halié Selassiè, rovesciato da una giunta militare nel 1974, si ritrova come la Somalia sotto l’influenza sovietica. La guerra del 1977, che oppone l’Etiopia alla Somalia per la conquista dell’Ogaden, costringe Mogadiscio a rompere con l’Unione Sovietica, per riavvicinarsi agli Stati Uniti. In che modo il dominio di un partito unico e l’onnipotenza di uno stato militare hanno influenzato l’esplosione dell’identità nazionale somala?
M.G. Il golpe militare del 21 ottobre 1969 segna una svolta decisa per la Somalia. Bisogna tuttavia sottolineare che l’ispirazione al modello marxista-leninista del regime di Siad Barre fu un tratto di sola facciata, mentre ben altri furono gli interessi che perseguì il nuovo governo somalo. I rapporti con l’Unione Sovietica sono precedenti all’ascesa al potere di Barre, e risalgono al 1964, anno del primo conflitto somalo-etiopico in Ogaden, quando il governo somalo – non riuscendo ad ottenere delle forniture militari dagli Stati Uniti e dall’Italia – ottenne dal Cremlino un accordo di cooperazione economica e militare. Siad Barre, pur rafforzando l’allineamento al blocco socialista, non trascurò mai le relazioni con alcuni attori occidentali. Le relazioni con l’Italia restarono piuttosto solide, mentre dal 1974, grazie all’adesione alla Lega Araba, il governo somalo cominciò a intrattenere ottime relazioni anche con i paesi arabi. Non fu tanto attraverso il partito unico che Siad Barre cercò di incrementare il nazionalismo somalo, ma piuttosto attraverso alcune campagne politiche, come quella anti-tribale dell’Ololeh, che letteralmente significa “bruciare”. Secondo Siad Barre, per forgiare un’identità nazionale somala andavano inceneriti i legami clanici che rendevano la società divisa e troppo frammentata. Il sogno di una “grande Somalia” si infranse in Ogaden. Per sostenere le attività belliche furono mobilitate ingenti risorse. Nel 1978, a seguito della sconfitta somala per mano di un’Etiopia sostenuta dall’aiuto militare sovietico-cubano, la Somalia si trovò priva di risorse economiche e con uno smisurato flusso di profughi provenienti dalle zone del conflitto. In quel periodo si cominciò a sfaldare non solo lo stato e le istituzioni, ma anche il sogno nazionalista che per anni il regime di Barre tentò di cavalcare per prevalere sullo storico nemico etiopico e preservare il proprio potere nel paese. Negli anni Ottanta la Somalia scivolò in un lento e costante declino, che portò la giunta militare ad aumentare la repressione verso i nascenti movimenti di opposizione armata a Siad Barre, e a trasformarsi essa stessa “fazione” clanica. Il collasso dello stato somalo del gennaio 1991 ha così radici profonde. A cadere non furono solo le istituzioni di uno stato, ma anche la società stessa, ormai divisa su linee claniche. Il ruolo del clan (qabiil in somalo) è importante per comprendere le caratteristiche del conflitto civile che scaturì dal collasso dello stato, ma è forse ben più rilevante capire come il conflitto ha mutato il ruolo dei legami clanici.
O.F. Nel 1992, gli Stati Uniti lanciano l’operazione Restore Hope. Il 3 e 4 ottobre, una missione di volta a catturare il famigerato signore della guerra Mohamed Farah Aidid si trasforma in un incubo. Un migliaio di Somali, per di più civili, vengono uccisi durante gli scontri, ma l’opinione pubblica americana considera solo la perdita di 18 soldati americani che muoiono nello scontro a fuoco. Le forze dell’ONU si sostituiscono a Restore Hope, restando nel paese fino al 1995, quando la Somalia sprofonda nel caos. Il Somaliland aveva proclamato la sua indipendenza nel 1991, e il Puntland si dichiara territorio autonomo nel 1998. Dal 2006 la guerra civile riprende con più forza, mentre gli interventi esterni si moltiplicano, prima quello etiopico, poi quello ugandese sotto mandato dell’Unione Africana, e adesso quello keniano, per la prima volta nella storia stranamente pacifica di questo paese. A tutto questo si aggiunge una carestia che ha fatto 30mila morti solo l’anno scorso. Se la comunità internazionale torna a intervenire, non possiamo che constatare che gli interessi economici le attività di intelligence non sono mai sparite dal territorio. In che modo i giochi economici e politici possono rallentare o favorire oggi una ristrutturazione del paese?
M.G. La Somalia oggi non esiste. O meglio, sulla carta c’è un governo e una bandiera, ma il territorio somalo è frammentato in varie realtà amministrative e di potere. La crisi somala è un problema di molti, la crescita di movimenti neo-fondamentalisti come al-Shabaab e l’aumentare degli attacchi dei pirati a largo delle coste della Somalia centro-settentrionale sono tuttavia delle questioni che sembrano preoccupare più “noi” che “loro”. È proprio questo il punto, gli interessi che perseguono gli attori internazionali, e in parte anche i governi regionali intervenuti militarmente in Somalia, non sono sempre coincidenti con il fabbisogno del paese, ma appaiono per lo più condizionati al soddisfacimento delle strategie occidentali. La guerra al terrore, l’ascesa della pirateria e la carestia, che ha avuto il suo picco massimo la scorsa estate, sono solo i risultati della crisi, e non la causa. Le armi non sono mai state una soluzione, e non solo in Somalia, ma anche in altri luoghi caldi come l’Afghanistan e l’Iraq. Ma forse mantenere la Somalia in uno stato di conflitto permanente, in una condizione né di pace né di guerra, fa comodo a molti, e non solo agli attori regionali, che preferiscono un paese debole e sotto controllo, ma anche ad alcune filiere globali della criminalità organizzata, le quali considerano il territorio somalo come un enorme duty free dove scaricare i “peccati” dell’occidente, come i rifiuti tossici. Ci sono state inchieste su questo, ma nessuna è mai riuscita a mettere a nudo le complicità degli stati sovrani. I giornalisti che ci avevano provato, come Ilaria Alpi, sono stati uccisi. La Somalia continua ad essere un buco nero, ma la comunità internazionale non può sostituirsi ai somali. Sono loro a dover scegliere il modo migliore per uscire dal tunnel dell’instabilità e dell’insicurezza.
O.F. Al di là delle paure occidentali sull’immigrazione, quale è l’importanza della diaspora somala? Come si suddivide e come trova i modi di organizzarsi? Quale ruolo assumono gli intellettuali nel dibattito internazionale? In che modo il legame con l’Italia, politicamente o culturalmente, assume – o potrebbe assumere – ancora un ruolo?
M.G. La diaspora oggi gioca un ruolo determinante. Parte della vita economica del paese dipende dalle comunità residenti all’estero. Per immaginare quanto significativo sia l’impatto della diaspora somala basta ricordare che su una popolazione stimata intorno ai 10milioni, circa un milione vivono e lavorano all’estero. Purtroppo il conflitto ha avuto forti ripercussioni anche all’interno delle comunità somale all’estero. Sfiducia reciproca, rivalità claniche, e conflitti politici e intergenerazionali rappresentano i maggiori elementi di criticità. Anche gli intellettuali spesso cadono nella logica conflittuale che caratterizza la situazione somala, molti dei più saggi hanno preferito ritirarsi dalla vita politica e concentrare le loro attività su altre questioni. La diaspora somala in Italia è una delle più storiche, anche se negli ultimi anni il suo ruolo resta marginale, sia da un punto di vista politico che numerico. Negli anni Novanta molti somali in fuga dalla guerra si trasferirono in Italia, ma la mancanza di opportunità lavorative – soprattutto per i più giovani – ha reso il nostro paese meno attraente. È anche da questo dato che passa lo sfilacciamento dei rapporti italo-somali, la cui salvaguardia – purtroppo – sembra stare a cuore molto più ai somali che agli italiani.
[1] Il Camerun, ex-colonia tedesca conferita alla Francia e alla Gran Bretagna dalla SDN e poi dall’ONU, ha conosciuto anche una decolonizzazione disastrosa. La guerra è stata così nascosta della Francia coloniale e neocoloniale, che oggì una grande parte dei Francesi non sa neanche che il Camerun è stata una colonia francese durante quasi 50 anni.