Lola Lemire Tostevin è autrice canadese nata da genitori francofoni a Timmins, piccola città mineraria in Ontario; vive da anni a Toronto. Inizialmente autrice bilingue, ha poi quasi del tutto optato per l’inglese, sempre però immaginando i due sistemi di segni in dialogo, e così le culture.
L’epigrafe che ha scelto per introdurre il suo libro di versi ’sofia (testo a fronte; traduzione e cura di A.Goldoni, edizioni Empiria) viene da Hilda Doolittle: “lei ha un libro in mano / ma non è il tomo / dell’antica sapienza”. Ironia e coscienza prendono campo così fin dall’inizio, in una dichiarazione affidata a un gesto (un libro in mano) intrinsecamente antiautoritario (non contiene sapienza), in cui si sposano conoscenza e privazione. Lo dice una delle prime poesie, dove compare l’immagina di una “donna / che è cieca perché ha gli occhi colmi di vista”. Ma se in lei il carattere di una scrittura femminile non è vincolo o destino, è certo un segno fortemente connotante – che dà forma alla pagina.
Non è possibile parlare di scrittura di ricerca a proposito di queste poesie, e non a caso l’autrice tende a rifiutare tale definizione. È però sbagliato ricondurle senz’altro a un dettato lirico. Spesso anzi accade che nella stessa pagina o in un rapido giro di versi si uniscano un modo e tono fortemente e ambiguamente lirico se non romantico (“finché si fanno pallide le stelle del crepuscolo”) e una netta ferocia lessicale, una volontà di espressionismo (“raschi alla gola / odore di piscio di cane ai miei piedi”). In tema di ricerca si può dire che alcune eco – specie in incipit – rimandano ad avvii celeberrimi di D.Thomas; ma l’impronta della Tostevin è di fatto speculativa: usa le immagini, le invera, non ne fa il carattere fondante e finale del testo. Semmai un’impostazione e intonazione tra oriente e classicità greca (fitti fin dal titolo i riferimenti filosofici) prende possesso del libro.
Anche in testi frontalmente erotici l’immateriale e il dubbio costante su identità, presenza/assenza e voce (che è corpo ma smaterializzato) sono in primo piano. Esemplare l’incipit della poesia a p.27: “il desiderio è un arto fantasma”; o a p.43: “si chiede // come è arrivata a questo punto tra scrittura come corpo / e scrittura come cancellazione del corpo”. Passa esattamente per questo punto intermedio uno degli assi di rotazione del sistema di immagini e domande messo in atto: è il punto dove si rielabora la questione dell’identità legata tanto a iter decostruttivi quanto al proverbiale fingitore di Pessoa (femminile, in Tostevin): “indossa una maschera di donna / per provare che questo lei è”.
Annalisa Goldoni, nella sua densa prefazione, ricorda un’intervista del 1987 in cui l’autrice dichiarava con ironia: “Quando qualcuno di recente mi ha fatto notare l’importanza di liberarsi dell’‘io’ nello scrivere – ho detto: Magnifico, me lo perderò non appena l’avrò trovato”.
Nelle poesie di Tostevin è come se una scrittura sostanzialmente anzi carnalmente nemica del dualismo si inducesse a demolirlo giusto per via di coppie oppositive: gli esempi come “io vivo la tua morte tu muori la mia vita” potrebbero moltiplicarsi. E ancora (in un’altra poesia): l’immagine che definisce il cuore “inutile” e “scervellato” è quella di “un occhio / isolato”, ossia privato del suo compagno e dunque di profondità di campo. L’Uno è insomma il negativo. La dittatura dell’Uno si attesta anche là dove Jacques Derrida, ritratto in una delle due prose del libro, si dimostra sorprendentemente incapace di accordare valore a domande e intuizioni di donne presenti al suo seminario. E in quel contesto Tostevin lancia al filosofo l’ipotesi (sottilmente critica) che Dio, vivo solo come marcatore linguistico e nome e segno, sia paragonabile al genere femminile come puro nome e Assenza. Shoah e silenzio, e voce mancante del versante femminile della storia, si legano in un’unica riflessione.
Tra Uno-Maestro dittatoriale e Dualismo ereditato, una via di fuga dell’autrice coincide – stilisticamente – con il ricorso a meccanismi accumulativi: a una riuscita versificazione-elencazione. Ma un’ulteriore strategia è data (e acquisita) con un testo poetico non a caso posto nella sezione bilingue, inglese e francese, del libro, intitolata “espaces vers”. La poesia (p.107) inizia con un “dire a metà half thought half song” e si conclude con l’asserzione ironicamente cartesiana: “dico a metà dunque sono”. Nel riconoscimento del (e nella riconoscenza verso) la parola interdetta e parziale e spezzata risiede uno dei meriti maggiori della scrittura di Tostevin.
________________
[ testo comparso – con il titolo di Dico a metà dunque sono – su «Il manifesto», a.XXXVI, n.200, 26 ago. 2006, p. 13 ]