Caro Biagio,

Caro Biagio,

in effetti leggo e rileggo il tuo editoriale, il mio intervento, e la tua risposta, e sento che mi manca qualche elemento essenziale. Non mi ci raccapezzo. Nel senso che: CONDIVIDO TOTALMENTE quel che scrivi nella risposta!

Ma è precisamente quanto dicevo nell’intervento del 5 dicembre. Ossia: per te – come per me – non è in gioco l’area “sociologica” della scrittura; sì quella (comunemente detta) “estetica”.

O meglio ancora, sintetizzando: quello che va premiato è il testo bello, sensato. Ecco. Questo intendevo dire. Molto semplicemente.

E articolavo: in ordine alla formazione della bellezza, mi sembra che in giro si vedano tanti testi che non la raggiungono, che cadono nel banale, nell’ovvio, nel calco inconscio, ingenuo, nella trasandatezza, proprio per via di un loro puerile abbandono al too simple, all’ingenuità, a schemi e stilemi che non solo non arrivano a una complessità di alcun genere (molteplicità di piani) o – volendo – ad alcuna “linguisticità”; ma talvolta nemmeno a una lingua, a una cognizione del sistema di segni che pure tentano di usare.

Detto ciò, è per me assolutamente pacifico che molta scrittura puramente contorta e irrisolta (altro disvalore) non possa – in definitiva – “funzionare”. È pur sempre la sola produzione di senso a fare testo. L’intreccio dei piani e un certo grado di opacizzazione del dettato non sono come tali (ossia per il semplice fatto di esser posti) risolutivi di alcunché.

Ma, poiché questo può esser detto di qualunque ‘caratteristica’ del testo (del clus insufficiente come del leu insufficiente, come del narrante insufficiente, eccetera), mi domando se non sia più proficuo dirigere la critica proprio verso quelle scritture che sono ‘quantitativamente vincenti’, ultrarappresentate.

Ci torneremo. Il nostro discorso mi piace, semplicemente; e credo che proseguirà, mettendo a fuoco sempre meglio questioni che altrove (in post recenti) si sono potute solo accennare.

Con l’amicizia e la stima che sai,

Marco