[ da un’annotazione del 2004 ]
Nel 1944, quando Alfonso Gatto pubblica La spiaggia dei poveri [1], esiste ancora quell’Italia contadina e ferocemente ingenua che nel giro di due-tre decenni di attività politica e di distruttivo “miracolo economico” sarà spazzata via, incenerita. Per sopravvivere solo in forma di museo.
Roberto Roversi, intervistato nel 1990:
«Il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo… dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina. In brevissimo tempo fu spazzato via, al riparo di una indifferenza quasi generale, un mondo che rappresentava l’unica montagna contro l’invadenza del nuovo capitalismo. Arraffone spietato e cialtrone. Non ci fu pietà per nessuno. Alla fine restarono solo le ruote dei carri, gli alari dei camini e i gioghi dei buoi appesi nei musei-cimiteri allestiti in fretta per raccogliere le spoglie ramazzate sul campo di battaglia. Anche qualche scodella di latta. E il filatoio della nonna. Sembrava un film di Ford, con il settimo cavalleria, quando gli eroi superstiti si aggiravano fra i morti indiani e fra i carri che ancora bruciavano… dentro l’enorme pianura secca e senza alberi… Chi vince e opprime con la prepotenza versa sempre, dopo i genocidi, queste lacrime di coccodrillo. Tutto sta a non lasciarsi incastrare, almeno nei sentimenti.
«“La raccolta del fieno” è già, per me, una piccola personale finestra aperta, direttamente, su quel mondo che cercherò in seguito di intendere ancora meglio e di partecipare con più coordinazione in “Dopo Campoformio”. Era una scelta, sia di campo che di vita […] Partecipare con chi era calpestato, che è molto di più che essere oppresso. L’oppressione è politica, coinvolge la società intera, presuppone un nemico con gli occhi di brace che tu vedi e affronti, secondo la norma… mentre un piede sul collo lo sente il singolo come se avesse per sé solo il peso del mondo addosso, senza poter contare su qualcuno. Io, per me, facevo conto e cercavo di fare conto, esclusivamente delle cose e dei fatti che vedevo. Per esempio, sembrava sul serio di poter ascoltare durante la notte, a notte fonda, attraverso le finestre socchiuse, il passaggio dei carri, nella trasumanza dal sud al nord, di questo popolo di migratori senza terra, spinto a risalire lo stivale per cercare lavoro. Non cento, non mille, non centomila ma milioni di persone che camminavano i mille chilometri per entrare in periferie ossessive, in dormitori da quarto mondo… Durante il giorno avevo in testa perfino il suono di questo passaggio, un battere di gavette contro le stanghe dei carri che passavano. E questa migrazione epocale stabiliva anche la fine di una civiltà dentro alla quale anch’io ero nato qua in Emilia e che non si sarebbe più ricomposta. Così addio anche all’Emilia, non verso Milano ma verso Ferrara; il grande paesaggio padano spolpato ogni giorno di qualcosa; masticato, aggredito, vomitato, sconciato, sopraffatto; macchina fredda di ferro per produrre soldi, senza più acque e cielo. … Questi pellegrini così inermi e sbandati erano poi sottoposti a qualsiasi ricatto sociale. Unico atto immediato, venivano risucchiati in fabbrica. Ingoiati alla mattina risputati alla sera» [2]
Quando Edoardo Sanguineti colloca Laborintus all’interno dell’intenzione di «fare dell’avanguardia un’arte da museo», chiaramente arriva puntuale all’appuntamento con le avanguardie dell’Informale, e allo stesso tempo in ritardo rispetto a quell’operazione di distruzione, incendio e successiva museificazione – di ben diversa entità ma anche maggiore gravità (ed estensione anche linguistica) – che Roversi precisamente descrive.
Prima della collocazione di Duchamp tra le salme da esposizione (gabbia per altro assai stretta) e i materiali da costruzione, altri oggetti e linguaggi di uso ben umile e comune erano stati già arsi – e le loro spoglie affisse nelle teche, a disposizione dell’antropologia. (Senza considerare quel che mafia e neocapitalismo stavano alacremente demolendo e costruendo, al sud come al nord).
E tuttavia non può avere la ragione dalla sua chi dice che un confronto con la distruzione delle forme, con l’espressionismo astratto (tutta l’avanguardia europea e americana), negli anni Cinquanta e Sessanta, avrebbe dovuto o potuto trovare solo vie diverse da quelle dei Novissimi. Le altre vie, anche violentemente individuali (‘separate’), erano esse stesse non troppo distanti da quelli. (Si può anche pensare ai casi di ricerca isolata, individuale, rappresentati da Emilio Villa, Amelia Rosselli, Edoardo Cacciatore).
Dunque non aveva torto Sanguineti nel 1961 a dire (tacendo il suo obiettivo, che chiaramente era Pasolini) che «negli anni ’50, chi voleva gettarsi con felice ottimismo su un terreno “costruttivo”, rifiutando le vie dell’informale» rischiava di scambiare «per soluzione “progressiva” la regressione verso il decadentismo, scavalcando à rebours il terreno “franco” dell’avanguardia europea» [3] oppure – che è l’identico – rifiutandosi di attraversarlo.
Questo per suggerire che oggi, ma anche nel passato prossimo, ‘a informale attraversato’ (e in realtà sempre attraversabile, e sempre codice aperto), sia Pasolini sia Sanguineti sono chiavi utili.
Riprendiamo il filo del ‘pretesto’ Alfonso Gatto.
Nel ’44, s’è detto, esisteva ancora quella fragile Italia di “spiagge dei poveri” su cui sembrava che solo un lirismo stanco si esercitasse (e non, anche, un discorso a modo suo obiettivo, fondato solidamente su dolore e miseria reali). Nel giro di pochi anni tutto viene raschiato via. I poveri non mutano condizione, ma non hanno più l’orto accanto alla baracca. Viaggiano per ore verso la città, per nutrire chi li inchioda. È evidente che su una realtà in bilico tra pianto pre e post-industriale, la prosa lirica e i bozzetti di Gatto appaiano (ora) tracce di referti su quanto scompare. Mentre poco dopo la loro stesura (agli occhi – che so – di chi inizi a scrivere Laborintus già a ridosso del 1951) spiccavano principalmente i caratteri, intollerabili, di anacronismo – di elegia, estenuata.
A metà degli anni Cinquanta, poi, gli scrittori di «Officina» tentano – sperimentando con quel che resta delle retoriche d’anteguerra e degli anni Quaranta – di dare regesto del disastro avvenuto, il conflitto mondiale, e di quello in corso, la «trasformazione antropologica». Due collassi visti come ‘esterni’ e ‘obiettivi’: il precipitare di una pietra storica.
(La neoavanguardia, con altri strumenti e per altre vie, avvertiva per prima – forse – la pietra psichica).
Gli autori di «Officina» scontano i tre vizi della lirica italiana, dunque: 1, l’attrazione per il realismo (ma virato verso) 2, la prosa d’arte di eredità ermetica (condannata da accentuati debiti verso) 3, Pascoli.
Allo stesso tempo, nonostante ed anzi entro questi limiti, «Officina» è il luogo di incubazione – direi – del Pasolini saggista e regista; e del Roversi de I diecimila cavalli. Del Fortini de I cani del Sinai (poi film di Straub e Huillet); delle strutture dense e ipermorali di Leonetti.
Ma è necessario spostarsi oltre le note su questi autori: note che non vogliono ‘giustificare’ le scelte di stile, ma nemmeno spiegarle.
C’è semmai una riflessione da fare sul campo di ‘riduzione dell’umano’ che la neoavanguardia sa osservare e denunciare – ma di cui pure (e ambiguamente, per dichiarato statuto) vive o ha vissuto. Dissociazione e schizofrenia, essendo i loro riflessi disattesi dalla lingua pasoliniana, trovano casa nell’avanguardia. E presto la parola non-mimetica si fa strada sulle pagine importanti, per l’Italia, di una rivista come «Anterem», che nasce nel 1976.
Di qui uno ‘schemino’? Trarne sintesi? E ad uso di chi? Per quale iterazione e semplificazione?
Si dovrebbe ancora cedere all’opposizione “Neoavanguardia = banda stretta/fredda = esatta ma crudele, antiumana talvolta (più che ragionevolmente antiumanistica) = Postmodernismo (critico)” VERSUS “«Officina» = banda larga/calda = inesatta ma ‘umana’, ingenua e fuori tempo talvolta (più che scientemente ‘arcaizzante’) = Tardo modernismo (critico)” ???
A chi giova questa linearità, se non ai vari riduzionismi storiografici che non decidono mai di entrare in profondità nei dettagli delle scritture, delle opere? (Senza fermarsi alle dichiarazioni degli autori).
A non essere accettabile, trascorsi i primi anni di un secolo “addirittura XXI”, è precisamente questo ‘dualismo’. (Pur ammettendo che costituisca in ogni caso un possibile, non unico ma possibile, strumento di conoscenza).
Massimo Sannelli in un intervento su «Smerilliana» (n.3, febbraio 2004) fa i conti con un certo modo di ragionare per codici binari, prassi all’apparenza ineliminabile da una certa mentalità letteraria italiana. E sembra che tuttora, attraverso le eredità della ‘coppia storica’ (storicamente in conflitto) Parola innamorata / Scrittura materialistica, diversi sciami di microconflitti covino in una comunità letteraria che, a specchio delle correnti del golfo della sinistra.it, va scindendosi ulteriormente in piena schizomania.
La questione dei conflitti, spesso miserevoli, interni alla comunità degli scrittori italiani, se è interminabile, è anche noiosa; e intralcia spesso il lavoro di chi, sperimentando e volendo semplicemente mettere in comune conoscenze, acquisizioni, scritture, laboratorio, ricerca, si vede interdetto da deviazioni forzate, highways & sottopassi diplomatici, precedenze da rispettare, botole, bon ton di sapore baronale, e via e via. La situazione si trascina nel ridicolo.
Anche perché altre tradizioni letterarie hanno affrontato – e risolto in testi di fatto – queste stesse questioni (e la stessa poesia italiana; tanto che molti autori delle ultime generazioni prenderanno questo intero scritto come un rovistare puerilmente il fondo vuoto di una conserva scaduta).
Penso ai versi di John Ashbery, al suo ego poetico circondato da ritagli di giornale, post-it, cattive informazioni, ‘risultati parziali’, assemblati insieme con una coscienza fluttuante che assume la propria provvisorietà non solo come stiletto per attraversare i materiali, ma come strategia metapoetica. Il provvisorio che descrive il provvisorio.
O a Robin Robertson, Charles Simic, Simon Armitage.
O a Thomas Pynchon (per la prosa). Leggiamo una parte della postfazione di R.Cagliero a Entropia: «l’alternativa sta nello scegliere tra la creazione (modernista) di un’identità, ricucita attraverso il tessuto di altri testi, e l’accettazione (postmodernista) della precarietà di quell’identità – e dunque in un’affermazione della frammentarietà e del dubbio come modelli della conoscenza» [4]. In realtà, suggerisce Cagliero, Pynchon non ‘sceglie’, bensì lavora – nei suoi pastiches – in entrambe le direzioni.
Che mi sembra una buona indicazione di prassi. Identità ricucita da altri testi + dubbio sulla stessa (ma uso di questo dubbio come ulteriore strumento di indagine).
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[1] Ed. Rosa e Ballo, Milano. Rist.: Ripostes, Firenze 1996.
[2] Gianni D’Elia (a c. di), Conversazione in atto, intervista a R.Roversi, in «lengua», n.10, luglio 1990, pp.39-40.
[3] I Novissimi, cfr. la nuova edizione Einaudi, Torino 2003, p.204.
[4] Roberto Cagliero, Thomas Pynchon e le integrazioni segrete, postfazione a T.Pynchon, Entropia, E/O, Roma 1992; 1998(2): p.246.