Dialogo a più voci / 03-04

Continua la pubblicazione degli interventi del Dialogo a più voci (qui i primi due). Questa settimana le lettere di Biagio Cepollaro (03) e Giorgio Mascitelli (04).

03. Biagio Cepollaro

Caro Marco,

certo, la poesia di ricerca non si identifica con la poesia di progetto. Ma per me la poesia è sempre di ricerca se ha una qualche possibilità di diventare poesia di risultato nell’interazione con un lettore che la riconosca come tale…Solo che troppo spesso la dicitura di ‘ricerca’ ha sacrificato la reale complessità della poesia: tra tutte le sue componenti, si sono spesso privilegiate quelle formali, retorico-linguistiche, diventando alibi formalistico per chi non ha nulla da dire, nulla da aggiungere – neanche un microscopico contributo – alla ricchezza di senso di cui abbiamo bisogno.

Il merito di Akusma, del lavoro di Giuliano Mesa e di tutti coloro che vi hanno partecipato è stato quello di introdurre la nozione di ‘ascolto’ che è simile al discorso della priorità della lettura che vado facendo da qualche tempo.

Ho incontrato ricerca anche in testi che non avevano nulla di ‘sperimentale’ secondo le abitudini di riconoscimento novecentesco…Non esiste la ‘poesia di ricerca’: la poesia è ricerca, ripeto, ma bisogna aver pure ‘trovato’ qualcosa: ciò che si trova è la produzione di senso che nasce dall’atto concreto di lettura, da ogni singolo atto di lettura. E’ la lettura che fa vivere e significare un testo, il testo in se stesso è muto e non ci saranno parole capaci di anticipare ciò che dirà.

Ciò che dirà sarà sempre imprevedibile, come anche tu, in riferimento alle parole che accompagnano un testo, sottolinei..

Pensa che per me è stato fondamentale sin dall’inizio la lettura di Jacopone da Todi. Non è imprevedibile tutto ciò?

Certo, anche Pagliarani (il solo tra i Novissimi), Eliot, il Dante petroso… ma senza Jacopone non ci sarebbe stato Scribeide e Luna persciente, non ci sarebbe stata neanche, sul piano teorico, l’intuizione del postmoderno critico, senza questo tipo di relazione temporale imprevedibile…

Porre un’etichetta ontologizzante e identificatoria oggi ha meno senso di ieri nella radicale dissoluzione di ogni tradizione, compresa quelle delle avanguardie. Ma questo lo dicevo, in parte, già negli anni ’80 per far capire che già allora per me l’opposizione avanguardia-tradizione era ‘sociologicamente’ dissolta e che poteva essere tenuta in piedi solo cinicamente per giustificare posticcie ‘novità’ e posticci antagonismi e conflitti.. (Cfr. Perché i poeti? www.cepollaro.it/poeti.pdf).

2.

All’epoca parlavo, da novecentesco, ancora di ‘sperimentazione’ ma solo perché credevo alla necessità di autoidentificarsi , forse anche per necessità psicologica giovanile, oggi credo che sia in buona parte una perdita di tempo e un’occasione per scoraggiare l’incontro con i testi, al di là di ogni preconcetta ostilità che, come dici tu, agisce a prescindere… Le ragioni che adduci per spiegare l’opacità del termine ‘poesia di ricerca’ le condivido. Ma vi sono, come sai, anche elementi positivi nel paesaggio: la rete abbonda di buona poesia, solo che in proporzione sembra aumentato, solo perché visibile, anche il suo contrario…Credo che sia un effetto ottico ma a vedere le cose da vicino i testi meritevoli di studio e attenzione e ascolto sono veramente tanti…Così come in proporzione è molto più vasto il mare di ciarpame una volta nascosto e poco conosciuto…

Di questo aumento quantitativo dei testi di qualità ci sono ora gli aggregatori di blog di poesia a testimoniare…Sta diventando umanamente impossibile stare dietro a questa ricchezza di segni…

Ai poeti oggi consiglio di leggere, perché la critica è innanzitutto atto di lettura del testo (Cfr. Note per una Critica futura www.cepollaro.it/NotCriTe.pdf ). Così come leggere è presupposto necessario dello scrivere. Può sembrare banale ricordarlo ma la realtà dei fatti, come rilevi anche tu, ci dice che non lo è.

Piuttosto che autodefinire il proprio lavoro, cioè di creare per lo più fantasmi identitari ed ipostasi, più o meno impositivi e aggressivi, consiglio di conoscere il lavoro altrui, di farsi autore soprattutto nell’incontro con l’altro, di crescere insomma nel dialogo profondo con le opere concrete e non con ‘cenni d’identità’. Mi pare che il lavoro di ricognizione della poesia, anche straniera, fatto da GAMMM che citi, sia da questo punto vista eccellente ed è assolutamente da incoraggiare.

3..

Un ultima cosa. Ad aprile uscirà, insieme alle ristampe di Nanni Cagnone e Giorgio Mascitelli e ad una decina di inediti, tra cui un’altra tesi di laurea sul Gruppo 93, per Poesia Italiana E-book, una raccolta di miei saggi Incontri con la poesia: quattro anni di critica on line (2003-2007). Mi riferisco a questo lavoro per andare al concreto: ho letto criticamente in questi anni i testi poetici di più di venti autori e non ho mai avuto bisogno di ricorrere ad una categoria come ‘poesia di ricerca’ o ‘poesia sperimentale’. Né a maggior ragione ho avuto bisogno di ricorrere a nozioni che avessero anche un vago sapore storicizzante, o di sistemazione classificatoria, o di gerarchia valutativa o di mappatura sia pure provvisoria.

Perché? Perché non mi sono servite. Perché la priorità assoluta andava al corpo a corpo col testo, all’esperienza della lettura. Ciò che un poeta ha fatto è già tutto nel suo testo: per chi sa leggere c’è già tutto il detto e c’è anche il non detto, in sopraggiunta…

4.

La speciale situazione che si è creata con l’impatto della rete sulla produzione, circolazione e fruizione della poesia –fenomeno ancora agli inizi ma già caratterizzante- ha materializzato ciò che due o tre decenni fa si poteva solo ipotizzare, o che anche immaginava in parte, sul piano della scrittura, il mio ‘postmoderno critico’ : la necessità di agire in assenza di diacronia, per incroci puntuali, per punti di confluenza, per intensificati ascolti di differenze, per diacronia locali, parziali e provvisorie.

Niente a che vedere con il genere letterario che chiamiamo ‘la storia della letteratura’ così come per due secoli si è andata narrando. Abbiamo bisogno di altri tipi di narrazione per raccontare ciò che materialmente (per quantità e per qualità) non ha equivalenti nella storia.

Anche per questo motivo le istituzioni accademiche e anche militanti-accademiche arrancano: non possono più gestire il flusso di comunicazione orizzontale che la rete impone, non possono farlo se non attraverso fittizie ipostatizzazione (l’antologia, il canone, l’autoreferenzialità della titolarità del diritto alla narrazione critica,la competenza in esclusiva, i meccanismi endocorporativi che si alimentano delle miserie umane che tu enumeri).

5.

Per finire: il non poter ‘tornare più indietro’ che citi da Giuliani. Quelle sono visioni, Marco, lo vedi bene anche tu e ne intuisci le conseguenze, storiciste che oggi hanno un sapore arcaico, oltre che ottimistico…

Non si tratta di ‘andare avanti’ o ‘tornare indietro’ con il fare della poesia di oggi, si tratta di essere già da un’altra parte.

L’essere da un’altra parte di fatto rende inservibili le categorie novecentesche di poesia di ricerca e di sperimentazione, già difficili da maneggiare negli ultimi venti anni del ‘900. Per questo non le uso più. Ed io che in prima persona vi ho lavorato in passato, promuovendo insieme ad altri, sia Baldus che il Gruppo 93 proprio per rinnovare il senso novecentesco della sperimentazione, anche a costo di metabolizzare con un salto mortale la condizione postmoderna costringendola a diventare ‘critica’, te lo posso garantire…

Baldus è stata una rivista novecentesca proprio perché si è collocata consapevolmente in una tradizione ancora viva, anche se agli sgoccioli, che partiva da il Verri di Anceschi, alla metà del secolo. (Cfr. L’inizio di una riflessione sulla rivista Baldus http://www.cepollaro.splinder.com/archive/2006-11).

Tu stesso hai vissuto sulla tua pelle il passaggio: il degrado progressivo dell’editoria anche piccola, la chiusura e l’indifferenza di molte istituzioni, il mutare del ruolo della cultura in generale nel nostro Paese, l’eclissarsi dello spazio pubblico, l’imbarbarimento della comunicazione sociale, a partire, se si vuole essere ottimisti, almeno dalla metà degli anni ’90…Da qui è nato il mio atteggiamento non-collaborazionista che sai dei Blog pensieri. www.cepollaro.it/SuppV.pdf e che si è concretato in positivo con le mie e-dizioni in rete dal 2003.

6.

Il Novecento credo sia più lontano di quanto noi tutti siamo disposti ad immaginare.

La difficoltà ora sta nell’orientarsi e nel riconoscere queste alterità.

Grazie, Marco, per aver sollecitato questi pensieri e per la tua fattiva passione…

Spero che questo dialogo sia utile nel senso che desideravi e che il lavoro della riflessione sia sempre più sereno.

 

Biagio Cepollaro

 

*

04. Giorgio Mascitelli

 

Cari amici,

intervengo con estremo piacere in questa discussione perché so che mi trovo a parlare con persone con cui condivido il 98% delle cose. Non fraintendetemi, non so se, date cento asserzioni sulla letteratura da parte mia, voi ne condividereste 98, o viceversa, ma so che abbiamo in comune la cosa più importante, che quasi da sola fa il 98 %, e cioè un atteggiamento etico di rigore e passione per questa attività in un’epoca in cui è facilissimo sbracare. Se non c’è questo terreno etico, si può essere d’accordo su ogni tipo di analisi senza essere d’accordo su nulla davvero.

Detto questo, cioè detto l’essenziale, provo ad aggiungere qualcosa alle vostre riflessioni. Innanzi tutto credo che il termine poesia sperimentale o di ricerca abbia qualche problema a livello connotativo perché è legato alla terminologia scientifica. Questo significa che indebitamente o in alcuni casi volontariamente si veicola il concetto di progresso tipico del mondo scientifico in un contesto che è radicalmente diverso. Infatti se l’espressione Einstein è più avanti di Galileo ha un qualche senso sul piano dell’accumulazione progressiva di conoscenze, dati sperimentali e dell’elaborazione di teorie che descrivono meglio il mondo, dire che Joyce è più avanti di Dante non ha alcun significato in ambito poetico. La letteratura non procede per accumulazione.

Ciò che esiste in poesia è il nuovo; ma questo nuovo non è un superamento epistemologico di quanto si affermava prima. Il nuovo esiste fin dall’antichità e lo incontriamo in Lucrezio, per esempio, quando dice che otterrà l’alloro per essere stato il primo ad aver reso in versi latini le oscure invenzioni dei filosofi greci. Ora questo significa che questo nuovo non invalida o relativizza quanto è stato scritto prima, ma apre una nuova possibilità o risolve un problema specifico poetico. Inoltre questo nuovo non è qualcosa di soggettivo, che rientra in un’esperienza individuale di lettura, ma esprime un’oggettività, che viene riconosciuta dall’instaurarsi di una tradizione di lettura per quell’opera e per quell’autore. Si tratta di una novità artigianale, che non può essere formalizzata all’interno di criteri paradigmatici di verificabilità perché la poesia non ha un campo di osservazione, nel senso in cui lo hanno le scienze, nel senso in cui l’astronomia osserva i fenomeni relativi ai corpi celesti. E’ un nuovo che appartiene all’opinione, e alla vita.

Storicamente le avanguardie traducono questo carattere di novità, che è immanente al testo, con un’idea storicistica di progresso nelle arti, che riflette il concetto scientifico di progresso come è stato mediato nella politica e nella filosofia a partire dall’illuminismo. La novità, pertanto, del singolo testo è espressione di un movimento storico o, meglio ancora dato il carattere collettivo delle avanguardie, una poetica è espressione di questo. Questa operazione ha senso per due circostanze storiche, la prima è quella per cui la società borghese favorisce uno stile o un’idea di letteratura con i suoi propri valori positivi, che può essere considerata come riassuntiva di un’ideologia dominante; la seconda è che tutte le avanguardie danno un fondamento extraestetico alle loro poetiche. In questa prospettiva il valore di una poesia non è determinato da un’esperienza di lettura o dal suo grado effettivo di novità artigianale, ma da come si colloca rispetto a una progettualità complessiva della società o della vita che attraversa l’estetico e il simbolico in una prospettiva, di solito di conflitto, con altre progettualità.

I termini sperimentalismo e ricerca si collegano a questa tradizione delle avanguardie, e credo che Biagio volesse sottolineare la fine di questa possibilità storica, insistendo sul risultato della ricerca, cioè sulla centralità della lettura, anziché sulla tendenza della ricerca. Infatti nel contesto attuale quelle due circostanze storiche non ci sono più. E’ il processo che ha descritto Jameson e che conoscete meglio di me.

La situazione che viviamo è stata chiamata da Castoriadis l’ascesa dell’insignificanza e, tra l’altro, tale formula indica il fatto che la sfera del culturale e del simbolico è progressivamente svuotata di contenuti positivi per essere sostituita dalle necessità della circolazione della merce con effetti nichilistici. Questo produce, accanto ai fenomeni di decadenza che descrive Marco nel suo intervento, un’oggettiva impossibilità di un simbolico collettivo che renda possibile riprendere un discorso estetico di tendenza, per tacere dell’assenza di qualsiasi progettualità complessiva.

Di fronte a questa ascesa dell’insignificanza l’unica certezza è il senso che nasce dalla pratica di lettura del singolo testo e dal testardo confronto con la quotidianità senza venire meno a quell’idea di nobiltà della vita, che secondo me è connessa con l’idea stessa di letteratura. E poi naturalmente sul piano concreto si tratta di favorire la circolazione di testi che rischiano di non sopravvivere con questi chiari di luna, ma questo è un po’ ridicolo che lo dica io a voi due, che avete entrambi grandi meriti a questo proposito, mentre io non brillo per iniziativa.

Contro l’ascesa dell’insignificanza sono anche utili le chiacchierate con gli amici come questa e ancora meglio davanti a una buona bottiglia con tutta la calma necessaria.