Giuliano Mesa: “Domande. Da Samuel Beckett”

qu’est-ce que je suis en train de dire maintenant, je suis en train de me le demander.

Samuel Beckett, L’innommable

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Ascoltare, domandare. Nell’ascoltare Beckett si ascolta il suo ascoltare ed ascoltarsi domandando. Non per la letteratura – con la letteratura. Né mezzo né fine. La letteratura interroga la vita. “Quando ci si ascolta, non è certo letteratura quella che si sente” (1968, conversazione con Charles Juliet). Nelle parole della letteratura, a cercarvi soltanto parole, non si sente il silenzio, la domanda ulteriore, ciò che non è stato detto, che non si è potuto dire. Non ancora. Non ancora il silenzio e non ancora la parola ultima. La parola che dice, dice di continuare a domandare. Come dire, per dire le domande?

Saint-Lô. Nell’interrogazione, il come precede il cosa, poiché il cosa è già da sempre detto. Come ripetere? Il già da sempre detto non è detto per sempre. Ogni accadere, ogni esistere, chiede di ridirlo. Cercando il come che dica quell’accadere, quel dopo prima di un altro dopo.
Scrivere, dire, dopo gli accadimenti del primo Novecento non era come farlo dopo ciò che accadde prima, o dopo ciò che oggi sta accadendo. La storia non si ripete. Se davvero si ripetesse, davvero le parole sarebbero vane, si potrebbe tacere. Come ripetere le vecchie domande? Dopo Auschwitz, dopo Hiroshima – dopo Saint-Lô, come ripetere le vecchie domande?
Nel 1945, dalla Francia, dove aveva partecipato alla Resistenza, Beckett riesce a raggiungere l’Irlanda. Rientra in Francia come volontario della Irish Red Cross a Saint-Lô, distrutta dai bombardamenti alleati. Sulla “capitale delle rovine”, scriverà un resoconto per la radio irlandese: “Certains de ceux qui furent à Saint-Lô reviendront au pays en se rendant compte qu’ils ont reçu au moins autant qu’ils ont donné, qu’ils ont en réalité reçu ce qu’ils n’étaient pas en mesure de donner, la vision, le sens immémorial d’une conception de l’humanité en ruines, et peut-être même auront-ils pu entrevoir les termes dans lesquels il convient de repenser notre condition humaine.” (1946) In rovina è anche “la vecchia mente”: “Vire will wind in other shadows / unborn through the bright ways tremble / and the old mind ghost-forsaken / sink into its havoc” (Saint-Lô, 1945; la Vire è un fiume della Normandia). Rovine, massacri e condizione umana ritornano nello scritto del 1945 dedicato alla pittura di Abraham e di Gerardus van Velde, Le monde et le pantalon: “C’est qu’au fond la peinture ne les intéresse pas. Ce qui les intéresse, c’est la condition humaine”; “l’humain. C’est là un vocable, et sans doute un concept aussi, qu’on réserve pour les temps des grands massacres”.
Nel 1946 Beckett ritorna in Irlanda, dov’è sconvolto da una crisi radicale: “Fino ad allora, avevo creduto di poter fare assegnamento sulla conoscenza. Di dovermi equipaggiare sul piano intellettuale. Quel giorno, tutto è crollato” (1973, conversazione con Juliet). “The vision at last”, come si legge in Krapp’s Last Tape (1959), “clear to me at last that the dark I have always struggled to keep under is in reality my most –“. (my most… what is the word?)

1946. Nella letteratura europea, i progetti letterari totalizzanti cessano con la seconda guerra mondiale. Impliciti in essi l’exegi monumentum aere perennius, l’arte come finalità del mondo, l’autonomia autotèlica. In un carcere nazista Hermann Broch scrive Der Tod des Virgil. Nel monologo di Virgilio morente si spegne definitivamente e finalmente la “funzione politica” dell’arte, la menzogna della funzionalità a un sistema di potere, dell’organicità a un’ideologia di potere o di contropotere. Non così ovvio. Ancora organiche erano, ad esempio, quelle che Beckett chiamava le “bambochades du surréel” (Le monde et le pantalon). Lo saranno le neoavanguardie che liquideranno Beckett come “esistenzialista”. Autotelìa ed eterotelìa sono correlate, complici. Entrambe presuppongono un artista demiurgo. Che costruisce a partire da una presunzione di sapere, che cerca di sussumere il mondo nell’opera d’arte o di esercitare un potere suasorio. Che pone tra sé e i lettori lo schermo di un sistema da interpretare o attraverso cui fagocitare, instaurando comunque una relazione di potere. Beckett si emancipa definitivamente da Joyce e da ciò che Joyce rappresenta quando accetta, accoglie, l’oscurità. Quando la necessità della scrittura frantuma gli schermi della volontà di essere scrittore. Rovine della storia, della condizione umana e rovine della mente non sono più disgiunte.

“Il me semblait que tout langage est un écart de langage” (Molloy, 1947). Scrivendo la Trilogia, Beckett deve rovinare anche la tradizione letteraria e filosofica, fare tabula rasa. Lavoro a togliere. Cominciando col togliere da sé la lingua madre. L’oscurità ha bisogno di luce, di essere svelata dal velo mistificante delle innumerevoli incrostazioni che l’hanno occultata – quella luce livida che illumina le rovine delle città bombardate, dei lager. (E in un lager venne rinchiuso Alfred Péron, grande amico di Beckett e suo compagno nella Resistenza, arrestato dalla Gestapo nel 1942 durante una retata alla quale Beckett e Suzanne Dusmenil-Deschevaux sfuggirono miracolosamente. Péron morì nel 1945, sùbito dopo essere stato liberato dalla prigionia.)

L’impietoso massacro del lascito culturale, nella Trilogia, non è mai disgiunto dalla pietà per i massacrati. Sono sempre i vinti che parlano, i fuori casta. Ma la voce, a loro, non è data. Viene loro tolta dando voce alla brama di silenzio. Non è voce altrui, né voce data ad altri da un autore autorevole, sapiente, autoritario. Beckett è le sue voci, tutte. Se così non fosse, vi sarebbe una distinzione tra mezzo e fine, ancora una postura dall’alto in basso. Vi sarebbero risposte, non domande. (Anche questo non così ovvio, non abbastanza in tanti che hanno voluto leggere in Beckett un programma, a cui si sarebbe attenuto e a cui, dicendo di seguirlo, attenersi.)

Le opere di Beckett sono sempre state al di sotto delle tematiche à la page, di quella faccenda miserrima chiamata ‘conflitto delle poetiche’, dove l’opera viene letta secondo la collocazione, lo schieramento ideologico, dove l’ascolto è sostituito dal desiderio di trovare conferme ai propri pregiudizi. La corporazione letteraria espunge da sé come corpi estranei le opere non autotèliche, per poi fagocitarle, se si impongono malgrado essa, riconducendole all’innocua autotelìa. Pur non essendo eterotèlica, pur non avendo “secondi fini” – di predicazione, di propaganda, di persuasione -, l’opera di Beckett, metacritica se altre mai, non si chiude dentro la “casa del linguaggio” – dalla prigione del linguaggio, parla rivolgendosi, dal basso, a ogni altro suo simile. In questo, lo scrittore Beckett si avvicina al filosofo di Schopenhauer: “Ciò che ci rende filosofi non è che lo sforzo di sottrarci all’assillo di un dubbio. […] Ma ciò che distingue in proposito il filosofo vero dal falso, è questo: nel primo il dubbio si risveglia fin dalla prima vista del mondo reale, nell’altro invece non sorge che dalla lettura di un libro, di un sistema già bell’e fatto.”

“Ce qu’il faut éviter, je ne sais pourquoi, c’est l’esprit de système”, si legge ne L’innommable (1950). I sistemi, lo spirito sistematico. Ricavare un ordine possibile da ciò che esiste, supponendo di conoscere tutto ciò che esiste (che è esistito, che esisterà) e supponendo che ciò che esiste sia governato da un sistema. Organizzare ciò che esiste nella velleità violenta di tutto spiegare, ricondurre, ordinare, affinché i dubbi, le incertezze, scompaiano, a costo di far scomparire ciò che esiste. Delirio egotico. Lo spirito di sistema agisce attraverso affermazioni e negazioni definitorie, definitive. Ma “la negazione non è possibile. Come l’affermazione. E’ assurdo dire che è assurdo. E’ ancora esprimere un giudizio di valore. Non si può protestare e non si può esprimere un’opinione. Bisogna tenersi là dove non c’è né pronome, né soluzione, né reazione, né presa di posizione possibile… Per questo il lavoro è così maledettamente difficile” (conversazione del 1977 con Juliet). Non possiamo pronunciare un no definitivo, “le non! – un nouveau non, qui ne se laisse dire qu’une fois” (Textes pour rien, XI, 1950). Eppure non possiamo evitare affermazioni e negazioni. Possiamo soltanto non sapere perché affermiamo e neghiamo. Sapere perché si deve evitare lo spirito di sistema sarebbe un’affermazione troppo sistematica. La tendenza falsificante dello spirito sistematico, già stigmatizzata da Leopardi, non salva dalla “vanità del vero”. “Toutes ces choses sont ensemble dans le coin, pêle-mêle” (Malone meurt, 1948). Le cose sono insieme, confuse, alla rinfusa. L’arte può cercare di “mal dirle”, nella loro confusione, senza separarle, incasellarle, sistemarle. Non sapendo il perché, pur dovendo sempre affermare e negare: si dice per domandare, domandando.

Chi si spoglia di ogni pre-giudizio, guardando e ascoltando senza veli né schermi, diventa idiota. “Ho scritto Molloy e il séguito il giorno in cui ho capito la mia idiozia. Allora mi sono messo a scrivere le cose che sento” (1973, conversazione con Juliet). Beckett ammirava Dostoevskij (ne testimoniano le pagine del Proust, 1931). L’idiota di Dostoevskij pone le domande che non si devono porre, si pone al di fuori delle convenzioni sociali e culturali che impongono silenzio su ciò che è essenziale. Understatement e potere vanno a braccetto. In Beckett, il rifiuto del potere-sapere, della postura docente, non si è mai disgiunto dal rifiuto dei poteri – politici, culturali, editoriali – pervasi di menzogne e che di menzogne si nutrono. Robert Pinget ricordava il suo “horreur du mensonge”. Ricordando Beckett, questo non andrebbe mai dimenticato.

Democritus. In Murphy (1937) si legge: “the Nothing, than which in the guffaw of the Abderite naught is more real”. Alcuni anni prima, nella poesia Enueg I, aveva dedicato a Democrito alcuni versi : “I splashed past a little wearish old man, / Democritus, / scuttling along between a crutch and a stick, / his stump caught up horribly, like a claw, under his breech, smoking.” Nel 1948, in Malone meurt, il motto ritorna, commentato : “Je connais ces petites phrases qui n’ont l’air de rien et qui, une fois admises, peuvent vous empester toute une langue. Rien n’est plus réel que rien. Elles sortent de l’abîme et n’ont de cesse qu’elles n’y entraînent.” Nell’edizione Diels-Kranz dei presocratici queste parole non ci sono. Per Democrito, il medén, il nulla, equivaleva al mè ón, al non-essere, e al kenón, il vuoto, lo spazio entro cui si muovono gli atomi. Si può pensare a una beffa di Beckett, non l’unica nella sua opera. Un’apparente assunzione di fede nichilista, che invece denuncia il sofisma implicito in ogni nichilismo loquace. Un nichilismo conseguente, coerente, dovrebbe indurre al più rigoroso silenzio. Altrimenti, si ha la predicazione tartufesca del nulla come valore al quale convertire gli ignari. Niente di più facile, per non leggere Beckett o per fingere di leggerlo, di ascoltarlo, che farne un nichilista programmatico.

Tuttavia basta pochissimo per confutare che il nulla sia più reale di ogni altro reale, poiché il reale è il contrario del nulla, la sua negazione. Il nulla non può essere reale, pena il non essere più il nulla, più nulla. Il linguaggio stesso impedisce di affermare la realtà del nulla, dovendo dire che il nulla è reale, che perciò è, ed è qualcosa. E’ questo che può “empester toute une langue”. Ma forse non è l’antinomia che si deve pensare, bensì la relazione. Il nulla, il non-essere, è inseparabile dall’essere. Soltanto l’essere può pensare il non-essere. Ma, appunto, può pensarlo, può sprofondare in quell’abisso. Dove dovrebbe esserci un silenzio totale: nessun suono, nessuna immagine, nessuna parola. Ma ogni parola è relazione. La voce dentro di noi fonda una relazione tra il nostro essere e il pensarlo, dunque ci separa, ci riconduce implacabilmente alla separazione da cui proveniamo e a quella a cui giungeremo: nascita e morte. Ogni parola è relazione con gli altri, con coloro senza i quali non sapremmo né della nascita né della morte, poiché non saremmo né sapremmo del morire. Non si è mai soli, da soli, nemmeno quando non si è “in compagnia”: “Dans un instant, tout se dissipera, nous serons à nouveau seuls, au milieu des solitudes” (En attendant Godot, 1949) ; “Stay where we were so long alone together” (Ohio Impromptu, 1981). La solitudine è sempre condivisa.

Anánke. “Attraverso le muse / io mi slanciai in alto / e conobbi moltissimi discorsi / ma più potente di Necessità nulla trovai / né alcun farmaco sulle tavole di Tracia / che la voce orfica dettò / e nulla in ciò che Febo donò agli Asclepiadi / tagliando erbe / per i mortali che molto soffrono.” E’ questo l’incipit del IV stasimo dell’Alcesti (vv. 962-972). Esso, già dagli scolî, veniva inteso come dichiarazione autobiografica di Euripide. Da questi versi sembra sorgere una concezione dell’arte come necessità che risponde alla necessità, interrogandola, dopo aver perso ogni fiducia fideistica in Orfeo e in Apollo, nelle muse e nei logoi. (E ricordiamo che per Democrito “pánta te kat’ anánken ghínesthai”, “tutto è generato secondo Necessità”).
Beckett conobbe i ragionamenti. Li espulse (slanciandosi in alto, con il sarcasmo di Molloy, “sur les ailes de poule de la nécessité”). Rimedi peggiori del male. La sofferenza è inevitabile e dalla sofferenza nasce l’esperienza artistica (Proust). L’arte può tenere insieme negazione e affermazione, negando entrambe nella relazione che le rende inscindibili. Affinché siano inscindibili, anche forma e contenuto non debbono essere scissi. Beckett lo scriveva nel 1929, in Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce, e non si abbandonò mai a scissioni che avrebbero portato, inevitabilmente, all’immissione in una forma di un contenuto ad essa preesistente o da essa scindibile.

Soltanto l’inscindibilità di forma e contenuto ne pone la separazione. Non anteponendola, rimanda a tutto ciò che non è stato detto, che non si saprà mai dire. E che ne è il referente. Il mondo, la vita. Così, è proprio nell’arte non autotèlica che la forma è il contenuto, ne è il detto, la presenza che evoca l’assenza, il non ancora detto, il detto male. “Nommer, non, rien n’est nommable, dire, non, rien n’est dicible, alors quoi, je ne sais pas, il ne fallait pas commencer” (Textes pour rien, XI) Ma, ancora una volta, si è in questa necessità, si è cominciato. Non ci si può sottrarre all’obbligo di continuare a dire, poiché si è cominciato a dire. Dicendo continuamente, mentre si dice, l’impedimento a dire. Nessun logocentrismo, né sperimentazione gioiosa e giocosa. Non vi sarebbe conflitto se non vi fosse l’infinita opacità del referente (del mondo, della vita). In Peintres de l’empêchement (1948), dedicato ancora ai fratelli van Velde, si legge : “L’objet de la représentation résiste toujours à la représentation, soit à cause de ses accidents, soit à cause de sa substance, parce que la connaissance de l’accident précède celle de la substance.” “Car que reste-t-il de représentable si l’essence de l’objet est de se dérober à la représentation ? Il reste à représenter les conditions de cette dérobade.” “Est peint ce qui empêche de peindre.” In questo conflitto, il conflitto stesso è referente principale, primordiale, relazione primaria: “… peinture d’acceptation, entrevoyant dans l’absence de rapport et dans l’absence d’objet le nouveau rapport et le nouvel objet…”. Da questa accettazione, poiché si è cominciato, sembra giungere l’obligation, la necessità: “The expression that there is nothing to express, nothing with which to express, nothing from which to express, no power to express, no desire to express, together with the obligation to express.” (Three Dialogues with Georges Duthuit, 1948).

Nelle parole di Manfred Frank, che commenta una lettera di Wittgenstein: “La delimitazione del dicibile, come ciò che solo ha senso, esclude, attraverso una contromossa, quanto solo meriterebbe di esser detto, e tuttavia si trova all’esterno di questa sfera. […] E’ in questo senso che il discorso poetico è allegorico: nel mentre esprime il dicibile, intende l’indicibile.”

Cominciare. Dopo. Ancora. Togliendo ancora. Comment c’est (1961) è l’inizio di un ripercorrere, tentando altre forme per “dare forma all’informe” (conversazione con Juliet, 1973). Ripetizione e variazione, cercando relazioni possibili nell’impossibilità di fissare, di fermare, una relazione tra suono e senso che sia ultima. La condizione umana, così denudata nelle opere degli anni ’40 e ’50, è ripercorsa con sequenze ritmico-formulari, dove la ripetizione è tuttavia sempre minata dall’occorenza unica, dallo hápax legómenon, da un sempre ulteriore porgersi e sporgersi del non ancora detto. Così è in bing (1966), dov’è posta anche in modo esplicito la relazione tra suono e senso nei sintagmi semiomofoni “sans son” e “sans sens”, quasi in preludio alle sequenze di Sans (1969), che cominciano da un ulteriore azzeramento, un altro passo tornando alle rovine: “Ruines vrai refuge enfin vers le quel d’aussi loin par tant de faux.” Ma l’enfin, se giungerà, giungerà soltanto alla fine, finendo la vita, dopo tanto “mal dire” e “maledire”. “Comment pour en finir enfin une dernière fois mal dire? […] Adieu adieux. […] Ciel terre et tout le bataclan. Plus miette de charogne nulle part. Léchées babines baste. Non. Encore une seconde. Rien qu’une. Le temps d’aspirer ce vide. Connaître le bonheur. ” (Mal vu mal dit, 1981). E prima della fine, ancora, le domande. Quelle dell’inizio, di sempre, nel 1988, nell’ultima opera di Beckett, per cominciare ancora: comment dire? what is the word?

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NOTE

Le opere di Beckett dalle quali ho tratto le citazioni sono pubblicate in francese dalle Editions de Minuit, Paris, e in inglese da Faber & Faber e da John Calder, London.
Le conversazioni con Charles Juliet (Rencontres avec Samuel Beckett, Paris, P.O.L., 1999) sono citate nella traduzione italiana di Maria Sebregondi, Incontri con Samuel Beckett, Milano, Archinto, 2001.
La citazione dal testo radiofonico La capitale des ruines è ripreso da Eoin O’Brien, Samuel Beckett et le poids de la compassion, nel fascicolo monografico di «Critique» (519-520, 1990) dedicato a Beckett, nel quale si legge anche la testimonianza di Robert Pinget (Notre ami Sam).
La citazione da Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 7, è data nella traduzione di Nicola Palanga (Milano, Mursia, 1969).
Per Democrito, si fa riferimento in particolare alle Testimonianze 1 (44), 37 e 38 secondo l’edizione Diels-Kranz. Ringrazio Stefania Nonvel Pieri, che ha voluto confortare la mia imperizia filologica e filosofica, soprattutto per il rimando a un passo della Metafisica di Aristotele (985b5), che qui riporto nella sua traduzione: “Leucippo e il suo seguace Democrito dissero che gli elementi sono il pieno e il vuoto, e chiamano l’uno essere e l’altro non-essere; e precisamente chiamano il pieno e il solido essere e il vuoto non-essere; e per questo sostengono che l’essere non è nulla più del non-essere, in quanto il pieno non ha più corpo del vuoto.” Inevitabile poi ricordare il Sofista (nello specifico, sul nulla che ammutolisce, 260a) e, nelle ultime pagine del Mondo come volontà e rappresentazione, la distinzione tra nihil privativum e nihil negativum. Si considerino anche le Upanisad, in particolare il secondo brahmana delle Brhadaranyaka Upanisad.
Le citazioni di Manfred Frank sono tratte da Stil in der Philosophie (Stuttgart, Reclam, 1992), nella traduzione italiana di Mauro Nobile, Lo stile in filosofia, Milano, Il Saggiatore, 1994.

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(L’articolo è apparso su “Testo a fronte”, n° 35, Per il centenario di Samuel Beckett, a cura di A. Inglese e C. Montini, II semestre 2006.)

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[ grazie a Giuliano Mesa, ad Andrea Inglese e alla redazione di Nazione Indiana per aver concesso di riproporre il testo qui su Slowforward ]