Giovani poeti italiani fra Pitagora e Montale
L’ossessione del visibile nelle raccolte di Marco Giovenale e Andrea Inglese uscite per le edizioni Arcipelago
di Laura Pugno
Sono usciti nella collana «Chapbook» della milanese Arcipelago Edizioni, curata da Michele Zaffarano e Gherardo Bortolotti, due brevi testi poetici di Andrea Inglese e Marco Giovenale: quello che si vede, e numeri primi. Due poeti quasi coetanei, del ’67 e del ’69 rispettivamente, uniti da esperienze comuni, fra cui, rilevante, la partecipazione alla rete poetica lanciata da Giuliano Mesa, «Àkusma» che intende riattivare una dimensione di ascolto tra voci contemporanee; ideale contraltare, in entrambi, di una attiva presenza sulla Rete, che ha fatto di Andrea Inglese uno dei fondatori del blog multiautore Nazione Indiana (ora giunto, per complesse vicende di scismi e scissioni, alla versione 2.0), e di Marco Giovenale uno degli animatori di numerosi luoghi poetici digitali (da gammm.org al blog slowforward.wordpress.com).
Tanto numeri primi quanto quello che si vede sembrano indicare come costante la ricerca di un ultimo irriducibile, l’esito finale di un lavoro di scavo, materiale o immateriale. Nel caso di Inglese, quello che si vede sembra evocare i celebri versi di Eugenio Montale in Satura del ’71 «le trappole, gli scorni di chi crede/che la realtà sia quella che si vede», per sfidarli? Del montaliano «inganno consueto» del mondo messo in scena già dai tempi di Ossi di seppia, Inglese è acutamente consapevole, e traccia un arco che è propriamente di decifrazione. Se «quello che si vede, poco,/ è sempre di nuovo sotto gli occhi,/come ripetendosi, ma non è/lo stesso, non tornerà mai/così, radente, evasivo,/come ora, non sarà quindi/mai visto, anche se/ci metterai anni a leggerlo,/anni per capirlo», unico strumento per navigare questo eracliteo fiume delle immagini è, in una chiusa che corrisponde a questo incipit, «un’interna/sensibilità: la poca, residua/pietà dell’occhio». E in questo contesto di consapevolezza Inglese può permettersi anche di rifotografare i montaliani limoni: «Di qua stanno i limoni. Un mucchio, nel piatto afgano,/pronti a cader fuori. Deformi,/grandi come patate, con l’adesivo/Duck e il marchio registrato/sulla scorza rugosa».
Da Montale a Pitagora, ai numeri primi di Marco Giovenale, intesi come i nuclei duri e irradianti incuneati nell’opacità della massa, opacità del grasso, del reale, che l’impossibilità di sottrarre una qualsiasi immagine «al regno dell’accumulazione e circolazione materiale», come recita la citazione del poeta e artista visivo Tom Raworth in epigrafe, trasforma in un’esperienza cinematografica che paradossalmente si sovrappone alla realtà, più vera del vero. «Alla fine lo ritirano dalle sale. Non lo proiettano più, è vietato, e era troppo violento, e con scene di distruzione di grado insopportabile. Costernazione per numerosi. Per protesta, gruppi interi e in diverse parti del paese, indipendentemente, mettono in atto delle scene del film. Se non possiamo vederlo lo riproduciamo, fanno…. Quando decidono di revocare il bando e tornare a proiettarlo nei cinema, non ci sono più spettatori, in certi casi nemmeno le sale o addirittura le città. La geografia è così cambiata». L’ossessione del visibile, in Giovenale, è insita in noi e non concede scampo. Non ci si può allontanare dalla propria posizione (di lavoro, di combattimento), se non si hanno le immagini successive: «Sulla pellicola la seconda immagine dell’incendio si sovrappone alla prima e la brucia».
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Laura Pugno, recensione comparsa su “il manifesto”, 24 luglio 2007, p.13