Vorrei potervi spiegare, ma non so se riesco.
Ricevo molte lettere e commenti da voi, cittadini di Asterix arrivati qui ognuno a modo suo, per ragioni del cuore che ignoro, attraverso strade di pixel.
Mi chiedete dei ragazzi, della legge italiana, di come li tratta, di come li trattiamo, di cosa fanno, di come stanno, se soffrono, di cosa hanno. Vi ringrazio di queste domande, di questi pensieri. Anche di quelli sbagliati.
Mi accorgo che esattamente come me, il giorno che li ho incontrati sul bus, non sapete niente. Molti immaginano che ci siano scuole organizzate per loro, psicologi, lezioni di italiano extra, qualcuno che paga i loro libri, un centro dove giocare o essere ascoltati, che ci sia qualcosa.
Non c’è molto, e quello che c’è è un po’ sbrindellato e cialtrone, e qualche volta anche ladrone, come siamo noi.
Per questo — non c’è niente di male nel non sapere niente — vorrei potervi spiegare, ma non so se ci riesco. E’ troppa roba tutta insieme: dovrei spiegarvi come mai li accogliamo, e quando invece li lasciamo annegare nei barconi.
Dovrei spiegarvi dei loro documenti, di cosa c’è scritto, e di come glieli diamo, e delle cose che avrebbero diritto ad avere e non hanno.
Dovrei spiegarvi dei centri di accoglienza, di come sono fatti quelli per bambini e quelli per adolescenti, di come alcuni sembrino un carcere, e di quelli per adulti dove devi uscire la mattina alle otto e tornare alle sei, anche se non sai dove andare e dove mangiare a pranzo. Fuori. Dovrei spiegarvi che li chiamano per numero.
Queste cose sono troppe, lunghissime, infinite, non so come spiegarvele: immaginatevi una cosa piccola, che date per scontata, una stupidata, che so i biglietti dell’autobus o i calzini o la merenda: ecco, per loro è un problema.
Vorrei allora almeno potervi spiegare cosa significa essere soli come lo sono loro, cosa significhi non conoscere nessuno in città, non incontrare mai nessuno che appartenga alla propria vita, ma solo estranei più o meno gentili, più o meno distratti. Non un bar dove vi conoscono, non una scuola dove siete andati da piccoli, non un giardino dove conservate il ricordo di qualcosa di bello, non una sola persona a cui citofonare in tutto il continente.
E cosa significhi non avere una casa dove tornare e trovare le proprie cose, le nostre cianfrusaglie al loro posto, le facce, l’odore di casa, il pane, i rumori di sempre. Vorrei potervi spiegare cosa significa guardarsi intorno ogni mattina, ogni giorno, e non essere a casa propria. Cosa significa emigrare quando si è solo uno stormo di ragazzi soli, confusi e tenaci
Tutte queste cose che ora so le ho imparate da loro.
Gliele vedete negli occhi, se guardate bene: occhi tristi qualche volta, occhi dubbiosi, occhi che ce la mettono tutta.
Ammiro i ragazzi, perché ce la mettono tutta.
Non è per niente facile la loro vita con noi.
Noi, così distratti, così incapaci di immaginare la loro vita.
Carlotta Mismetti Capua
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