I temi che Franco Buffoni affronta in questo nuovo libro in forma di dialogo, Più luce, padre (Luca Sossella Editore, Roma 2006, pp. 216, euro 10,00), sono sì quelli enunciati frontalmente dal sottotitolo: «Dio, la guerra e l’omosessualità». Ma è attraverso la complessità e il ramificarsi dei tre nodi che l’obiettivo di Buffoni si precisa e si estende a un discorso di dimensioni ampie sull’Italia del secolo passato e di ora, a fabbricare un trattatello di (filosofia della) laicità, puntuale se non addirittura appuntito, oltre che – qualità aggiunta – godibile.
Ma la fluidità del testo non deve ingannare: il libro non è serioso ma serio sì. Nasce da quasi dieci anni di elaborazione di appunti e materiali ritrovati dall’autore fra le carte del padre, «documenti relativi al periodo 1934-1954», e in particolare una specie di «diario scritto in matita in stenografia su cartine da tabacco in tre campi di concentramento tedeschi tra il ’43 e il ’45», dove era prigioniero con moltissimi altri i.m.i. (militari internati per rifiuto di aderire alla RSI). A partire dalla lenta decifrazione e poi trascrizione di circa duecento sottili strisce di carta fitte di note diaristiche, nasce nel tempo – più che una semplice ricostruzione storica – la doppia esigenza e poi la strutturazione di una testimonianza e riflessione da un lato, e di una reinvenzione e denuncia tramite i versi dall’altro.
In quest’ultima direzione va il libro Guerra, uscito nel 2005 per Mondadori: un esempio di poesia civile asciutta, non di puro ‘realismo’, nonostante i testi insistano tutti sull’orizzonte visibile e immediato dei fatti – seccamente riportati, incisi – riducendo di numero le stesse figure retoriche a favore di uno stile dichiarativo che spinge nel freddo della loro identità e del loro peso gli eventi, entro l’ulteriore freddezza (che non è calcolo) di rispettarne lo spessore, di non renderli pretesti.
In parallelo, ad una riflessione etico-politica tesa e ampia si orienta il libro edito ora da Sossella. La forma esterna che Franco Buffoni gli ha dato è quella di un confronto tra lo zio-auctor e il nipote Piero, interlocutore attento e non semplice ‘spalla’ per l’avanzare del dialogo. Tanto è vero che la discussione, non necessariamente conciliata, si sviluppa tra una concezione liberale dello stato (Franco) e posizioni no global (Piero).
Le vicende belliche e di prigionia vissute anzi sofferte in prima persona dal padre di Franco diventano non solo ‘occasione’ di indagine sul fascismo, sul concetto di “onore” (=orgoglio), sul mondo militare, e cattolico, e sul clima di repressione dell’Italia prima durante e dopo il secondo conflitto mondiale, ma materia diretta di ulteriore scrittura civile: e insegnamento. Il rigorismo cattolico preconciliare introiettato e vissuto in un contesto educativo fascista (giustamente si insiste sulla sinergia: sempre il libro parla di «cattolicesimo nel fascismo») produce nel padre un sistema di pensiero e vita e impostazione/imposizione di sé e delle coordinate mentali ricevute e mai criticate che sono base comune di prassi e di ‘etica’ dell’Italia del Ventennio e di ora. In un intreccio evidente di disvalori: pregiudizi antiscientifici, moralismo, razzismo, continue rimozioni e repressioni e dileggio della sfera erotica (soprattutto se omosessuale), culto del Capo o del Re in spregio del diritto e di una visione laica dello Stato; senso acutissimo dell’onore verso la parola data, qualunque ne sia il contenuto. Questi gli elementi in campo.
E proprio in virtù di alcuni di questi tuttavia il padre preferisce la galera nazista alla “repubblica”, per non macchiarsi di tradimento (il giuramento era stato fatto al re!), finendo così sul versante della giustizia, opposto ai nazisti, per un paradosso che forse non è tale, o almeno non è rarissimo, se è vero che una simile scelta fu abbracciata dal 99% dei circa seicentomila italiani internati perché indisponibili a firmare per Salò. Fu, questa, un’altra resistenza (titolo del libro di Alessandro Natta, edito da Einaudi nel 1997). Riconosciuto il valore di questa alterità, nessuno sconto viene però concesso da Buffoni ai ben introiettati congegni e apparati categoriali repressivi che il cattolicesimo nel fascismo ha inculcato (e inculca ora) in tante generazioni, tra cui quella gettata in guerra nel ’40. «Coloro che vennero educati dal cattolicesimo nel fascismo e/o dal fascismo nel cattolicesimo dovettero sorbirsi un cocktail micidiale da cui molti non si riebbero».
Lo spazio di non detto (e di non dicibile) che ogni contesto dogmatico e repressivo impone è ben definito dal motto di Cartesio che l’autore cita: «bene vixit qui bene latuit» (bene visse chi bene si nascose): il silenzio imposto e autoimposto verso lo status di omosessuale, e il silenzio dei carnefici o dei corresponsabili o anche dei ‘semplici’ testimoni verso l’orrore delle guerre, e segnatamente verso l’istituzione concentrazionaria, hanno un’unica radice, e crescono in ogni caso sotto la protezione di un’ostinata idea antiscientifica del mondo, in cui nessuna verifica e criterio di falsificazione e nessun empirismo sono tollerati. È la stessa ‘cultura’ – o meglio somma di superstizioni – che negli USA riporta il creazionismo nelle scuole; o, in Italia, l’inossidabile “ora di religione”.
In opposizione frontale a questa cultura di falsificazioni sistematiche, il libro Più luce, padre formula un gran numero di atti d’accusa suffragati da vicende direttamente conosciute, vissute o apprese attraverso testimonianza. La limpidezza del dialogo, e il gusto e il giusto delle tesi e dei rilievi, fanno di questo libro un’opera che sarebbe auspicabile venisse adottata nelle scuole superiori di quella dépandance dello Stato Vaticano che spesso l’Italia dimostra di essere.
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[ Recensione a Più luce, padre, di F.Buffoni, in «Il manifesto», a.XXXVII, n.8, 10 genn. 2007, p. 13; poi online (scansione in formato pdf) sul sito di Luca Sossella Editore, pagina della rassegna stampa ]