[ annotazione scritta per un sito nel giugno 2004, ma inedita ]
Ho scritto Double click tra 2001 e 2002, ma solo negli ultimi due anni ho potuto mettere a fuoco con precisione alcuni testi che lo formano, e ragionare meglio sulle linee del libretto, sentirlo chiuso, concluso. L’esperimento ampio che vado seguendo grosso modo dal 1996 è quello di Delle restrizioni: una sorta di opera-di-opere, tutt’ora (e per anni ancora) in scrittura. Lateralmente rispetto a questo percorso maggiore, si creano talvolta degli spazi e testi-identità a cui mi affeziono, e che posso facilmente sentire in grado – più di qualsiasi altra pagina – di portare e trasmettere il segno della ricerca generale che in altre opere vado svolgendo.
Double click è proprio un lavoro di questo genere. Si lega a Shelter, serie ancora inedita di poesie dedicate al ‘riparo’, al luogo di difesa dal dolore ma anche alla prigionia, alla chiusura in ospedali, luoghi di cura, cliniche, spazi bianchi. Vorrei dire che Double click e Shelter formano idealmente un dittico, di cui il primo testo offre la dimensione dell’ampiezza, orizzontale, e il secondo la profondità, verticale. Il primo è dedicato alla città, ai luoghi della violenza, al viaggio imposto, all’orrore del lavoro e del tempo sequestrato. Il secondo è invece centrato su figure specifiche, singoli ritratti di malattie circoscritte, casi, individui feriti.
Accludo qui un testo di Double click osservandone i caratteri espliciti, la nettezza (pur codificata, non ‘neorealistica’) del riferimento alla perdita di identità e di storia individuale, polverizzate nel tempo collettivo:
Dopo tanti schiamazzi in rottami di sanscrito,
e chilometri cubi di sangue
è arrivato al cadere del sole, come dicevano,
occidente, lui precisamente
in via Boncompagni, già sotto visiera
Yale, leggera, senza felpa, ha duty, cleaning
floors, or a huge crystal-green
loft of light, come ricorda
Vienna, e stando in una
goccia di Boemia risospesa
ellittica – mentre ballano
le vittime e la valse ha soffio al cuore, da fuori
lo guardano passando quando apre
a ventaglio i cenci – sta a pulire
alzàti rari gli occhi poi perché
in alto, sulla parete, anche di notte, mentre lui lavora
può vedere l’orologio, che gli dice
a che punto siamo
*
Nato come voce anarchica, a suo modo politicamente connotata (cfr. l’ironia nel sottotitolo: «Addressed to English Crowds»), Double click ha forse il pregio o desiderio di tenere insieme più fili del tessuto generale delle diverse scritture che nel tempo mi impegnano:
– il tema della doppiezza delle percezioni (come se fosse impossibile toccare e sentire un oggetto se non raddoppiandolo, moltiplicandolo: quasi in specchi progressivi: è poi la logica che presiede al doppio click che fa funzionare i mouse che normalmente usiamo);
– il tema del dolore e della fuga e viaggio, dell’abbandono e del disfarsi delle cose, dei rapporti umani, soprattutto dei rapporti con i luoghi, che si dissolvono prima nel tracciato biografico (dover lasciare un’abitazione, non poter contare su un appoggio, non avere sostegno economico) e poi in quello memoriale (iniziare a dimenticare la casa d’origine, e a esserne dimenticato);
– il tema della violenza, di una certa quantità di energia resistente, come indispensabile per non soccombere;
– il tema dei supporti o strumenti (fotocopie, immagini virtuali, specchi, fotografie) che si imprimono e si cancellano; che aiutano e fermano e smentiscono e tradiscono la memoria.
*
L’ultimo testo della raccolta, Dentro il peso del mondo, è una sequenza onirica in parte dettata dall’immagine della morte di Pasolini. Chiusa com’è tra una citazione da Char e una da Ashbery, la raccolta Double click ha necessariamente a che vedere con il peso del reale: non con il realismo però. Semmai con l’identità originariamente deformante dello sguardo. Del suo doppio tocco sulle cose, su tutto.