variazioni meridiano. marco giovenale : industria/distruzione

distruzione delle vite e distruzione del tempo delle vite sono prassi e procedure che si sono moltiplicate e sono diventate industria, nel percorso del secolo passato.

questo fatto carica di uno spessore di ombra aggiunta lo spazio dei segni, e dunque — in fondo — anche la scrittura di versi, che già per statuto suo è o può essere luogo laterale e asimmetrico rispetto al sermo communis.

all’interno delle forme e dei lessici si può cioè sommare quella macchia di assenza, di violenza e distacco, che le innumerevoli vite ferite, offese o perse (e il loro tempo bruciato) testimoniano o puramente sono. (fuori da linguaggi).

Paul Celan:

Der Andere

 

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
größere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weißere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

 

 

L’altro

 

Più profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
più grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
più bianca cenere
giace sulla parola cui hai creduto.

 

Testo del 10-12-1952. Traduzione italiana di Michele Ranchetti, in:
P.Celan, Conseguito silenzio (Einaudi, Torino 1998, pp. 14-15)

è il silenzio o la torsione in sé di chi non ha difesa né tempo né vita. un prisma e un prima asemantico. scompagina le parole note. dissipa e riedifica da zero il discorso di chi resta e parla, forma strutture.

e: fra sommersi e salvati, come fra silenzio e parola, c’è una estesissima fascia di crisi. di imminenza di naufragio.

forse in generale (oramai, direbbe Villa) è difficile avere altro sfondo che questo: la memoria o eco delle distruzioni recenti o in essere, l’evidenza di quelle attuali (il quotidiano sterminio per fame nei sud del pianeta), le limitazioni o negazioni della libertà di ciascuno, l’invadenza o meglio continua presenza-aggressione da parte della produzione e dei prodotti, lo sfruttamento, la volgarità che rimuove il peso della storia, delle storie, il lavoro che — precario nelle garanzie — dà però ampie certezze di morte o logoramento e servitù, l’annientamento del tempo individuale, e del piacere (una regola di funzionamento, nella vita nel tempo dell’industria, e dello Spettacolo. una regia. la schermata a cui il gioco non dà accesso).

personalmente, chi qui scrive non pensa di aver mai preso parola se non contro e però dentro quella distruzione. (sotto i colpi, cioè. per vicende precise, e non riferite se non distorte).

non essendo lack of experience, non è una postura (letteraria) né un topos, o atteggiamento. forse nemmeno eredità. sicuramente non una faccenda d’arte.

e tuttavia questo fatto, questo parlare sempre dentro=contro situazioni simili, conduce a ciò che è volentieri rubricato da molti come un limite e problema di reticenza.

l’autore di testi in cui il buio viene affrontato col buio è non di rado messo spalle al muro da un lettore che vorrebbe che la cortina venisse comunque attraversata, se non da fasci di luce da contraerea, almeno da striature di un nero meno nero. che fossero narrazione, didascalia, non cifra. (ossia non nuova cifra, aggiunta).

ma nel momento in cui qualcuno sta — e deve suo malgrado stare — al gioco che gli è capitato, al tempo e nastro che vive, non si dà margine. un fronte della vita si spende in resistenza e (contr)attacco, e un fronte — che è poi il medesimo — in forma non scissa.

vale a dire: l’identità o matassa di scelte di un autore è già forma, e parla — dall’interno di una definita esperienza delle cose. esperienza che è linguaggio; non se ne separa. così — in alcuni e per alcuni — il nero è=forma parole.

ecco che, se da un luogo simile si parla, lo si fa con le opacità niente affatto programmate e semmai franche e veridiche che ne vengono. (che vi erano implicite. inespresse). (che sono nuove, dove dette, impresse).

non sono sfocature applicate, il comando “blur/sharpen” è un clic astratto, un robot buono a malapena per ritoccare foto digitali. non funziona col linguaggio, se il linguaggio ha una veridicità. se cioè non è ‘affrontato’ e ‘usato’ come fosse uno strumento manovrato da attenzioni e intenzioni estrinseche.

il linguaggio in atto, nei versi, nelle prose, non è un tool a cui assegnare caratteristiche. difficile credere che esistano scrittori che effettivamente mettono — come il disegnatore dei Giardini di Compton House — le cose e il paesaggio da una parte, il riquadro-telemetro in mezzo, e al di qua il loro gesto, il segno. (non a caso l’artista di quel film devia dal suo compito e non è fedele, leale: anzi abbonda in ombre. i committenti del resto se ne vendicano).

il segno non nasce senza le cose, ma con queste: al loro interno: nella percezione — e intreccio — di una differenza da traccia a traccia continuamente spostata, diffratta, lungo assi imprevedibili, dove un puro riprodurre (ammesso che esista) non avrebbe parola. (né un deformare o annerire meccanico, inautentico).

la poesia di Paul Celan stabilisce — senza norma e però chiaramente — questa esperienza di linguaggio. misurandosi lui con un (o con il) picco negativo della vicenda storica del Novecento.

cosa c’è di paragonabile o accostabile alla Shoah? (la distruzione nucleare? ma attiene già a un’assenza totale e definitiva di umanità, e anzi a una negazione alla radice di possibilità di ogni esistenza sul pianeta, quale che sia, anche non umana).

in ogni caso: non ci si “misura” con tutto questo. si viene semmai misurati, inchiodati. così, per chi ha avuto origine da una negazione radicale di luce, il metro della prassi, nelle forme anche letterarie, è sempre in larga parte la qualità del buio, lo stile e materia di questo.

ciò porta da sùbito e ogni volta a decisioni e predilezioni parziali — ma non per questo immotivate o ingiuste. semplicemente altre rispetto a una qualche (degna e accolta, e diversamente veridica) poetica della trasparenza del segno.

mettere l’accento su opacità e buio e peso dei segni è uno dei modi e nodi possibili e praticabili della scrittura, non il solo. né è nuovo.

né il fatto che non sia nuovo lo garantisce in nulla. semmai lo fa ogni volta daccapo vulnerabile. (come ciò che lo origina).

 

 

[ da nazione indiana, 10 marzo 2008 ]