La nuova prosa ‘versus’ il Sempreuguale. (Note su G. Bortolotti: “Tecniche di basso livello”)

 

Sembra evidente, a chi osserva con attenzione una nuova onda di pagine attiva non solo in rete (principalmente via blog) ma anche in canali di editoria cartacea innovativa/coraggiosa, come ormai si stiano diffondendo perfino in Italia, dopo Francia e Stati Uniti, alcune benefiche naturalissime tipologie di scrittura non strettamente narrativa e neppure però vincolata al vetusto “poème en prose”. Si tratta di quelle vie nuove sintetizzate da Jean-Marie Gleize nella definizione, assai felice, di prosa in prosa.

Attenzione: “sembra” evidente. L’apparenza inganna: non si stanno sviluppando ora: va semmai detto che solo in anni recenti paiono trovare finalmente terreno ricettivo, interlocutori, editori, nuovo pubblico: e questo fatto dunque, questo ascolto di oggi, riverbera su di loro alcuni indici e luci di “novità”. Novità ci sono, evidenti, e ne parleremo qui; e però vanno rilevati in incipit anche i legami con una stagione solida di avanguardie (gli anni dei Novissimi, per dire) che, a differenza di quanto accaduto altrove, sembravano fino a ieri in Italia spezzate, interrotte per varie ragioni. (Tra tante, la morte in meno di un ventennio di riferimenti nodali come Porta, Spatola, Costa, Reta, Vicinelli, Villa, Rosselli; e la conversione alla parola innamorata di molti sperimentatori, cascati a testa in giù nel bel canto).

Ma ecco una grossa differenza: se pure l’attuale nuova prosa prosegue con sue proprie connotazioni una linea di ricerca comunque nota, lo fa, adesso, abbracciando in pieno e con gusto una ‘fredda’, netta e lucida poetica della chiarezza, e dell’azzeramento dei codici retorici, del significante, dei suoni in eco, ricusando con ciò quella “poetica del gingillo” linguistico (per dirla con Christophe Hanna) che ha variamente attraversato il secolo del messaggio poetico, il secolo di Jakobson. (Azzeramento che appare allora figlio di Partita, di Porta, o del Diario ottuso della Rosselli, o degli antiromanzi di Isgrò, più che delle colate laviche di Villa, Cacciatore, Toti).

La nuova prosa è o appare, così, lineare-iperreale, e in certe occasioni perfino bidimensionale, diaccia, eccezionalmente chirurgica. E certo non eccessiva, non postmoderna come quella al neon di Tondelli, o quella ‘cannibalica’ che le è seguita.

Gherardo Bortolotti esordisce in pieno, e si direbbe paradigmaticamente, nel nuovo clima, nel cerchio aperto della prosa in prosa che lui stesso ha contribuito a formare, con un libro èdito da poco da Lavieri nella collana Arno diretta da Domenico Pinto. Il testo, fatto di segmenti/frammenti, di veloci ‘soluzioni’ ossia brevi blocchi di prosa, si intitola Tecniche di basso livello. (Alla sua base: quelle Soluzioni binarie che avevo avuto il piacere di ospitare, qualche anno prima, nella collana felix della Camera verde).

Bortolotti è da lungo tempo su queste frequenze. Da circa un decennio e forse più lavora – per quanto in un suo laboratorio appartato – a un’idea di letteratura agli antipodi rispetto al mainstream del romanzo e del racconto tradizionali. Lavora cioè nel senso sopra accennato (e pure come traduttore dall’inglese: cfr. il sito www.gammm.org e la collana ChapBook che codirige con Michele Zaffarano presso l’editore Arcipelago) a una dimensione non lirica del testo, che nemmeno però cade nel racconto-racconto, nello stereotipo del savio periodare di chi spiega e dispiega dall’alto una mappa data, di chi sa già la trama, e la pilota, fa il plot al plotter, tagliando metafisicamente vicende e personaggi e frasi come quell’iddio (equilatero o scaleno che sia) “che fabbrica il libro”: l’Autore, mosso in verità – poi e sempre – da regole che sappiamo, quelle già fissate dalla customer & editor satisfaction del genietto dello scaffale, il prodotto, oggi unica forma (anzi ultima confezione) di quello che una volta perfino il marxismo osava chiamare “genere letterario”.

Se i testi delle Tecniche di Bortolotti sono assertivi, narranti (per vicoli ciechi, però, tagli chiusi), lo sono attraverso frasi tanto intenzionalmente generiche da far brillare in primissimo piano giusto l’invendibilità di fondo della vita occidentale, il voltaggio basso o nullo delle vicende, che sono poi quelle di un adulto bloccato e incenerito dalla propria gabbia e routine (generale, generalista) biografica-televisiva-lavorativa-sentimentale, puntualmente a cavallo o meglio disarcionata tra i due millenni.

Incurabile come il tempo, e incurante del tempo, il Sempreuguale domina. Dallo schermo tv o web, il moto immoto di polvere o nebbia quantistica prepara allora ai personaggi-segni-avatar del libro un destino reso lattescente, in cui nulla accade, e in cui però il tutto di quel nulla è disperatamente dispettosamente detto, con un picco di malinconia che viene dal montaggio sempre ritornante delle schegge: “Dalle regioni periferiche del benessere, in cui ci eravamo stanziati nei giorni della nostra giovinezza, dirigevamo gli sguardi oltre le feste, gli acquisti del sabato, le domeniche pomeriggio, e non vedevamo niente”, “guardando la televisione, bgmole si inoltrava, dalle pianure del divano, in un territorio di sovrappensiero, pieno di associazioni mentali arbitrarie, scritte in sovraimpressione, ritmi incongruenti di inquadrature”.

Ecco: sovraimpressioni (titolo zanzottiano qui catturato a miglia di distanza da Zanzotto) e sovrappensiero: i piani di scorrimento del disegno, di una differente e ben sottile denuncia dello stato di cose presente.

 

Marco Giovenale

 

[ versione estesa della recensione uscita su «il manifesto» il 17 genn. (p.12) su Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello, Lavieri 2009 ]