ricevo e volentieri diffondo:
Pratiche di détournement nella città-zombie
di Drobedj Yuhg [*]
Ci sono città-museo, città che coincidono senza resti, o quasi, con una spazio espositivo integrale. L’Aquila, come Venezia – e forse ancora più di essa – è una di queste. In gran parte museificata, sottratta cioè all’uso comune e alle forme di abitazione originarie, relegata in maniera più o meno estesa in una sorta di spazio di indisponibilità (la cosiddetta “Zona Rossa” che dal 6 aprile 2009, giorno del catastrofico terremoto che ha investito il capoluogo abruzzese e i suoi dintorni, è stata istituita per tenere lontani i cittadini dagli edifici e i quartieri del centro storico più disastrato e pericoloso) L’Aquila è infatti diventata oggi una gigantesca Gesamtkunstwerk (un’Opera d’Arte Totale), come forse non se ne trovano in nessun’altra parte del mondo – men che meno nell’ambito della produzione artistica in senso più o meno canonizzato. Un’Opera d’Arte Totale che, fino a ieri, aspettava solo di essere riconosciuta come tale. Siano dunque encomiati gli anonimi (come chiamarli? non certo artisti!; operatori? visionari? semplici tecnici in grado di servirsi in maniera non usuale di tecnologie più o meno avanzate ma comunque già disponibili?) autori del gesto che ha letteralmente reso visibile quello che era sotto gli occhi di tutti gli (ex)abitanti di questa città, quel Reale angoscioso, come lo avrebbe chiamato Jacques Lacan, che tutti si ostinavano a rimuovere e denegare. Cresciuti con ogni probabilità compulsando i testi dell’internazionale situazionista, ma anche cercando di cogliere i limiti di quanto ancora di “artistico” o “sociologico” c’era nelle pratiche di “deriva urbana” e di “descrizione psicogeografica” di quell’avanguardia, essi – non sappiamo con precisione al momento quanti siano – hanno avuto il merito indiscutibile di rivelare la dimensione per certi versi inedita in cui è entrata L’Aquila, e di conseguenza i suoi stralunati, in senso etimologico, abitanti. Quale dimensione? La si potrebbe definire per brevità in questo modo: L’Aquila è la prima città-zombie al mondo, la prima città non-morta che sia mai esistita. Città d’arte nell’epoca della morte dell’arte (o comunque, secondo la corretta citazione di Hegel, del “carattere di passato dell’arte”[1], ovvero dell’incapacità dell’arte in quanto forma del sensibile di esprimere l’Idea), o anche, città nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte (seconda la celeberrima definizione di Benjamin[2], ovvero della caduta del carattere auratico delle opere d’arte – e si pensi, a tale proposito, a quante fotografie, video, documentari, mappe digitali, ecc., ha generato questa città dopo il terremoto, all’abbuffata bulimica di simulacri che essa ha permesso a chiunque volesse approfittarne in questo senso – L’Aquila è una sopravissuta, non soltanto all’evento materiale della catastrofe, ma soprattutto ad ogni tentativo di metterla in immagine, ad ogni sforzo per descrivere e raccontare esaustivamente l’immane trasformazione che l’ha travolta. Certo, si dirà – senza per questo azzardare paragoni inopportuni – c’era già stata la Shoah a mettere radicalmente in questione il regime della rappresentazione, la possibilità per l’arte di testimoniare l’intestimoniabile. Non è nemmeno il caso di ricordare la tormentata riflessione di tanti critici e pensatori – primo tra tutti Theodor Wiesengrund Adorno – che avevano sottolineato il punto di non ritorno segnato dal quell’Evento per il destino dell’arte occidentale. Eppure, il caso aquilano presenta qualcosa di assolutamente singolare. Città-zombie vuol dire anzitutto città che non può essere uccisa una seconda volta, non semplice città morta o distrutta, ma città revenant[3], città che ritorna come uno spettro del passato nel presente, così come ritornano i suoi abitanti, esseri dagli occhi “cavi” che appunto non sanno vedere intorno a loro; città che essendo arrivata a coincidere con un unico ed enorme non-luogo, si è dialetticamente tramutata – lo dicevamo – in un grande oggetto d’arte in senso tradizionale, quasi kantiano, oggetto fine a se stesso, senza scopo e proprio per questo anacronisticamente “bello”. In ogni sua parte, infatti, i ponteggi e puntellamenti (spesso inutili, o meglio, senza scopo) che ne frastagliano le architetture diroccate, ricordano senza posa, e con un’intensità e una forza che dà assai da pensare, le installazioni fatte con i rifiuti e gli scarti della civiltà contemporanea che affollano i musei e le gallerie d’oggigiorno. Città-zombie, L’Aquila lo è anche per il suo look da discarica ultratecnologica e sostenibile: ammasso di rovine quasi post-apocalittico, ma che comunque pullula di locali notturni, e di giovani in cerca di emozioni, giovani che tutto vedono (e consumano) a parte lo scenario da science-fiction che li attornia.
Gli “autori” di questo gesto, di questa tentacolare “opera aperta” (le virgolette sono obbligatorie, essendo le nozioni di “autore” e di “opera” – foss’anche “aperta” nel senso che gli dava Umberto Eco[4] – evidentemente inadeguate e fuori tempo massimo), di quest’opera che si ramifica nel web, dando luogo a escrescenze telematiche imprevedibili (appoggiandosi a piattaforme di istant messaging come Twitter), hanno predisposto infatti una serie di pannelli che riproducono con esattezza quelli presenti alla Biennale di Venezia in ciascuno dei suoi padiglioni organizzati per nazioni e per regioni italiane. Essi hanno voluto provocatoriamente creare un “Padiglione L’Aquila”, un padiglione senza opere, ma che prevede, in alcuni luoghi strategici della città (l’ex studio di un pittore figurativo locale, l’ex museo archeologico di Santa Maria dei Raccomandati, le vetrine di alcuni ex esercizi commerciali, l’ex teatro Sant’Agostino; si noti la profusione del prefisso “ex”!), l’installazione di fotografie che testimoniano di un esposizione che non è mai avvenuta, con tanto di nomi di artisti (reali? inventati? a cercarli su internet non se ne trova traccia…) e titoli di opere, appunto, non messe in mostra. Essi, cioè, hanno voluto semplicemente mostrare, con questa procedura performativa di illuminazione di un dato di fatto, quello che nessun’immagine da sola avrebbe potuto dire: che L’Aquila è oggi il trionfo della “vetrinizzazione sociale” (Vanni Codeluppi), è una “vetrina di se stessa in perpetuo allestimento”, come scrivono i medesimi autori del gesto. Ma soprattutto, stampando su questi piccoli pannelli (21×29 cm circa, a parte uno più grande che rappresenta la mappa dell’Aquila accostata a quella di Venezia), non soltanto il logo della biennale, ed effettuando così quella che si potrebbe classicamente definire come una pratica di détournement o ancor meglio di brandalism, ma anche un QR code (un codice a barre bidimensionale come se ne trovano su alcuni prodotti di consumo) la cui lettura (che può avvenire attraverso un reader come quello di cui sono dotati gli attuali smart phone) permette l’accesso a testi redatti dagli autori stessi che esplicitano l’intento della loro operazione (ecco forse la parola giusta da utilizzare, come fosse un’operazione di intelligence o di polizia internazionale!) Chi scrive ha avuto modo di vedere e leggere sul luogo quanto vi sta qui riferendo, ma invitiamo chiunque sia incuriosito a recarvisi o, qualora non possa – e direi che oggi non è un grave problema – a cercare sul web informazioni a riguardo. Crediamo, infatti, che non si possa che rimare piacevolmente sorpresi da come questi disturbatori abbiano cortocircuitato una delle più blasonate cerimonie dell’arte contemporanea, la Biennale, con uno dei più esemplari casi di shock economy e di malgestione governativa di una catastrofe naturale.
[*] Critico e saggista di origine armeno-ungherese, caporedattore della rivista internazionale Post-Trash Art (Trans-oceanic Editions). Traduzione dall’inglese di Mario Rossi.
[1]
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Ästhetik [tr. it. a cura di N. Merker, Estetica, 1997, Einaudi, Torino].
[2]
Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit : drei studien zur Kunstsoziologie [tr. it. a cura di Enrico Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1974, Einaudi, Torino].
[3]
Sulla figura dello zombie in tutte le sue declinazioni e implicazioni si veda di Olivier Schefer, Des Revenants: Corps, lieux, images, 2009, Broché.
[4]
Nel libro omonimo del 1962, Opera aperta: Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani.