mimesi / benjamin

 

La natura produce somiglianze. Basta pensare al mimetismo animale. Ma la più alta capacità di produrre somiglianze è propria dell’uomo. Il dono di scorgere somiglianze, che egli possiede, non è che un resto rudimentale dell’obbligo un tempo schiacciante di assimilarsi e condursi in conformità. Egli non possiede, forse, alcuna funzione superiore che non sia condizionata in modo decisivo dalla facoltà mimetica.
Ma questa facoltà ha una storia, e in senso filogenetico come in senso ontogenetico.
[…] Bisogna tener presente che né le forze mimetiche, né gli oggetti mimetici, sono rimasti gli stessi nel corso dei millenni. Bisogna invece supporre che la facoltà di produrre somiglianze – per esempio nelle danze, la cui più antica funzione è appunto questa –, e quindi anche quella di riconoscerle, si è trasformata nel corso della storia.
[…]
Tutto ciò che è mimetico nel linguaggio può […] – come la fiamma – rivelarsi solo in una sorta di sostegno. Questo sostegno è l’elemento semiotico. Così il nesso significativo delle parole e delle proposizioni è il portatore in cui solo, in un baleno, si accende la somiglianza. Poiché la sua produzione da parte dell’uomo – come la percezione che egli ne ha – è affidata, in molti casi, e soprattutto nei più importanti, a un baleno. Essa guizza via. Non è improbabile che la rapidità dello scrivere e del leggere rafforzi la fusione del semiotico e del mimetico nell’ambito della lingua.
«Leggere ciò che non è mai stato scritto». Questa lettura è la più antica: quella anteriore a ogni lingua – dalle viscere, dalle stelle o dalle danze. Più tardi, si affermarono anelli intermedi di una nuova lettura, rune e geroglifici. È logico supporre che furono queste le fasi attraverso le quali quella facoltà mimetica che era stata il fondamento della prassi occulta fece il suo ingresso nella scrittura e nella lingua. Così la lingua sarebbe lo stadio supremo del comportamento mimetico e il più perfetto archivio di somiglianze immateriali: un mezzo in cui emigrarono senza residui le più antiche forze di produzione e ricezione mimetica, fino a liquidare quelle della magia.

Walter Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus Novus,
a c. di R.Solmi, Einaudi, Torino 1962, 19939, pp. 71-74.



L’archivio delle somiglianze, dopo il cambio di paradigma, si sposta dal versante grafico e fonico a quello dei rapporti invisibili frasali e di paragrafo/periodo? È un’ipotesi.

Prima della “new sentence” di cui parla Ron Silliman (cfr. «L’Ulisse», n.13, pdf 2.81 Mb, pp. 21-42; e «il verri», n. 48, feb. 2012, pp. 117-150), e prima del cambio di paradigma di cui a mio avviso c’è diffusione estesa (almeno in Italia) a partire dagli anni Sessanta del Novecento, il processo era e può essere (non cronologicamente ma diciamo per comodità di studio di strutture) descrivibile come un passaggio o sequenza o elencazione grezza di questo tipo, assai semplificando, semplificando vigorosamente, troppo:

facoltà di mimesi data, materiata dalla/nella singola lettera o carattere (la testa del bue leggibile nell’aleph, o la spiga che il cuneiforme registra come tale)

facoltà di somiglianza o mimesi esperibile nella frase organizzata con articolazione sintattica più complessa di una semplice giustapposizione, e con membri gerarchizzati all’interno della frase stessa (sbrigativamente: soggetti, aggettivi, verbi, complementi; addirittura: re, sacerdoti, soldati, sudditi)

facoltà di somiglianza o mimesi esperibile nella transizione o possibilità di transizione da frase a frase (il sillogismo che fa da base, secondo Silliman, a tante nostre catene discorsive logiche), analogon di transazioni transizioni e scambi sottoposti a una logica, normali, quotidiani

facoltà di mimesi che lega tra loro periodi o paragrafi composti di frasi in ulteriori macrostrutture che sono opere, macrotesti complessi (che mimerebbero – o alluderebbero alla possibilità di una somiglianza con – scene e situazioni complesse del/nel reale).

Dopo il cambio di paradigma, in vari tratti di questa catena malamente abbozzata (diacronica e sincronica insieme) si inserisce qualcosa di imprevisto. Al punto che lo stesso complesso del rappresentabile cambia, essendo mutate le percezioni.

La poesia visiva sembra rendere più complicata la situazione mimetica di primo grado, quella che lega un principio di somiglianza al suo lavoro con i caratteri alfabetici. La new sentence crea nel periodo dei rapporti invisibili tra frasi, o sillogismi improvvisi e inattesi, che non si davano precedentemente. La mimesi di situazioni data dall’assemblarsi di periodi e blocchi frasali in macrotesti diventa a sua volta altra, proprio grazie all’intervento della new sentence. È un’opera (e sottintende mimesi, di tipo particolare) anche il Tristano di Balestrini, ma è evidente che non si tratta più di un macrotesto, o di un “romanzo”, come poteva essere inteso prima del cambio di paradigma.

“Ora” (ma da mezzo secolo, in effetti) una latenza o vuoto separa le frasi, frontalmente. A dividerle-unirle non c’è (più) un nesso dato, o non si pone più, a funzionare da possibilità di ponte, un rinvio a una possibilità di ponte già dato. Continuano a esserci le “frasi fatte”, ovviamente. E continuano a esserci i nessi o ponti “fatti”, predisposti, istituibili tra frasi anche non note. Continuano quindi, sì, a esistere possibilità di connessioni di un certo tipo, di un tipo a sua volta riconducibile a schemi e norme noti. Ma, nonostante ciò, esiste, è impressa, si stampa invisibile sulla pagina e nelle frasi scambiate anche solo oralmente tra le persone, una latenza diversa, un diverso “possibile”, in ordine alle connessioni.

Un esempio. A prescindere dall’ovvia headline “Taccuino di viaggio” che potremmo annotare in calce a questo frammento da Il sonetto come mistero formale, di Jean-Marie Gleize (tradotto da Michele Zaffarano: http://gammm.org/index.php/2006/07/28/il-sonetto-come-mistero-formale-jean-marie-gleize-1999), quale altra regola di concatenazione nota potremmo applicare qui?

Tunisi-consolato. Imposte.
Spiaggia di Marsa. Pellicola. Pozzi. Emorragie.
Cartagine-Dermech. Perdite di sangue. Porti.
Marsa-Cartagine. Immenso verde. «Città amorfa».
Cartagine-porta. Pendenza. Rue Matho. Forni.
Nabeul, impasse numero tre.
Kerkennah, verdi. Acque tiepide. Kerkennah-Sfax.
Sfax-Ospedale. Doccia. Nascita.
Il morto nel suo astuccio di vimini. Caffé-gabbia.
Muezzin-finestra. «Intervallo» (Parigi ventesimo). Alberi del pepe.
Cartagine-Tunisi. Arance. Fuoco di scorze.
Mosaici. Scatole sotto terra. Infanzia accorciata.
Sbriciolamento longitudinale.
Lingua, rete, Terme. No man’s land.
Teatro. Paura. Strade senza sbocco. Voci di maschere.

Nella new sentence (per esempio in Plasma, di Barrett Watten: http://gammm.org/index.php/2010/01/04/plasma-barrett-watten-1979)  si installa e volita un qualche diverso – sempre-diverso – irraggiarsi di possibilità; e, con ciò, aleggia anche la percezione che a partire da tale invisibile mediatore si può raggiungere all’interno del testo un accordo non già stipulato, nuovo, tra parlanti, o tra scriventi e leggenti.

Questo cambiamento, turning point (riferirlo a un “paradigma” è perfino limitativo), si è dato nella società, prima che in letteratura. Ma la letteratura non può non avvertirlo.

[Ancor più radicalmente semplificando. L’accadimento Niente più frasi fatte comporta un incremento di frasi da fare (da costruire)]

La mancanza, il non esplicitato, il nesso vuoto (o non-nesso) che separa frasi decifrabili ma che prese in sequenza non costituiscono un insieme logico e non formano sillogismo (pur essendo presentate come se fossero in sillogismo, consequenziali), ospita un nuovo spettro di possibilità di legame. Chiedono semantizzazione (ermeneutica e sguardo invasivo, scrivente) al lettore.

A costituire o suggerire l’esistenza dei nessi tra frase e frase, e dunque a riverberare novità su ciascuna singola frase, sta nella new sentence un ponte inedito, link sillogistico che si fa esplicito solo se ci si applica come co-creatori e si interviene con uno sguardo non passivo alla concatenazione di quel che si sta leggendo.

Nel gioco tra vuoto e spettro risiede non la sola ricchezza del funzionamento della frase nuova, ma tutto un differente modo di mimesi, uno spazio per la lingua, (non più nella sua materia fonica o grafica) di ospitare somiglianze ma anche mancate o suggerite o eluse somiglianze, o la stessa capacità umana (la possibilità) di istituire somiglianze effettive.

Quando, negli autori che scrivono dagli anni Sessanta in avanti, incontriamo opere e frasi nuove, non ci troviamo di fronte ad alieni privi di storia e contesto, piovuti a emettere incomprensibili effati in un mondo che non li capisce ergo giustamente li rigetta.

Al contrario, è proprio perché un passo logico di una evoluzione (non per forza lineare) linguistica umana comprende questo ultimissimo (forse già implicito nel parlare da secoli) modus della mimesi, è proprio perché questa facoltà esiste ed è nella vita e nei sottintesi di tutti i giorni, nel non detto con cui costantemente commerciamo, che gli scrittori possono far proprie delle nuove forme di scrittura e produzione di senso.

La nostra capacità di riempire i ponti sospesi e invisibili tra frasi apparentemente scollegate, la nostra fantasia attivamente creatrice, produttrice di nessi, è elettivamente all’opera nella frase nuova, e nella scrittura e lettura della frase nuova.

Ebbene, questa capacità, come vedevamo essere la lettera con l’oggetto, e la frase con la situazione reale, è anch’essa un pezzo di mimesi incastonato nel nostro sistema di emissione e scambio di senso:

Ci sono lettere fenicie che simulano oggetti, frasi inglesi che simulano una gerarchia, periodi francesi che organizzano una strategia concettuale; ma esistono anche ponti sospesi, nessi invisibili, passaggi non dati, elusi, taciuti, tra frasi apparentemente lontane, che a loro volta mimano le analoghe nostre capacità (oggettive, gerarchizzanti, concettualizzanti) di stabilire connessioni.

Il nuovo nesso è in definitiva il nesso eluso: non cancellato ma semmai profilato in negativo, lasciato a un lavoro di rilievo ermeneutico del lettore. Linea tratteggiata fra due punti.

E si tratta di un altro segmento della dimostrata “mimeticità” possibile del luogo (o corpo) che chiamiamo linguaggio. È linguaggio umano. Può non esserci estraneo.

È una facoltà umana, di fatto, non un’addizione esterna, strumentale, estrinseca, incomprensibile. È incomprensibile a chi non la esercita. Ma chi mai può non esercitarla? Tutti lavoriamo con nessi non visibili, tutti ne istituiamo. Rendiamo complessa e molteplice una riflessione valutando i rami che da un grappolo di cause possono portare a estensioni illimitate di altri grappoli di effetti.

È il lavoro (linguistico) normale di ogni giornata di ogni parlante, anche non scrivente.

*

Il ponte o nesso tra frasi, invisibile, che lega (o comunque ‘aleggia’ come possibilità di legame tra) nuove frasi, e le rende sensate, espone un meccanismo mimetico applicato a elementi inesibibili.

Non possiamo “spiegare” perché un nesso è pertinente, o perché la lettura sequenziale delle frasi corre senza ostacoli, ragionevole. Poniamo quel nesso o insieme di nessi come ponte invisibile tra frasi, e lo “vediamo” pertinente (pur non esplicitandolo). E a più persone sembra tale. (Ma a moltissime non dice nulla. Ovvio).

È in ogni caso indimostrabile la sua “giustezza”, perché ogni volta dovremmo tentare di riportarlo a un contesto sillogistico precedente la new sentence, e dunque a un insieme logico di cui esso rappresenta invece precisamente il superamento.

Questo rende evidente un fatto che constatiamo spesso: è impossibile (se non deprimente) spiegare una scrittura di ricerca. Il lettore la vede e intende da sé, e se così non accade è avvilente doversi diffondere in chiose: spiegare un’ironia è sempre didascalico; una battuta di spirito va colta al volo, non si può parafrasare esplicativamente; così, un testo sperimentale che fa affidamento sulla percezione e riscrittura di nessi da parte di chi legge non può esser disteso in piano (mappa col “voi siete qui” cerchiato in rosso).