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Ci sono elementi per considerare esaurita (nella ricerca, non nel mainstream, anzi) la fase storica che ha ospitato una posizione autoriale asseverante, assertiva (in senso non problematico, non radicalmente dubitante)? In effetti è quello che mi sembra di poter osservare, più che… asseverare.

Ma è detto altrove. È stato detto. Da molti, meglio e più che da me.

Qui semmai una nota personale.

Numerosi autori che stimo molto – specie italiani – e che rientrano pienamente nel cerchio di un modernismo, sembrano / continuano a sembrarmi interessanti senz’altro, se non indispensabili, e non penso certo sia possibile né legittimo metterli sulla fettuccia centimetrata della storia per inchiodarli a una posizione X “arretrata” rispetto a Y, … ma allo stesso tempo devo confessare che mi interessano di più altre esperienze.

Mi sembra insomma che gli (o molti degli) autori “prima del cambio di paradigma” mi chiedano di fare verso di loro un percorso che di suo impone a me lettore troppe tracce-prescrizioni (un percorso che non ha coscienza del proprio esser sovrascritto dal loro ego, umbratile e parcellizzato solo a parole: in verità del tutto adamantino, per come scrive e organizza, per come congegna la pagina).

Non trovo questa sicurezza negli autori “di dopo”. In Costa. In Tarkos. In Bordini. Non a caso questi mi persuadono integralmente.

Le petit bidon, di Tarkos, è sì un pezzo straordinariamente ben performato, in cui la voce ipercosciente dell’autore sa il fatto suo, anche su un fronte attoriale; ma – fra molte altre cose – è del tutto evidente, è addirittura tattile la sensazione della non necessità dei pezzi che comporrebbero il quadro. Tarkos funziona anche se lo prendi a martellate. E la voce è davvero staccata da se stessa, dal sé. Il testo funziona sulla carta, di suo, e anche a pezzi, non intero, comunque. (Recantorium, di Bernstein, frammentato funziona comunque, a perfezione). (Ha e non ha “struttura”). (Retro, di Costa, potrebbe durare trenta minuti, o due: nulla cambierebbe).

Al contrario, nel miglior modernismo, ora mainstream (poi spesso kitsch), tutto si tiene. Gesto conoscitivo complesso e gesto linguistico complesso si integrano, sotto il segno di quella che Giuliano Mesa chiamava “necessità” (in un articolo su “Baldus” nel 1996, poi sul “verri”, nel 2002: Il verso libero e il verso necessario): ma, allo stesso tempo, è proprio la pre-scrizione di questa necessità, e la sovraincisione della lettura altrui, a fare problema (fecondo, io credo); e a disgregarsi, felicemente, nelle scritture nuove, dopo il paradigma.

Per far posto, sostengo, a una differente ombra di necessità. A una diversa silhouette testuale, tagliata non più dalle sole mani dell’autore, secondo un modello che – pur non pregresso – poi imprime la propria necessità; semmai da un imprescrivibile cursore che oscilla tra il leggente e lo scrivente, e che non ha ancora trovato chi sappia disegnarlo, definirlo, dirlo. (Io meno di tutti).