corrispondenza privata (4)_ da una mail a un sito

[…] in sintesi estrema (e non potendo ahimé affrontare una discussione o dialogo a struttura larga/ampia, distesamente nel tempo):

–– Non sono convintissimo della ‘stabilità’ e a volte dell’esistenza stessa di un rapporto diretto storia/scrittura (culture/scritture, culture/tracce); (spesso mi interessano più le sconnessioni, i salti, le estraneità radicali, le deviazioni, o le migrazioni o asimmetrie più o meno indirette di segni fra aree di storie e aree di tracce); (e, se anche mi incuriosiscono talvolta i link-fili-legami stretti, e questo certo accade, ciò accade non in un senso – diciamo – storicistico).

–– Penso sia dimostrabile che tutta un’area di kitsch e/o heideggerismo italiano abbia bizzarramente ‘liquefatto’ la critica testuale, purtroppo; però giudico altrettanto dotato di senso il fatto che nonostante ciò (e rifiutando quelle aree, beninteso) si debba e si possa invece anche ‘liquidare’ buona parte della ‘normale’ critica testuale (i suoi giri in bici testardi su mere omofonie, soli prestiti, rime, sintassi, retoriche, citazioni, intertestualità, fonti, stemmi), stabilmente assisa cioè solo su quell’idea o paradigma lineare che decine di migliaia di esempi testuali (e non testuali) hanno in questi ultimi quattro-cinque decenni aggirato, evitato, magari ignorato, costruendo tutt’altro. Fabbricando altri ambienti, altre case, altre architetture. (Come l’arte contemporanea, per altro, insegna).

–– L’idea che ho di alcune opere (dico: delle opere che mi interessano) è diametralmente opposta a un’idea di “strumenti” atti a – come spesso si dice – “interpretare o comprendere la realtà”: se le opere che mi piacciono sono strumenti, lo sono proprio in quanto chiavi e aggeggi pressoché fallimentari (in primo luogo mancanti proprio di una omogeneità a categorie strumentali quali che siano; in secondo luogo mancanti anche di quel peculiare rumorino da ingranaggio artatamente rotto che sollecita la com-passione estetica di tanti avanguardioidi più o meno sottoboschivi coi quali felicemente ho smesso da anni di avere dialogo, se mai ne ho avuto).

–– Tutto quel che cerco di spiegare (a me stesso, innanzitutto) sul “cambio di paradigma” et alia, in questi ultimi tempi, va precisamente in direzione opposta a una volontà di non privilegiare poetiche a detrimento di altre.

–– La mia intenzione è proprio e precisamente quella di privilegiare alcune scritture ed escludere altre (dalle mie letture, e assolutamente non dal quadro della legittimità). (Con che diritto potrei mai?). Sono goloso di letture e – spero – mai ‘chiuso’ in categorie. Ma che dei cambiamenti non letterari ma percettivi siano avvenuti mi pare fuori di dubbio, e quello scritture che – loro sì chiuse e categoriche – non ne tengono mai conto possono interessarmi assai meno. Credo sia legittimo.

–– Il tempo è ossessivamente identico a sé: ci si confronta sempre con la morte, propria e altrui, il tempo è dunque drammaticamente, tragicamente poco, ed è per me finito quello utile (o inutile) per leggere tutto: non sento di avere voglia né spazi per occuparmi di testi scritti oggi ma che a fiuto daterei 1920 o non daterei affatto (perché il kitsch e il sottobosco sono ‘eterni’). Un certo dato e datato modernismo mi interessa se nato in quegli anni, e fino a poche manciate di anni dopo. Non oltre. Devo/voglio occuparmi di altro. Il sito gammm, i testi militanti su Punto critico e nella rubrica ‘gammmatica’ su “l’immaginazione”, la collana Benway Series, un’ulteriore collana allo studio, la mia pagina web Slowforward, le occasioni di incontro come EX.IT.

–– Così, come autore e critico, mi autoescludo (neanche troppo dolorosamente) da una considerazione paritaria o egalitaria delle scritture. Sottolineo “scritture”, non voglio dire “poetiche” (e se non dico “poetiche” è solo perché a mio avviso non sono in gioco queste, attualmente, bensì paradigmi). Genericamente parlando, poi: le scritture non sono paritarie. Ci sono autori che – anche a prescindere dal discorso sul paradigma – hanno stoffa e spessore; e altri no. Giocoforza. La rete rischia di essere la notte in cui invece tutte le vacche sono nere, e quattro fra i maggiori equivoci che hanno sempre contribuito a questa notte sono [1] lo storicismo (se un autore “sta” in una storia, avrà pur un senso: troviamoglielo! e poi difendiamolo contro ogni evidenza), [2] il rispondere empatico di un testo ai criteri analitici che lo osservano (la coerenza testuale come garanzia che tutto in assoluto si tenga), [3] la generosità delle sedi di critica e analisi testuale (o ecumenismo, garantito dal funzionamento di storicismo ed empatia suddetti), e infine [4] l’idea che, data una sede generosa, una storia accogliente, e un testo che risponde allo sguardo, tale testo non possa che contribuire (da bravo strumento) alla conoscenza con o senza virgolette della realtà con o senza virgolette. (Sempre la “realtà” in campo, come si  vede: mai che faccia capolino il “reale”. Mai il réelisme, “realness”).

–– Un sito, un post, un libro (e tengo sempre presenti le ultime pagine della prima parte di Della grammatologia, 1967, sulla “morte del libro”), una spiegazione a flusso lineare, un thread, un saggio, una lettera, un discorso che (come anche questa stessa mia mail, con i suoi rami e rametti che obbligano a uno switch continuo fra gradi di subordinazione, potature di opzioni, necessità di iterazioni, ecc.) dichiara e preorienta quel che già sappiamo essere la mia posizione sulle nuove scritture, ritaglia una silhouette negativa su uno sfondo che il positivo ha già in qualche modo determinato, prefigurato. Ebbene: non è (solo) così. (Ma io ho per forza solo la mail, il post, il libro, purtroppo, per manovrare le mie maldestre salite e discese per rami e rametti del discorso). Tuttavia, daccapo: non è così. Tutto ciò che nell’ultimo mezzo secolo costituisce linguaggio e vita quotidiana, per tutti noi, è tanto nell’ordine della linea/cerchio quanto nell’ordine della plurivocità (che non è “simultaneità”) (ergo: non è “futurismo”) (né, sbrigativamente, “avanguardie”, fra l’altro). Perciò è e sarà sempre straordinariamente inadeguato il discorso critico portato avanti in sedi di questo tipo (lettere, blog, …), che per altro sono le sole sedi che abbiamo, insisto.

–– Possiamo tuttavia piegarne le rigidità secondo tante libertà che – non da oggi – ci sappiamo prendere. Ma è precisamente quel tipo di piegatura che una rubrica, un post critico, un’analisi testuale-storica, una dichiarazione di intenti (come la mia, qui, ora) non possono articolare. Non possono, perché semmai esse “articolano” qualcosa nell’ordine della linea (il cartiglio del blog, della mail, ..). Per disserrare i discorsi, le tracce, la strategia dev’essere ed è già di fatto più semplice (naturale: nostra: quotidiana) e più complessa, in modi e luoghi e tempi che però sono sia costruibili sia esigenti. E, se non tutta la vita, chiedono una bella quantità di investimento, in tempo, forze, tentativi.

Chiudo dicendo che se pure le letture garroniane mi permettevano un’apertura vasta, e attivavano tutti i recettori, quelle derridiane non possono che sensibilizzarmi da sempre e daccapo verso quello che già vedo attorno a me. Quella cosa che si attraversa, indefinita, ogni momento, con i sensi.

E, permettimi, non vedo Vittorio Sereni o il primo Montale, tantomeno le recenti uscite dello specchio mondadoriano o della bianca einaudi, ma semmai gif e tabelle di treni, clip di cantanti e film di fantascienza, applicazioni per browser e bancomat. In una “casa dei doganieri” (alla lettera) ho vissuto, in campagna, per 14 anni. Ne aveva anche il colore, rosso mattone. Poi al ritorno a Roma, all’università, nel 1987, non ho trovato assolutamente niente di quello che mi diceva il da me amatissimo Montale degli anni Cinquanta. (Che, da intellettuale acuto e sensibile qual era, negli anni successivi aveva infatti cambiato radicalmente rotta, restando perciò perfettamente incompreso da alcuni critici). Ma ci ho messo anni a prendere atto di queste variazioni. e gli autori – per altro – che mi hanno detto e dato direzioni sono stati non italiani, non a caso. (In prima fila metterei il Cortàzar dei Cronopios y famas).

Come! Evito lo storicismo e “spiego” una parte della mia formazione col Montale degli anni Cinquanta, e parlo del 1987? Il Montale di Xenia e successivo era invece “in sincrono”? Era dunque “nella storia”? Chiaro: restiamo nella linea della mail. Nel blog, nel discorso a flusso. Che impone o suppone la retorica dell'”esempio”. Sono precisamente le debolezze da cui ci si dovrebbe saper liberare. Si vede che quella metà di me che affonda ancora in uno storicismo (perfino roversiano) novecentesco, e dunque capisce in pieno le note sull’inaggirabilità di un’idea di logos che Derrida considera/abbatte, è pur sempre una metà (indefinita, acquea) di ego, apparenza di “io”, di affermazione, di asserzione. Dunque non me ne libero. Al contrario: come dico di una folle in Shelter, di questi aghi più che liberarsi ci si può (giocando) rivestire. (Ma sapendo che si tratta pur sempre di un… abito fantasma).

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