mi basta poco / andrea tomasini. 2020

Senza obbligo di lettura…

Mi basta poco. Credo sia un momento brutto, o almeno opaco. Di grande disorientamento e intossicazione. Si, perché mi basta poco e mi va subito alla testa. Il pericolo di naufragare è concreto, subito chiaro e concreto. “Itaque pernicies postquam manifesta convaluit…”

Con maggior appropriatezza: non è che mi basti poco, nel senso che mi appaga. Anzi, tutt’altro: è che con poco me ne vado via, senza né approdi né ancoraggi, senza che riesca a portare a termine ciò che devo, o giungere dove dovrei, e resto insoddisfatto. Mi bastano poche righe e con quelle, senza che riesca a finire la pagina  io già sono lontano, partito verso altrove. Una frase, un’espressione, una metafora, una singola parola e in un attimo mi perdo appresso alla vertigine che mi causa. Non mi reggo in piedi e cado in quelle poche righe… No, magari inciampassi e cadessi. Potrei in qualche modo restarci, fermo a considerarle e, rialzandomi riprendere il percorso, da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso e pollice, con indice e pollice sfogliare il libro piegare la pagina successiva – magari come ho visto fare a Damiano che, quando legge, per “spiegare” bene la pagina insiste sul dorso del libro forzandone in senso inverso la piegatura, ponendolo di traverso gli infligge lo stress necessario perché i versi siano ben leggibili e i fogli bene aperti, avendo stampata sul viso un’espressione golosa per ciò che sta in procinto di assaporare…

No, non inciampo, non cado. Precipito. Mi sembra come mi trovassi a seguire Bianconiglio, lui incurante di me e dell’effetto che mi causa– ma non sono propriamente un bimbo, anzi al contrario vivo nell’età in cui sarebbe opportuno indossassi un panciotto con catena e orologio e dovrei esser ossessivamente capace di dire (e di accorgermi che) “È tardi, è tardi”. Invece, meravigliato di poco, però di tanto mi allontano dal tempo e dal luogo che sulla pagina a quel rigo segna la fermata della lettura e nello stesso momento la stazione di partenza. Il tutto inizia restando qui, nel giardino di casa…

L’avvio di un viaggio fatto di percorrenza, senza che giunga mai a una qualche destinazione. Improduttivo e ozioso – al confine con il vizio, il vizio della lettura. Ma è davvero lettura?

La meraviglia dovrebbe bastarmi, e in genere così è. Poi, quando mi desto, mi prende il disagio di chi sa di essere un uomo di mezza età che deve fare i conti con la propria mediocrità, inadeguatezza, inconcludenza. Guardo nelle tasche, osservo il quadrante dell’orologio e mi accorgo dell’ora che si è fatta. “È tardi, è tardi” – ma lo dico tra me e me. In un attimo mi avvedo delle coincidenze perse e dei treni che son passati, su cui pure mi sarebbe piaciuto occupare un posto – perché non di rado il biglietto ce l’avevo, a volte anche già obliterato, per non incorrere nella multa al momento del controllo sul convoglio in movimento…

Dispongo di numerosi biglietti inutilizzati ma non rimborsabili. Una collezione, mio malgrado. La pagina resta a lungo non conclusa e la vertigine si riaffaccia con nulla, ché se rileggo quella frase, quelle righe, quella parola, io ricomincio a precipitare. A volte basta anche solo il ricordo, o che altri vi facciano cenno.

Credo sia un problema di dipendenza, di picchi ematici, di metabolismo alterato… Sono intossicato e non so davvero come vada a finire. Un dolore lancinante e piacevole mi rende chiaro che non riuscirò mai a colmare la distanza tra desiderio e riuscita. Dovrei smettere, disintossicarmi, fermarmi. Fare altro. Giungere a concretezza, a fine pagina…

Poi però, magari un sogno riconnette tutto, s’innesca il cortocircuito e riprecipito nel barato, nello spazio bianco –vuoto- che c’è tra un punto e accapo e il capoverso successivo, naufrago con un nonnulla a conclusione di una frase, di un periodo, smarginando precipito.

“Si bene calculum ponas, ubique naufragium est”.

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